Lidia Maggi "L’uomo è nato dalla terra, a essa legato, di essa custode"
Giugno-Luglio 2023
La Bibbia narra del sogno di Dio: in ogni sua pagina risuona la voce del cielo, che parla della terra. La terra è la casa comune e per abitarla bene occorre una grammatica della cura e della custodia.
Non è questo che ci insegna la frase del Padre nostro: “Come in cielo, così in terra”? Essa mette in relazione i cieli del Signore e la terra degli umani ed esprime in estrema sintesi il senso biblico dell’abitare la terra. “Come in cielo”: non come alla corte di faraone, secondo l’arbitrio del più forte; ma a partire dal sogno divino di una terra senza mali. “In cielo”, ovvero là dov’è Dio a regnare, si sperimenta la pienezza del vivere, in armonia con l’intero creato, al di fuori di ogni legame oppressivo, della bramosia che porta a sfruttare la terra e ad instaurare rapporti solo strumentali con tutto e tutti.
Ogni libro biblico fa memoria del desiderio di Dio di una terra “buona, molto buona”. Memoria del futuro, però, visto che, nel presente, gli umani non abitano la terra “come in cielo”. Memoria che tiene desta l’attesa di “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2Pt 3,13). Si attende qualcosa che non è ancora, a partire da una storia che sembra andare nella direzione contraria rispetto al progetto divino. Ecco, allora, che nelle stesse pagine bibliche prende la parola il controcanto, la cruda narrazione di quanto, in realtà, avviene “in terra”. Non una semplice presa d’atto, che trasforma Dio in un distaccato notaio della storia, tanto meno un racconto idealistico, e dunque non realistico. La Bibbia osa interrogare quei vicoli chiusi dove l’umano si rintana per provare ad aprire nuove strade.
Al rumore terrestre si affianca il suono celeste, che mette in moto un cambiamento. Denuncia e visione: e l’una e l’altra sono parole del Dio vivente. Guai a sciogliere la tensione che le tiene unite in quel racconto-mondo che è la Bibbia.
In principio
È così che prende avvio la narrazione biblica: Bereshit. All’inizio, ma anche a fondamento dell’esistenza: un duplice sguardo sulla terra attraverso due racconti di creazione diversi per genere e contenuti, ma entrambi polarizzati intorno alla questione del nostro abitare la terra. Il primo è un canto cosmico, con tanto di ritmo e ritornelli. Tutta la creazione è celebrata come “buona”. Tra le righe del canto, però, emerge il grido. Il canto, infatti, nasce da uno situazione di crisi più che dal nulla. Le prime battute delineano tutta una serie di elementi di morte, da cui Dio fa emergere la vita: la terra informe vuota e le tenebre che ricoprono la faccia dell’abisso: una realtà senza forma, priva di senso, immersa nelle tenebre, abissale. Dio dice il suo sì alla vita in uno scenario di buio, caos insensato e precarietà.
In questo quadro bloccato, critico, depressivo - che l’umanità, normalmente, patisce - ecco che Dio interviene per arginare il negativo e fare spazio alla vita bella e buona. Il primo racconto di creazione è, dunque, una grande lode cosmica al Dio che prova a porre un limite al male e che, come un liturgista, convoca gli elementi della creazione, apre le danze della celebrazione, canta il ritmo della vita.
L’inno alla creazione canta la fatica di un Dio che chiama alla vita buona traendo fuori dalla prigionia del caos un mondo differenziato. E lo fa giorno dopo giorno, per ben sei giorni: non c’è spazio per un delirio di onnipotenza, che pensa di uscire dalla crisi subito, in un attimo, e per sempre.
