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Michela Murgia e José Tolentino de Mendonça "Pace e silenzio"

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Un equilibrio tra rispetto, giustizia e volontà

di Michela Murgia

La pace e il silenzio sono due parole che associate – nell’intuizione di chi le ha scelte tra gli altri termini chiave di questa riflessione collettiva – hanno il potenziale per declinare in modo significativo la domanda di Dio del nostro tempo.

Ho accettato onoratissima questa interlocuzione perché sono d’accordo con questa intuizione, ma prima di affrontare la portata di questi due termini, che hanno la natura feconda e moltiplicativa di due veri e propri uteri semantici, occorrerà, io credo, che si ragioni insieme sugli equivoci tossici di cui l’uso e il frequente abuso li hanno resi gravidi. Mi soffermerei anzitutto sul termine “pace”, che nella Chiesa è oggetto di una riflessione centenaria ininterrotta che nella contemporaneità ha condotto a conclusioni molto articolate e ricche, anche se non sempre foriere di un’omogenea prassi pastorale, tanto che sulla questione continuano a convivere contraddizioni difficili da spiegare; accanto alle esperienze derivate dalla riflessione di don Lorenzo Milani, Chiara Lubich e don Tonino Bello, rimane infatti numericamente invariata la schiera dei cappellani inquadrati nelle gerarchie militari e a ogni festa annuale delle forze armate il color ciclamino episcopale squilla ancora inossidato accanto alle mostrine dei generali, come se quella ecclesiale non fosse in fondo che una gerarchia tra le altre.

Nella mia riflessione insisterei con particolare attenzione proprio sul rapporto di senso tra quello che comunemente definiamo pace e quello che abitualmente riconosciamo come gerarchia, perché la ricerca della pace non può essere disgiunta dalla presa di coscienza delle strutture che la minano. La premessa necessaria al mio discorso è l’evidenza che tutte le strutture gerarchiche – cioè tutte le strutture che per reggersi hanno necessità di un rapporto di potere non discutibile tra superiori e inferiori – sono per loro stessa natura sistemi “armati”, dentro ai quali le logiche della violenza e della sopraffazione non appaiono come il casuale risultato di individualità prive di disciplina di cui la struttura risulta suo malgrado vittima, ma sono invece un elemento ontologicamente connaturato alla sopravvivenza stessa dell’impianto gerarchico. Senza l’accettazione del principio di violenza non esiste gerarchia, perché la gerarchia si fonda sull’esistenza di una superiorità e di un’inferiorità organizzate e rispettate come tali. Chiunque discutesse la legittimità di questo rapporto tra forze diseguali lo minerebbe alla base, e infatti nessuna gerarchia nella storia, sia essa militare, civile, politica o religiosa, ha mai ritenuto di poter fare a meno di dotarsi di meccanismi punitivi e inibenti verso le forme di ribellione e sovversione della graduatoria del proprio potere. Pensare dunque di affrontare la questione della pace senza affrontare al contempo l’esistenza strutturalmente violenta dei sistemi gerarchici, anche e soprattutto nella Chiesa, significa rinunciare ad andare al cuore, direi alla radice più viva della questione. Ma se non possiamo chiamare pace la quiete implacabile che il sistema gerarchico lasciato a sé stesso riesce a generarsi intorno, allora la pace cosa è? Nella declinazione di cui io sento di non poter fare a meno (il mondo non so, non ho la pretesa di discernerlo, ma invero mi pare ne faccia a meno benissimo), la pace è il millesimato equilibrio che regge insieme tre cose precise: rispetto, giustizia e volontà.

