VOI CHI DITE CHE IO SIA? La domanda che non passa
Stefania Monti
E' possibile rispondere a una domanda diretta e impegnativa come
questa (Mt 16:15), in maniera altrettanto diretta? Vediamo che
cosa risponde una persona al di
sopra di ogni dubbio e sospetto:
«Noi che abbiamo questo grandissimo e dolcissimo nome da ripetere a noi stessi; noi
che siamo fedeli; noi che crediamo in Cristo; noi sappiamo bene chi è? Sapremo
dirgli una parola diretta ed esatta; chiamarlo veramente per nome; chiamarlo
Maestro, Pastore; invocarlo quale luce dell’anima e ripetergli: tu sei il Salvatore?
Sentire, cioè, che egli è necessario, e noi
non possiamo fare a meno di lui; è la nostra fortuna, la nostra gioia e felicità, promessa e speranza; la nostra via, verità e
vita? Riusciremo a dirlo bene, completamente?» Paolo VI, Discorso del 14 marzo
1965.
gli interrogativi fondativi
Paolo VI analizza e segmenta la domanda
che ci interessa in parecchie altre e non è
solo un fatto di abilità retorica. Si interpella sull’identità di Cristo, sulla parola da
dirgli, sul titolo con il quale identificarlo e
infine sulla relazione da avere con lui;
potremmo dire, con un climax, in crescendo. Ma, alla fine, risponde a sua volta con
un’altra domanda.
Ci sono in effetti interrogativi che, proprio
perché fondanti della vita, richiedono una
risposta diretta ed esatta che nessuno riesce a dare con prontezza se non a rischio
di una grande superficialità. Perché sono domande che in realtà chiedono e impegnano in un rapporto che dura per la vita
e oltre. Questa potremmo parafrasarla
così: «voi perché siete qui e che cosa andate cercando?».
A ben pensarci è relativamente facile dire
che cosa pensano o dicono «gli uomini»
(oi anthrôpoi, Mt 16:13) – e il termine, che
già implica una distanza, dà però un senso di dignità alle persone coinvolte, non è
come «gente» – perché si tratta solo di riferire voci che a volte non ci si preoccupa
di verificare. Del resto, anche Erode doveva essersi interpellato sull’identità di
Gesù e si era dato una risposta (Mt 14:2)
analoga a quella degli uomini.
Ma la successiva domanda riportata da
Matteo accorcia di colpo la distanza con
quel «voi» enfatico e a contrasto (umeis
de). A quel punto è necessario prendere
una posizione che, di fatto, lascia i discepoli titubanti e come in sospeso.
Quandanche conoscano una possibile risposta, non si pronunciano, a parte Pietro.
identità e ricerca
Dal punto di vista testuale ed esegetico
questi versetti non presentano difficoltà;
è ben noto invece che hanno una storia
tribolata sotto il profilo storico e dogmatico.
Essendo il problema centrale quello dell’identità di Gesù conviene forse partire
da un’altra domanda: «Sei tu il Veniente,
o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11:3)
ossia uno diverso da te (eteron), perché comunque uno ci deve essere, dato che ci
è stato promesso. Questo del Battista non
è un dubbio di tipo cogitativo, perché,
appunto, uno ci deve essere.
Se vogliamo parlare di dubbio, esso è
inquisitivo, sull’identità, e la cosa si spiega: Gesù appare uno-come-tutti (cfr. Ebr
4:15) e persino le opere che Egli compie e
che lui stesso cita (Mt 11:5) potrebbero
essere un inciampo (Mt 11:6) e non già un
elemento utile e probante per il Suo riconoscimento.
Marco insiste sul fatto che Egli non sia riconosciuto dai suoi stessi familiari (Mc
3:21) – il che è certamente più grave che
non il fatto di essere avversato o almeno
guardato con sospetto dalle autorità. La
domanda quindi circa quel che dicono gli
uomini e poi direttamente ai discepoli si
può capire ed è cogente ancora adesso. In
buona sostanza che cosa stanno cercando
gli uomini e i discepoli? E che cosa cerca
il misterioso Figlio dell’uomo?
Già questa denominazione risulta di difficile interpretazione: nell’uso dell’epoca
poteva voler dire semplicemente «uomo»,
o sostituire il pronome personale, ma è
abbastanza chiaro che nel Nuovo Testamento ci siano occorrenze dal significato
più alto che i discepoli capiscono aldilà di
ogni ambiguità.
la domanda che vuole relazione
I discepoli conoscono infatti il senso della
denominazione «Figlio dell’uomo», ma non
si pronunciano, tranne Pietro. Il vero problema è che con la sua domanda Gesù chiede che si abbia un rapporto con lui:
rispondere a «voi chi dite che io sia?» determina la relazione che essi hanno e
avranno con Lui.
«Gli uomini» dicono qualcosa che è in parte corretto circa Gesù citando una serie
di personaggi del Primo Testamento e il
Battista, ma questo è comunque insufficiente, perché non ne toccano la vera identità e non riescono a stabilire una relazione.
Non si può fondare un rapporto su ipotesi
in cui nessuno si compromette.
Qui viene chiesto, in modo interlocutorio,
un rapporto autentico e plurale, non
intimistico, perché plurale è il soggetto
interpellato (umeis de) e quindi tutta una
storia ne viene e ne sarà coinvolta.
