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Giulio Michelini "La responsabilità del popolo ebraico nel processo e nella morte di Gesù"

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Febbraio - Marzo 2024 
(14 febbraio - 30 marzo) Anno B

Nella spiritualità così come nelle devozioni che costellano il periodo quaresimale, spesso ritornano motivi, preghiere e riflessioni che alludono al fatto che tutti noi siamo in un certo senso “responsabili” della morte di Gesù, in particolare continuando a rifiutare il dono della sua morte salvifica con il nostro agire segnato dal peccato. La domanda, tuttavia, sarebbe proprio: qual è questo senso?


Il presente dossier vorrebbe affrontare questo modo di dire: «Siamo responsabili della morte di Gesù», cercando di metterne in luce la pertinenza con l’autentica fede cristiana e il suo possibile significato per una matura e consapevole vita spirituale, evitando vittimismi o pseudo-spiritualismi. 


La partecipazione dell’umanità, a diversi livelli, alla morte in croce di Gesù richiede un serio discorso teologico, fondato su una ripresa meditata dei testi evangelici in tutta la loro portata, un valido ripensamento delle categorie teologiche troppo spesso “banalizzate” con superficialità, e la considerazione del valore della colpa e della responsabilità in prospettiva antropologica. 



Gli interventi qui raccolti vorrebbero offrire delle piste per fare chiarezza sull’argomento, recuperare gli elementi validi e fondamentali di questa espressione che ha segnato (e continua a segnare) la meditazione e la devozione cristiana, e insieme aprire nuovi orizzonti per sentirci positivamente partecipi dell’evento di salvezza e d’amore che è la morte in croce di Gesù. 


2. La responsabilità d’Israele nel processo e nella morte di Gesù, di Giulio Michelini. Il discorso teologico attorno alla morte di Gesù si è spesso spinto ad assegnare la “colpa” di questa morte al popolo ebraico, con conseguenze spesso drammatiche. Una seria rilettura biblica dell’argomento ci permette di comprendere il senso pieno, autentico e salvifico di quanto leggiamo nei testi evangelici.


1. Una ricerca in sospeso 


Joel B. Green, biblista statunitense, nel 2011 osservava che «già da tre decenni gli studi sulla crocifissione di Gesù sono passati dalla preoccupazione su chi avesse messo a morte Gesù alla domanda sul perché sia stato messo a morte in croce». Però è vero che di tanto in tanto la questione sulla responsabilità della condanna riemerge, anche negli studi accademici. 


Un esempio riguarda il ruolo del movimento religioso più influente al tempo di Gesù, quello dei farisei. Fino a qualche tempo fa sembrava ottenere un consenso unanime l’idea che quando iniziano i racconti della Passione i farisei escono totalmente di scena, e quindi non è loro la responsabilità della condanna. Recentemente, invece, è stata riaperta la discussione, riposizionando i farisei tra i responsabili della condanna di Gesù. Partendo dal contrasto che essi hanno esercitato nei confronti di Gesù sin dalla Galilea, Giorgio Jossa ha sottolineato il pericolo che i farisei avevano intravisto negli insegnamenti di Gesù, e le conseguenti azioni che avrebbero messo in atto per eliminarlo. 


Contro la «tendenza odierna a scaricare tutta la responsabilità della morte di Gesù sulle spalle di Pilato – scriveva Jossa – nel comprensibile umanissimo intento di liberare gli Ebrei da ogni colpa», si deve accettare che gli avversari responsabili della condanna non sono solo i sommi sacerdoti di Gerusalemme, ma anche i farisei: 


Ed è da questa collusione tra autorità giudaiche, sommi sacerdoti e capi dei farisei, e governatore romano, il prefetto Ponzio Pilato, che deriva alla fine la condanna a morte di Gesù. Come ha scritto lo storico ebreo Giuseppe Flavio nel suo famoso Testimonium, «Pilato lo condannò alla croce su denuncia dei primi tra noi» (1). 