Rispetto è la connotazione della pace che considero per prima e ci tengo a chiarire che non è un termine che ho posto in questa sequenza per ansia personale di politicamente corretto. Il rispetto per me è necessario alla pace proprio nel suo significato etimologico di “guardare indietro”. Guardare indietro è un’espressione curiosamente carica di significati negativi nel linguaggio comune italiano. L’atto del guardare avanti è considerato cosa buona e lungimirante, che dichiara il possesso di un orizzonte ulteriore e si declina nell’incedere deciso di chi sa dove sta andando. Guardare indietro appare invece come esitazione e indugio, scarsità di determinazione, incertezza della meta, addirittura recriminazione sul latte versato. Nella Bibbia la moglie di Lot è l’incarnazione simbolica dei rischi che derivano dal guardarsi indietro: l’atto di guerra tra il Signore e la città di Sodoma ci viene presentato come qualcosa che esige spalle voltate e occhi rivolti oltre, pena la morte per troppo vedere. Chi volta le spalle e guarda avanti è già in guerra, chi guarda indietro è ancora dentro allo spazio negoziale dove la pace non è del tutto annichilita. Eppure la fine della moglie di Lot è ambita da nessuno; tutti ci adoperiamo per guardare avanti e passare oltre, come se il cammino cominciasse nel punto esatto in cui il piede deve ancora posarsi, invece che continuare su una linea spesso discontinua, talvolta in salita, ma comunque cominciata ben prima dell’attimo presente. L’esigenza del rispetto richiede invece di tenere conto, come atto di riguardo verso ciò che c’è davanti, proprio di quel che c’è alle spalle. Guardarsi indietro è un atto di memoria, significa tenere a conto i percorsi fatti e fare tesoro delle geografie acquisite. Poiché la pace è una condizione collettiva e non individuale, guardarsi indietro è un atto di cura: significa anche non smettere mai di stare attenti a che nessuno rallenti al punto da perdersi e non poterci più raggiungere. Guardarsi indietro significa anche sapere da dove partiamo, che è importante tanto quanto sapere dove stiamo andando, non fosse altro perché è l’unico capo del percorso che possiamo definire con certezza. Le mete si cambiano, le partenze non più. Il rispetto è la consapevolezza di star viaggiando con un bagaglio che non può essere ignorato se non a rischio di perdere la strada o non arrivare mai a destinazione, se destinazione c’è. È interessante che sia il tedesco ad avere una parola – Rückblick – che definisce il guardare indietro senza dare al gesto alcuna connotazione negativa. La continua edificazione di memoria collettiva di un popolo che certo non prova alcun piacere a guardare indietro alla sua terribile storia recente ci dice molte cose sul perché la Germania oggi è il Paese europeo a più alto tasso di integrazione a fronte di fortissimi flussi migratori in entrata. L’Italia, che ha mancato molte volte l’appuntamento con le sue memorie storiche, ha enormi difficoltà a costruire una pace sociale duratura e condivisa e una cultura dell’accoglienza e della tolleranza che non sia mera facciata.

La questione della giustizia sociale è altrettanto fondante nel discorso sulla pace. Direi anzi che senza una profonda presa in carico della questione della giustizia sociale non abbiamo neanche il diritto di parlare di pace. Nessuno si può permettere di pretendere che l’oppresso, il povero, il discriminato e l’emarginato “lascino in pace” l’oppressore, l’arricchito, il privilegiato e il dominante. È curiosa l’espressione “lasciare in pace”, una pace che sa di abbandono e di quiete, di separazione, di inerzia. Invece la pace a volte grida. A volte tira sassi. A volte piange e ci sveglia quando siamo già comodi sul divano a guardare la tv, in santa pace. I migranti turbano l’equilibrio della nostra idea di patria? I diseredati appiccano il fuoco ai cassonetti delle nostre periferie? I poveri, i dimenticati e i deprivati urlano in piazza la loro rabbia, spaccano le vetrine e occupano case e scuole? Fanno rumore, disordine e spesso distruggono, è certo, ma la pace continuano a essere loro, non noi. La nostra pace è la pax romana: una quiete armata frutto di supremazia e sottomissione. Fino a quando accetteremo che pace e quiete siano considerati sinonimi staremo postulando l’esistenza stessa del conflitto e dunque l’unico volto della pace che vedremo sarà quello sfigurato della paresi sociale determinata dalla forza di chi possiede un esercito da mandare contro i poveri e gli emarginati. Giustizia non significa uguaglianza, né le due cose vanno confuse: la disuguaglianza di partenza è un dato individuale naturale. Le intelligenze, le attitudini, le inclinazioni caratteriali, i dati biologici: al di là delle similitudini statistiche sui grandi numeri, tutto è disuguale nella nostra natura. La disuguaglianza naturale è la ragione per cui ci serve la giustizia sociale, a meno che non vogliamo che la disuguaglianza resti una condizione ineludibile.

