Massimo Recalcati "Donare la morte in omaggio alla vita"
La Repubblica, 29 novembre 2021
È possibile concepire l’interruzione volontaria della vita — eutanasia o suicidio assistito — non solamente
come ciò che può evitare lo strazio di sofferenze senza alcuna speranza di guarigione, ma come un vero e
proprio dono? La morte può essere in certe circostanze drammatiche un dono che non oltraggia affatto la
sacralità della vita ma la onora immensamente?
Non esiste morte naturale, scriveva Simone De Beauvoir. Ogni morte umana accade, infatti, sempre
prematuramente. Non siamo fatti per morire ma per vivere: la morte è il nostro destino insuperabile ma è anche
ciò che contraddice atrocemente il nostro attaccamento alla vita. Dobbiamo morire ma non siamo fatti per
morire. In questo senso la morte accade sempre in anticipo, sempre troppo presto, sempre, appunto
prematuramente. È la ragione dell’estremo scandalo che suscita la morte di un bambino: la morte avviene in
questi casi là dove non è attesa, dove non dovrebbe mai avvenire, non alla fine ma all’inizio della vita. Ma se
la morte è un evento che vorremmo sempre evitare, come può assumere il significato di un dono? Si può
davvero donare la morte? In uno straordinario film titolato Milion Dollar Baby, Clint Eastwood ha messo
scabrosamente in scena questi interrogativi. Una giovane donna si trova paralizzata a letto per una terribile
lesione contratta in un combattimento di pugilato. Ha costruito con fatica la sua vita resistendo a innumerevoli
difficoltà. Grazie al suo desiderio deciso e la dedizione del suo allenatore trova finalmente la sua affermazione
sul ring. Poi il trauma della lesione. La sua vita si trova improvvisamente amputata, alimentata dalle macchine
della scienza medica, senza nemmeno più la possibilità di parlare, sommersa da sofferenze inaudite provocate
dalla cancrena. Prova prima a suicidarsi mangiandosi la lingua. Successivamente comunica al suo vecchio e
amato allenatore il desiderio di non continuare più a vivere così. Lui la chiamava Mo chiusle che nella lingua
galeica significa “mio tesoro” e di fronte al dolore senza speranza di questo “tesoro”, Frankie, il vecchio
allenatore, decide di staccare la spina mettendo fine alle sue atroci sofferenze. La morte, dunque, può essere
un dono d’amore? O forse Frankie si è sostituito impunemente a Dio decidendo sulla vita e sulla morte di un
altro essere umano? Quando la vita è sommersa dalla sofferenza e da un male che non lascia speranze, quando
il suo orizzonte si è ristretto a quello angusto di un letto in una terapia intensiva permanente, quando la vita ha
già perduto il senso della vita, allora donare la morte non sarebbe un atto di amore che salvaguarda il rispetto
della vita e la sua immensa sacralità? Quale materialismo grossolano può confondere la vita umana con un
respiro alimentato artificiosamente da delle macchine? Ma, soprattutto, quale concezione spietata della vita
bisogna avere per escludere la possibilità della resa? Un celebre libro del teologo Dietrich Bonhoeffer si intitola
proprio Resistenza e resa. Sono i due movimenti che scandiscono la vita umana. Il primo è quello della
resistenza della vita di fronte agli ostacoli, alle prove, alla sofferenza, alla tentazione della morte. Ma fino a
quando? Per quanto tempo il dolore e l’assenza di speranza possono essere sopportati? Sino a quale punto una
vita può resistere al dolore? Il secondo movimento è quello della resa. Qui la vita si rivela pienamente umana.
Infatti se la resa senza la prova della resistenza può essere una fuga dalla vita, la resistenza senza la possibilità
della resa può diventare un supplizio o un martirio inutile. Ma chi può misurare il giusto rapporto tra la
resistenza e la resa? Alla luce della pietas umana la forza della resistenza dovrebbe avere la stessa dignità della
dichiarazione di resa. Quando la vita si arrende alla sofferenza dopo aver resistito sino al proprio limite è giusto
che il dono della morte diventi possibile, che la resa non sia impedita, ma, al contrario, onorata. La Legge non
può imporre la resistenza senza resa — sarebbe questo il cuore folle della filosofia dell’hitlerismo — ma deve
servire a consentire il dono della morte di fronte a una esistenza che può dichiarare, dopo il tempo della
resistenza, la sua resa. In questo caso la morte rende ancora più sacra la vita perché la riconosce profondamente
vulnerabile, fragile, umana.
Non è qui in gioco la morte come semplice soppressione della vita o, peggio, come selezione della vita, ma
come dono di chi riconosce che morire quando la vita è al muro, senza speranze, sommersa dalla sofferenza,
è una liberazione che salvaguarda la stessa dignità umana della vita. Se il dono della vita è il dono di una
avventura possibile, quello della morte può essere il dono che riconosce la resa della vita di fronte
all’impossibile.