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Paolo Crepet «Le madri che uccidono i figli? Spesso storie di enorme solitudine»

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intervista a Paolo Crepet 

a cura di Manuela Trevisani 

L'Arena

22 settembre 2024

«Ai tempi dell’omicidio di Giulia Cecchettin, l’ho detto e ripetuto più volte: è semplicistico attribuire tutta la colpa al patriarcato, al maschilismo. È più complicato di così. Oggi è il caso di una mamma che spara al figlio di 15 anni, ieri era una ventiduenne che ha seppellito due neonati in giardino. Non è solo una questione di genere. C’è qualcosa che non funziona».

A parlare è lo psichiatra e scrittore Paolo Crepet, che dopo il dramma familiare di Vago di Lavagno, propone una riflessione a 360 gradi sulla fragilità dei rapporti sociali, sullo stato di salute della famiglia, sulla necessità di una «rivoluzione culturale». 

Dottor Crepet, ancora una volta una tragedia che si consuma dentro le mura domestiche. Cos’è che non funziona? Non funziona più niente. Nel mio libro «Mordere il cielo» parlo proprio di questo mondo ormai corrotto dalla solitudine, in cui ognuno è abbandonato a se stesso. Ci ritroviamo spesso di fronte a storie di solitudine gigantesche, di un malessere psicologico che nessuno riconosce o riesce a intercettare. È come se ognuno avesse vita a sé: non esiste più il senso di comunità. 

E nel mondo di cui lei parla, che ruolo ricopre la famiglia? Ormai si parla di residui di famiglia. La famiglia, intesa come comunità che ascolta, che sostiene e che vive per l’altro, non esiste più. Certo, ci sarà chi dice che questi sono casi eccezionali, ma se li mettiamo tutti in fila, il quadro che emerge è preoccupante. 

C’è consapevolezza di questo, secondo lei? L’omicidio di Giulia Cecchettin, di cui si è parlato tanto, mi ha spinto a fare due considerazioni. La prima è che probabilmente la cosa non ci interessa più di tanto. Allora si era parlato di fare educazione sentimentale, si erano mobilitate le piazze e anche tutti i partiti politici. Ci arrabbiamo, alziamo la voce, ma poi cosa si fa per cambiare davvero? 

E la seconda considerazione? Allora si è enfatizzato molto il tema del femminicidio. Da una parte c’è l’uomo violento e dall’altra la donna vittima. Più volte avevo detto che era semplicistico attribuire tutte le colpe al patriarcato e al maschilismo. E infatti, oggi, alla luce di quanto avvenuto a Vago di Lavagno e dei neonati sepolti a Parma, vediamo che ci sono anche molte situazioni all’opposto. Così come continuano a crescere i femminicidi. 

E come si dovrebbe intervenire allora? È visibile a tutti la quantità di indifferenza nei confronti dell’altro, eppure non si sta facendo nulla. Ci vorrebbe un maggiore impegno da parte delle istituzioni. Serve una vera e propria rivoluzione culturale. 

Ma quando accadono simili drammi familiari, quali possono essere le cause? Sono situazioni che degenerano, ma non da ieri, non da un mese. Famiglie litigiose, in cui manca un arbitro in grado di dare equilibrio. In alcuni casi, contribuiscono anche eventuali disturbi psichici. Spesso ci sono famiglie che non hanno le risorse per rivolgersi a specialisti o che nemmeno capiscono la necessità di intervento di qualcuno. 

E come ci si deve porre di fronte a queste tragedie? Le possibilità sono due. Possiamo trattare questi casi semplicemente come fatti di cronaca nera, trovare per ciascuno una giustificazione, per poi passare all’episodio successivo, ma mi sembra un esercizio sociale retorico. Oppure ci rendiamo finalmente conto che qualcosa non va. Bisogna capirlo. L’avevamo capito oltre 30 anni fa con il delitto Maso, e poi 20 anni fa con quello di Novi Ligure e ancora con l’infanticidio di Cogne. Eppure non si è fatto nulla. Ora invece serve un vero cambiamento. 

E da dove si può partire? Dall’educazione dell’infanzia. Le nostre case sono piene di bambini che giocano da soli nelle proprie camere, mentre i cortili sono vuoti. Non possiamo accettarlo: è l’inizio della barbarie, l’introduzione al peggio. I bambini che giocano insieme si relazionano, costruiscono rapporti, imparano a perdere: tutto questo oggi viene sostituito dalla tecnologia. Potrò anche sbagliarmi, ma i fatti, per ora, danno ragione a me.


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