Qual è dunque il rapporto tra disuguaglianza, giustizia e pace? Fintanto che la disuguaglianza viene assunta come un destino, la pace non può coesisterci. Si può cominciare a parlare davvero di pace solo quando si pone in dubbio che il dato di partenza della disuguaglianza sia sufficiente a decretare l’esito dell’esistenza di chi nasce dalla parte debole della leva sociale. Che alcuni nascano individualmente poveri, svantaggiati, deboli o meno dotati è un fatto oggettivo. Che essi debbano restare in questa condizione per sempre è una scelta sociale che ci interroga tutti e certamente non permette di cavarsela superficialmente con l’escamotage dell’equità: don Milani sintetizzò perfettamente come la più grande ingiustizia fosse proprio la pretesa di fare parti uguali tra disuguali. Si riferiva al sistema di valutazione della scuola dell’obbligo, ma è una frase mirabilmente sintetica di molti altri tentativi di scambiare la giustizia con l’uguaglianza. Fare parti uguali tra soggetti disuguali non è equità, ma un’ingiustizia più subdola, un’iniquità che ha studiato ipocrisia. La fatica di fare la pace e quella di fare la giustizia sono la stessa fatica. Chi afferma di fare la prima senza spendere energie anche per la seconda sta facendo un’affermazione politicamente realistica, ma evangelicamente infondata. La teologia della liberazione assunse questo dato come fondativo e la conferenza di Medellin lo fece dottrinalmente proprio quando teorizzò la necessità dell’opzione preferenziale per i poveri. Come è finita allora – anche teologicamente – lo sappiamo, ma è un’esigenza primaria chiederci qui come deve proseguire oggi il discorso sulla pace, perché siamo ancora davanti alla pressione drammatica delle differenze economiche mondiali che segnano in maniera insostenibile le esistenze di uomini e donne di ogni latitudine. Una risposta può venire dalle nuove forme di economia, quelle post capitaliste, che vanno sotto il nome di “economie di condivisione” o “economie collaborative”. Mi permetto una citazione testuale: «Le entrate nelle tasche degli americani attraverso l’economia collaborativa quest’anno supereranno i 3,5 miliardi di dollari, con una crescita superiore del 25% rispetto all’anno precedente. L’economia di condivisione si sta spostando di segno: dall’essere un supporto al reddito in un mercato stagnante a diventare una forza economica dirompente»Lo dice «Forbes» di questo mese, non il settimanale del volontariato parrocchiale, e credo che valga la pena dedicare a queste novità vite intere di studio a questo nuovo modo di produrre e scambiare ricchezza economica riconoscendo come un valore quella umana. Lo dobbiamo alle persone che sempre più ci inonderanno le coste con la loro speranza di un futuro migliore. La nostra pace non può avere il volto della loro disperazione.

La volontà è un elemento costitutivo della pace, perché la pace è qualcosa che in natura con ogni evidenza non esiste: tutta la creazione geme e soffre, dice Paolo, in guerra costante con se stessa, dominata dalla legge del più forte dove il debole soccombe e nessuno ne ha pietà. Quello che chiamiamo pace non è dunque un equilibrio innato di cui noi, genere umano senziente, siamo il turbamento, ma un’azione culturale dinamica e responsabile che come umanità abbiamo invece direttamente in carico e che si esplicita attraverso il continuo aggiustamento della linea della disuguaglianza naturale. La pace di cui parlo è cosa propriamente umana, non naturale, ed è il risultato di uno sforzo culturale complesso e consapevole, oltre che di una resistenza a molte forze opposte, la prima delle quali è quella che pretende che la disuguaglianza naturale rappresenti per ciascuno una sentenza non modificabile. La pace bisogna decidere di volerla e di essere disposti a sostenerne i costi in termini personali e collettivi. Non basta non volere la guerra: occorre volere fortissimamente la pace, che non è quello che rimane quando tutte le armi hanno smesso di sparare, ma quello che comincia quando tutti gli occhi hanno smesso di piangere.