Una risposta all’interpretazione di Jossa si impone. Innanzitutto, i conflitti di Gesù coi farisei dovrebbero essere considerati discussioni di scuola, e i toni anche a volte violenti degli scontri non devono essere visti necessariamente come prodromi di un odio o di una condanna a morte: gli esempi di diatribe tra rabbini (per esempio quelle tra Hillel e Shammai) sono innumerevoli e illuminanti. Inoltre, nei racconti della Passione i farisei sono assenti, la frase evocata da Jossa dal Testimonium di Giuseppe Flavio è notoriamente discussa, e la responsabilità attribuita ai «primi tra noi» è quasi certamente un’interpolazione antigiudaica (assente nella versione araba del testo), con la quale, in ogni caso, è più facile intendere i capi giudei che i farisei. 


Questo era solo un esempio di come la ricerca biblica e storica sia ancora attenta – nonostante quanto scriveva J.B. Green – alla questione di chi abbia voluto la morte di Gesù. E se la discussione che abbiamo riportato sopra è di stampo accademico, oggi si può ancora avvertire la tendenza ad attribuire la responsabilità della condanna all’intero popolo ebraico. È forse da una lettura distorta dei vangeli che può nascere tale opinione? 


2. Il popolo e il sangue. Due decisivi passi biblici 


Il testo neotestamentario che più di tutti ha influito sull’accusa di deicidio formulata nei confronti degli ebrei è una pagina della Passione secondo Matteo. La ragione si trova nelle parole pronunciate da «tutto il popolo» di Israele («Il suo sangue [ricada] su di noi e sui nostri figli», Mt 27,25) nell’iconica scena della lavanda delle mani da parte di Pilato, che sposta la bilancia della “colpa” da chi si auto-dichiara innocente (Pilato) a chi viene invece responsabilizzato (il popolo ebraico). 


Proviamo a distinguere due problemi che questa scena solleva. Il primo riguarda l’espressione «tutto il popolo», e il secondo è la formula «il suo sangue su di noi…».


1. Da come si intende il sintagma «tutto il popolo» ne derivano conseguenze non solo per la comprensione della scena matteana, ma anche per una teologia cristiana dell’ebraismo. Infatti, coloro che identificano «tutto il popolo» con l’intero Israele e i suoi discendenti, arrivano alla teologia della sostituzione; coloro che intendono l’espressione per descrivere solo quelli che in quel tempo e in quel luogo erano davanti a Pilato, lasciano spazio invece a una funzione salvifica attuale di Israele nella storia. 


Una delle chiavi più sicure per risolvere la questione viene dai risultati della ricerca di un eminente studioso statunitense, Anthony J. Saldarini, incentrata sull’uso dei termini indicanti la collettività nel Vangelo di Matteo. L’esegeta spiega che laós («popolo») nel Primo vangelo non è un lessema tecnico con un solo significato, e anche se normalmente implica Israele è in grado di assumere diverse sfumature a seconda del contesto: nel caso del nostro versetto sarebbe un sinonimo di «folla», un sottogruppo che dai leader istituzionali di Israele viene allontanato da Gesù, e non significa perciò «tutti gli ebrei». A questa lettura si può aggiungere un’altra idea, che può sembrare addirittura scontata: nel pretorio di Gerusalemme era impossibile che ci fosse «tutto» il popolo d’Israele. Sono presenti, come leggiamo in Mt 27,20, i sommi sacerdoti, gli anziani e, appunto, la folla, e i presenti non possono essere considerati come i rappresentanti dell’Israele di Dio. 