L’umanità in scena
In questo quadro, al sesto giorno, entra in scena l’umanità, maschile e femminile, fatta ad immagine di Dio: quest’ultima caratterizzazione va intesa come la vocazione umana ad essere luogotenenti di Dio nel governo del creato, affinché sorga la vita buona per ogni creatura. L’essere umano viene posto per “dominare” sulle altre creature. In italiano, il verbo “dominare” mostra un aspetto sinistro, di sopraffazione. Non è così in ebraico. Oltre alla rivendicazione della dignità umana - che Israele, schiavo a Babilonia, osa rivendicare: non siamo servi dei potenti ma signori della creazione - quel verbo indica una presa in carico responsabile della creazione, ad immagine di Dio e del suo dominio mite, pensato per arginare il male e promuovere il bene, non certo per spadroneggiare arbitrariamente sulle altre creature.
E affinché non si fraintenda il senso del dominio affidato all’umano, la Bibbia ci consegna un secondo racconto di creazione. Anch’esso ha inizio narrando di una vita che non può sbocciare perché non ci sono le condizioni: tutto è troppo arido. «Nel giorno che Dio il Signore fece la terra e i cieli, non c’era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna. Nessuna erba della campagna era ancora spuntata, perché Dio il Signore non aveva fatto piovere sulla terra, e non c’era alcun uomo per coltivare il suolo» (Genesi 2,4-7). Non siamo più entro uno scenario cosmico: ora ci troviamo all’interno di uno spazio limitato. Un setting scelto dal narratore per affrontare il tema del limite, questione capitale per mettere a fuoco la vocazione umana.La
relazione è possibile solo non sentendosi autosufficienti ma bisognosi degli altri. Qui la creatura umana non viene creata all’apice della creazione, ma agli inizi, prima delle piante e degli animali. Non ha senso mettere in cantiere un giardino, se poi non c’è nessuno che se ne prenda cura. Il giardino ha bisogno di una continua manutenzione. Si pone il problema di chi possa coltivarlo.
Adam il terrestre
L’essere umano viene, dunque, posto per “custodire e coltivare” la terra. Con linguaggio simbolico il racconto esprime le condizioni di possibilità di un tale rapporto di responsabilità nei confronti del giardino: l’umano deve essere fatto di terra - l’adam, tratto dall’adamà - così che ci sia una relazione biologica fortissima tra i due. «Dio il Signore formò l’uomo dalla polvere della terra» (Genesi 2,7). L’Adamo, tratto dalla polvere rossa dell’Adamà, è chiamato a vivere uno stretto legame con la terra, a sentirla anch’essa come “carne della mia carne osso delle mie ossa”, lui che si chiama Adam - ovvero terrestre - perché da Adamà è stato tratto. La sua origine come il suo destino è intimamente legata alla terra.
Fallire la propria vocazione, rompendo quel legame primordiale con la madre terra da cui è tratto, significa fallire tutte le altre relazioni. La terra diventa metafora di ogni rapporto sociale. La sua cura rimanda alla necessità di lavorare e custodire tutti i terreni delle relazioni umane. Nell’incuria, il giardino si trasforma in deserto o campo di battaglia.
Il Vangelo della creazione è, dunque, innanzitutto, una fuoriuscita dalla trappola diabolica di sentirsi slegati dalla terra, da Dio, dall’altro. È voce che sollecita a recuperare la vocazione originaria del “custodire e coltivare” la terra e le relazioni, la cura per il creato e la giustizia sociale. Con un atteggiamento responsabile che si traduce nell’attenzione a preservare il dono ricevuto. Un Vangelo destinato a confrontarsi col disvangelo della solitudine - è bene ritenersi soli: chi fa per sé, fa per tre! Il racconto successivo del conflitto dei due fratelli, Caino e Abele, trasforma la terra in un campo di battaglia: viene meno la custodia - sono forse io il custode di mio fratello? - e la terra vede sfigurata la sua bontà dal sangue versato. Su quel terreno inquinato s’impone la logica della competizione e del dominio del più forte. Fin da subito, nel racconto biblico, c’è un’interconnessione tra i rapporti sociali e la casa comune, tra la terra e il modo di abitarla come umanità plurale. La Bibbia promuove un’ecologia integrale, una sapienza delle relazioni, dove il grido della terra viene raccolto e l’umanità è richiamata a farsi carico della salvaguardia e della cura della casa comune nella quale Dio ci ha posti.