Ho volutamente omesso di trattare il termine silenzio in questa riflessione sulla pace perché avverto le insidie di questo abbinamento e non desidero farmene complice in virtù della sin troppo abusata spiritualità del bel tacere. Non credo sia casuale se nei sistemi gerarchici il silenzio sia tenuto in gran conto, perché dove la volontà è sottoposta al vincolo dell’obbedienza, si può imporre silenzio al dissenso e invertire il segno dell’azione del singolo in ordine agli scopi dei superiori in struttura. In questo senso il silenzio non è un valore. «Usi a obbedir tacendo» è un motto assai adatto alle forze dell’ordine, ma non ai figli di un Dio che ha creato il mondo con la parola, strappandolo al silenzio della non esistenza.

Per una società dell’ascolto
di José Tolentino de Mendonça

A quanto sembra, per anni John Cage studiò la possibilità di elaborare un’opera totalmente priva di suono, ma due cose glielo impedirono: il dubbio che una tale impresa potesse essere destinata al fiasco immediato, giacché tutto è suono, e la certezza che una composizione del genere risultasse incomprensibile nell’ambito dello spazio mentale della cultura dell’Occidente. Tuttavia, incoraggiato dalle esperienze che si andavano già realizzando nelle arti visive, costruì il suo pezzo intitolato 4’33”. La proposta di John Cage era assolutamente anomala: gli orchestrali dovevano salire sul palcoscenico, salutare il pubblico, sedersi ognuno al suo strumento e restare lì, in silenzio, quattro minuti e trentatré secondi. Dopodiché dovevano alzarsi, ringraziare la platea e andarsene. La protesta del pubblico fu generale e venne giù una pioggia di fischi. Ma per tutto il resto della vita, John Cage continuò a parlare di questo suo pezzo con sentita considerazione: «Il mio pezzo più importante è quel pezzo silenzioso; non passa giorno senza che me ne serva per tutto quello che faccio. Lo ristudio immancabilmente ogni volta che devo scrivere un pezzo nuovo».

Quando penso al contributo che l’esperienza religiosa potrà dare in un prossimo futuro all’umanità, penso francamente che, più che la parola, sarà la condivisione di quel patrimonio immenso che è il silenzio. Già il racconto biblico di Babele mette a nudo i limiti dell’impulso totalitario della parola. Anche se costruissimo la parola a mo’ di torre, dovremmo accettare il fatto che la parola non può arrivare fino al mistero dei cieli o alla totale comprensione terrena. Con la parola facciamo l’esperienza della differenziazione, esperienza certamente fondante, ma anch’essa parziale, anch’essa insufficiente. Abbiamo bisogno di un’altra scienza alla quale ricorriamo di rado: il silenzio. Isacco di Ninive, verso la fine del VII secolo, sentenziava: «La parola è l’organo del mondo presente: il silenzio è il mistero del mondo che sta per arrivare». Credo che sia assolutamente urgente rivisitare, secondo una valutazione diversa, i territori dei nostri silenzi e farne luoghi di scambio, di dialoghi, di incontri. Il silenzio è uno strumento di costruzione di pace. Le nostre società investono tanto nella costruzione di competenze nel campo della parola (e pensiamo a come la scolarizzazione sia al servizio della capacità di convincere gli individui ai fini di un funzionamento efficace nell’ambito della parola) e tanto poco nelle competenze che operano nel silenzio. Siamo analfabeti del silenzio ed è questo uno dei motivi per cui non sappiamo vivere nella pace.