2. La frase: «il suo sangue su di noi e sui nostri figli» di Mt 27,25b, che secondo uno studioso avrebbe «causato lo scorrere di un oceano di sangue umano, e un’inarrestabile corrente di miserie e di desolazione», è forse il versetto più difficile dell’intero Vangelo di Matteo. La storia delle sue interpretazioni è complessa. Si è passati dall’interpretazione classica dell’automaledizione, secondo la quale Dio avrebbe preso alla lettera le parole della folla (Vox populi…), intese come scongiuro a proprio danno, a quella – sorta soprattutto a seguito della nascita del dialogo ebraico cristiano, e in special modo dopo la tragedia della Shoah – che comunque dipende dall’idea di una maledizione, ovvero la tesi di un’assunzione di responsabilità. Il grande esegeta Raymond E. Brown scriveva, per esempio: «Le folle che parlano (dal punto di vista di Matteo) a nome di tutto il popolo se ne assumono la responsabilità. Non sono persone assetate di sangue, né senza cuore; infatti sono convinte che Gesù è un bestemmiatore, come il Sinedrio lo ha giudicato». 


Il punto debole di questa visione risiede sulla convinzione che quella porzione di popolo rappresentasse tutto Israele e, soprattutto, sull’assunto che i cristiani di Matteo si sentissero oramai in un conflitto irreparabile con gli ebrei, e si considerassero completamente “un’altra cosa” rispetto a essi. Ora, invece, siamo in grado, grazie agli studi più recenti, di vedere la comunità di Matteo sì in conflitto con il giudaismo, ma ancora “dentro” il giudaismo stesso. 


Quelle che, in ordine di tempo, rappresentano le penultime interpretazioni riservate a Mt 27,25 sono centrate sulla categoria dell’ironia, e hanno interessanti elementi positivi, ma anche dei limiti, sottolineati dalla neotestamentarista ebrea Amy-Jill Levine: qui il popolo d’Israele verrebbe “ridotto” solo a coloro che accettano – inconsapevolmente! – il valore salvifico e purificatore del sangue del Messia. Questa tesi, insomma, farebbe diventare tutti gli ebrei dei criptocristiani, «ansiosi di partecipare al sacrificio di Gesù». 


3. Il sangue della Passione, il perdono dei peccati 


Partendo da quest’ultima lettura si può anche guardare meglio al contesto del racconto della Passione di Matteo: esso, infatti, è fortemente segnato dal tema del sangue, che nella simbolica ebraica portava sempre con sé la remissione dei peccati. Matteo, a nostro avviso, vede gli avvenimenti della passione e morte di Gesù come un sacrificio espiatorio che porta al perdono dei peccati proprio grazie al sangue e alla sua rievocazione: l’evangelista, costruendo tutta la sua Passione sul “filo rosso” del sangue di Cristo – da quello del calice dell’Ultima cena, a quello invocato dalla folla, fino a quello uscito dal costato di Cristo (2)  e a quello del “campo di sangue” –, più che dimostrare chi è responsabile della morte del Messia, vuole mostrare come abbia luogo il perdono dei peccati di Israele. 


La frase «il suo sangue su di noi…», infatti, richiama il rito del Kippur, nel quale l’aspersione del sangue comportava salvezza, non maledizione o morte. Il sangue versato da Gesù salva tutti, anche, e soprattutto, il popolo dal quale proviene il Messia: «Gesù non è morto solo per i gentili, ma per tutta l’umanità. È il “riscatto per tutti” (1 Tm 2,6), sia ebrei che gentili. La teologia cristiana deve prendere sul serio tali parole, anche nei confronti di Israele» (F. Mussner).


1 G. Jossa, Chi ha voluto la morte di Gesù?, San Paolo, Milano 2011.


2 In alcuni codici importanti, come il Sinaitico, il Vaticano e altri ancora, in alcuni manoscritti della Vulgata e in una versione copta, alla fine di Mt 27,49, dopo «vediamo se viene Elia a salvarlo», si trova la frase: «Un altro, allora, presa una lancia, trafisse il suo fianco, e ne uscì acqua e sangue», simile a quella di Gv 19,34, dove però il sangue esce dopo la morte di Cristo. 


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