Il silenzio è un trait d’union. Nella diversità delle tradizioni religiose e spirituali dell’umanità, il silenzio è un trait d’union più frequente di quanto s’immagini e più fecondo di quanto si ritenga. Si tratta in realtà di una grammatica comune. Nella tradizione musulmana, per esempio, il centesimo Nome di Dio è il nome impronunciabile che non si può invocare se non in silenzio. I mistici di tutte le geografie non si sono mai stancati di esplorare questo spazio. Si veda il persiano Rumi (1207-1247) che erudisce il suo discepolo: «A colui che conosce Dio mancano le parole». In un’altra latitudine abbiamo la nota spirituale di Lao-Tse, «il suono più forte è quello silenzioso» o quella di Basho, «Silenzio/una rana s’immerge/dentro di sé», o quella di Eléazar Rokéah di Worms, cabalista ebreo, che afferma: «Dio è silenzio». Anche la Bibbia valuta minuziosamente il silenzio di Dio, come attesta il dittico che ci offre il Libro delle Lamentazioni: «È bene aspettare in silenzio la salvezza di Dio». Il silenzio ha tutto per diventare un sapere condiviso quanto all’essenziale, quanto a ciò che ci unisce, quanto a ciò che può, per ciascuno di noi come individuo e per tutti come comunità, gettare le fondamenta dei modi possibili per reinventarci. Ma per questo abbiamo bisogno di un’iniziazione al silenzio, che equivale a dire un’iniziazione all’arte di ascoltare.

Nella società della comunicazione c’è un deficit di ascolto. In una cultura della valanga di parole come la nostra, un vero ascolto si può configurare solo come una risignificazione del silenzio, un arretramento critico di fronte al delirio di parole e messaggi che a ogni istante vorrebbero impadronirsi di noi. L’arte dell’ascolto, perciò, è un esercizio di resistenza. Stabilisce una discontinuità rispetto al reale apparente, alla successione oziosa del discorso, all’alluvione che la telenovelizzazione del quotidiano (politico, economico, religioso o culturale che sia) comporta. L’ascolto costituisce una cesura, un taglio simbolico, uno spostamento, una pratica d’attenzione.

Permettetemi d’inserire qui una storia presa dal quotidiano. Chi frequenta le università ecclesiastiche di Roma conosce un mendicante che gira per tutto il centro storico. Un uomo che avrà oggi una sessantina d’anni, con un aspetto discreto, direi quasi fine. Avvicina i passanti con due domande. Attacca con: «Parla italiano?» e quale che sia la risposta, passa alla mossa seguente. Prende con molta cura una moneta tra due dita e te la mette vicino agli occhi domandando: «Ha 100 lire?». Quando l’ho conosciuto le cose andavano così. Tempo dopo, con l’introduzione dell’euro, è passato a chiedere 10 centesimi. La prima volta che t’interpella con quella richiesta, pensi che si tratti della differenza di cui ha bisogno per arrivare all’importo di un biglietto della metropolitana o di un pezzo di pizza. Ti può capitare d’incontrarlo cento volte eppure rimani sempre lì, senza sapere cosa pensare. Ma un giorno ho assistito a una scena che forse spiega una parte dell’enigma. In una strada nei pressi del Pantheon sta seduto un altro mendicante. Prostrato, sarebbe meglio dire “vestito di stracci”, un braccio deformato da tumefazioni, un’aria che è l’immagine di tutto: dolore ed esclusione. Da distante, vedo il protagonista della nostra storia avvicinarsi a lui. E percepisco, con stupore, che ripete al mendicante la cantilena che rivolge a tutti gli altri, mostrandogli insistentemente una moneta. Forse per allontanarlo, forse vinto dalla compassione, vedo il mendicante prendere dal suo piattino una moneta e consegnargliela. E a questo punto la scena si fa indimenticabile. L’uomo s’inginocchia, lì, davanti a tutti, afferra le mani del mendicante e, in preda a una grande emozione, le bacia ripetutamente. Non chiedeva soldi. Chiedeva un bene più raro e vitale: chiedeva il dono. Se non ci fermiamo ad ascoltare quello che chiediamo in silenzio, non ci troveremo mai.

Trovare nella Bibbia una pedagogia del silenzio. Un detto rabbinico dice che, alla fine dei tempi, quando il Messia verrà a portare la luce su tutte le cose, spiegherà non solo il significato delle parole della Scrittura, ma anche quello degli spazi bianchi tra parola e parola. Leggiamo la Bibbia come un’avventura di rivelazione per mezzo della parola e dimentichiamo che la rivelazione avviene anche attraverso il silenzio che la Bibbia stessa custodisce in sé. Dobbiamo imparare a leggere la Bibbia come un’iniziazione spirituale al silenzio.

La percezione del silenzio che la Bibbia propone, è, in misura predominante, in chiave positiva. Il profeta Elia sente la presenza di Dio non nello scoppio dell’uragano, d’immediata percezione acustica, ma nel lievissimo mormorio di una brezza (1Re 19,11-12) tanto debole da richiedere una verifica. Alla sfida di Dio, «Chiedimi ciò che vuoi», Salomone risponde: «Dammi un cuore che ascolta» (1Re 3,9). I libri sapienziali, attraverso il silenzio, costruiscono un percorso verso la mistagogia (entrata nel mistero profondo dell’Essere). Chi legge Qoèlet apprende il silenzio come prudenza: «C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7). «Non affrettarti a profferire parole» (Qo 5,1) si suggerisce in un altro passo. Sulla stessa linea il libro dei Proverbi: «Nel molto parlare non manca la colpa; chi frena le labbra è saggio» (Pr 10,19). Lo stesso Giobbe, nella sua tagliente teologia di protesta, tace, alla fine, davanti a Dio: «Giobbe prese a dire al Signore: Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca; ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò» (Gb 40,4-5).

Il silenzio di Gesù comincia con la cosiddetta “vita segreta”, quella che precede la sua attività messianica; silenzio evidente nell’errare di Gesù per deserti e solitudini; e si concentra specialmente nel teatro della sua passione. Gesù attraversa in silenzio il complesso processo giudiziario che lo condanna, al punto che i primi testi cristiani stabiliscono un parallelo tra lui e il personaggio del Giusto sofferente di Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare, ma non aprì la sua bocca: era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7). Gesù tace davanti al Sommo Sacerdote che lo interroga (Mt 26,62-63), davanti a Erode (Lc 23,9) e infine davanti a Pilato (Gv 19,9). È il silenzio della vittima. Ma è anche il silenzio dell’abbandono fiducioso, al di là di ogni evidenza, contro ogni speranza. È così, in questa forma umanissima ed enigmatica, che s’intesse in noi una vita di Dio.

La tradizione cristiana è una scuola di silenzio. I Padri del deserto trasformarono il silenzio in una cultura, una cultura religiosa e politica. Evagrio asseriva la necessità del silenzio per la preghiera: «Che la tua lingua non pronunci parola quando ti metti a pregare». Arsenio designava il silenzio come luogo indispensabile per il raggiungimento della maturità libera e creativa del soggetto: «Fuggi. Taci. Resta in raccoglimento». Danno per certo che il silenzio genera la capacità di attraversare pacificamente spazi e convivenze: «Se veramente osserverai il silenzio, quale che sia il luogo dove ti trovi, troverai pace». Agatone tenne dei sassi in bocca per tre anni, non per diventare un oratore come Demostene, ma per imparare a tacere, dando testimonianza che esiste un apprendistato per la pratica del silenzio. Pambon riceve il patriarca Teofilo senza dire una parola. Poi spiega: «Se non si sente accolto dal mio silenzio, certamente non si sentirà accolto dalla mia parola». Il silenzio è una stupefacente forma di ospitalità.

Dalle posizioni dei Padri della Chiesa sul silenzio si distacca Gregorio Nazianzeno (morto nel 390). Per lui il silenzio è più importante del deserto e del digiuno: «Tu cerchi il deserto e il digiuno, io il silenzio». Più che un’ascesi, il silenzio è un dono da chiedere e accogliere con urgenza. In un inno per il giorno di Pasqua, ponendo fine al silenzio assoluto imposto durante la Quaresima, Gregorio canta: «Oggi faccio sentire la mia voce; apro le labbra che il silenzio teneva serrate e tu trovi in me una cetra pronta a suonare». Il silenzio ci prepara alla musica, che non prende il volo senza silenzio. Dionigi Areopagita, teologo e filosofo neoplatonico (fine V secolo-inizio VI), sviluppò la teoria della dimensione mistica del silenzio. Ascoltiamolo: «Osiamo negare ogni cosa concernente Dio per arrivare a quella sublime ignoranza a noi nascosta da ciò che sappiamo sul restante degli esseri, fino a contemplare quella oscurità soprannaturale celata al nostro sguardo dalla luce». Oppure: «Oh, Trinità..., tu che presiedi alla divina sapienza cristiana, portaci non solo al di là di ogni luce, ma al di là di ogni ignoranza, fino alla più alta cima delle Scritture mistiche, dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della divinità si rivelano nelle Tenebre più che luminose del Silenzio. È nel silenzio, infatti, che si apprendono i segreti di queste Tenebre... che brilla con luce più luminosa nel grembo della più nera oscurità...».

Diciamo pure che il filo del silenzio non si può mai spezzare anche se oggi sembra inaudibile. Tra i Padri Latini, San Girolamo arriva a dire che il monaco si riconosce dal suo silenzio, non dalla sua parola. Per Ambrogio, il silenzio è indispensabile se vogliamo «custodire il segreto del Re Eterno». Agostino diceva che la vera preghiera è quella del cuore, nel silenzio.

Il silenzio indaga sulla possibilità dell’impossibile. Una formulazione teologica positiva, catafatica, cerca di delineare gli attributi rivelati di Dio e la loro azione sulla storia. La teoria, che tenta di descrivere le teofanie e di caratterizzarle in modo intelligibile, è però definita, dalla tradizione patristica, “simbolica” e “soltanto simbolica”, giacché è impossibile ridurre la realtà trascendente a un qualsiasi sistema di pensiero. Gregorio Nisseno avverte che «i concetti creano idoli» quando li usiamo per enunciare Dio. Secondo lui, «il mistero si rivela al di là di qualsiasi conoscenza, perfino al di là di qualsiasi ignoranza, nelle tenebre più che luminose del silenzio», quelle tenebre che «soltanto la contemplazione può catturare». Così, è un’approssimazione attraverso il silenzio quella suggerita dalla cosiddetta teologia apofatica. Non si tratta di ammettere soltanto l’insufficienza del dire umano, ma la profondità indicibile che non è possibile abitare in altro modo, il nomadismo che la fede suscita nel credente, la necessità di riscoprire l’esperienza religiosa come laboratorio dello stupore, poiché «soltanto la contemplazione la può catturare».

Dal punto di vista del metodo, l’apofasi non è speculativa. Non comunica nozioni, non elenca itinerari, non si ripete: c’immerge nel silenzio come ci buttasse in mezzo a una strada dove trovare il sapere solo percorrendola. «Va dove non puoi/vedi dove non vedi:/ascolta dove nulla risuona/e ti troverai dove parla Dio», sussurra il mistico Angelo Silesio. Il silenzio è un percorso di trasformazione, uno stato di spogliamento progressivo, finché l’orante riuscirà a pregare senza immagini e il pensante ad abbandonare tutto il pensato e il danzatore a danzare senza un solo gesto o con l’unico gesto della sua immobilità.

Proprio in un commento a Silesio, Jacques Derrida, con un’osservazione interessante, individua una familiarità fra la teologia negativa e l’esperienza di ciò che chiama «decostruzione», una figura notoriamente centrale nel suo progetto. «Lungi dall’essere una tecnica metodica, un procedimento possibile o necessario, esponendo la legge di un programma e applicando delle regole, cioè allargando le possibilità, la decostruzione è stata frequentemente definita proprio come possibilità dell’impossibile». L’energia utopica delle tradizioni spirituali non risiede forse nei loro enunciati, ma nella qualità del silenzio che esse permettono. La pace del presente e del futuro sta nella capacità di lasciar parlare il silenzio.

Fonte: Vita e Pensiero


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