Su questo converrebbe insistere: la chiesa viene prima dell’individuo, perché sempre nella mentalità antica il popolo d’Israele, precede il singolo, così come in Grecia la polis precede il cittadino, in nome
del bene comune. Dunque è un voi che
dovrebbe pronunciarsi e rispondere, non
come somma dei singoli io, ma come un
unico corpo, «ben compaginato e connesso» (cfr. Ef 4:16 sunarmologoumenon kai
sumbibazomenon), come Gerusalemme
(cfr. sal 122:3) e come il suo tempio.
Gesù chiede una relazione con la sua comunità e il fatto che risponda uno solo,
che per altro poco dopo sarà smentito da
un pronunciamento affatto diverso e da
una dura replica di Gesù (Mt 16:21ss),
mette in guardia dal considerare la risposta facile o da darsi comunque troppo facilmente. Pietro è al centro di questa dinamica quasi come l’elemento che aggrega e rappresenta la comunità nel bene e
nel male.
risposte sempre aperte
Forse si sarebbe dovuto rispondere a Gesù
con un’altra domanda a sua volta
interlocutoria, perché le domande sono più
importanti delle risposte – in qualche
modo, sono esse stesse una risposta –, ben
comprendendo che egli chiedeva una relazione che non è decisa una volta per tutte, ma che, come ogni rapporto, sarà messo alla prova dal tempo e dalle vicende.
Questo né i discepoli nel loro insieme né
Pietro sembrano comprenderlo al momento. Capiranno in seguito e a caro prezzo
che la domanda di Gesù esige risposte sempre aperte e disposte a mettere in discussione se stesse, esige cioè risposte plurali.
Anche da parte di un corpo unico e ben
compaginato.
Il Primo Testamento ci ha insegnato che Dio
ha un nome impronunciabile, proprio per
non essere circoscritto, ma che, di volta in
volta, a seconda degli accadimenti, può
essere chiamato «re» o «generale», o «pastore» e così avanti. In poche parole Io sarò
quello che ero (’ehyeh ’ašer ’ehyeh, Es 3:14)
vuol dire che si deve imparare a leggere gli
accadimenti per capire di volta in volta
quale volto egli abbia e che non si può dare
una risposta univoca una volta per tutte.
Riprendendo allora il discorso di Paolo VI
sopra citato, si può dire che egli risponde
a se stesso con l’omelia tenuta a Manila il
29 novembre 1970, in cui dopo aver elencato moltissimi termini biblici ed essere
arrivato alla confessione di Pietro, si riconosce preso dall’incapacità di parlarne oltre, e ammette: Io non finirei più di parlare
di Lui.
Sarebbe impossibile e forse inutile riportare qui tutti i termini che Paolo VI riferisce a Gesù – una cosa è certa: il Papa ci
vuol dire che senza conoscenza delle Scritture non si dà possibilità di riconoscere e
di comprendere la realtà personale e l’importanza di Gesù. E anche la chiesa e ogni
battezzato alla scuola di Matteo prima, e
dell’intera tradizione poi, dovrebbe aver
appreso la stessa verità.
Nel seguito del racconto di Matteo leggeremo la trasfigurazione (17:1-9) in cui si
scopre più direttamente la funzione
escatologica della vicenda di Gesù grazie
alla presenza di Mosè e di Elia che egli ha
detto già venuto nella persona del Battista (Mt 1:13-14), e soprattutto il racconto
della passione nel quale è possibile riconoscere in particolare il destino tragico di
Geremia.
Ciò che gli uomini dicono dunque non è
sbagliato o inverosimile, è qualcosa di giusto, ma è comunque troppo poco.
ancora oggi sprovveduti di fronte
al «ma voi?...»
Solo i discepoli potrebbero o dovrebbero
capire e dire la cosa giusta, ma neppure
loro riescono a pronunciarsi, tranne Pietro. Anche Pietro, tuttavia, sa veramente
che cosa sta dicendo? Dal seguito del racconto sembrerebbe di no e parrebbe quasi che ora risponda senza sapere esattamente che cosa dica.
Gesù dichiara che la sua risposta è frutto
di una rivelazione del Padre, e forse solo
chi è povero o ingenuo (tam, come il terzo
figlio del seder ’aggada) o come chi neppure sa fare domande (in questo caso il quarto figlio del seder) possono accogliere.
A dire che di fronte a quel umeis de, «ma
voi», sono e siamo ancora oggi tutti sprovveduti.
le risposte aprono nuove domande
Infine, a proposito della tensione tra domande e risposte presente nelle Scritture,
e come queste si intreccino e nessuna risposta sia mai univoca, vale la pena ricordare la storia di Giobbe – un serrato dialogo in cui domande importantissime sembrano rimanere senza risposta, a meno che
non si sappia leggerla come in controluce.
Giobbe, come è noto, ha perso tutto: i suoi
beni, i suoi figli e il suo stesso corpo. La
moglie lo irride e lo provoca. Gli amici lo
vogliono convincere di aver peccato. A lui
non resta che protestare aspramente e rivolgersi a Dio per chiedere spiegazioni sulla sua vicenda.
Sappiamo quale sia la risposta divina: una
serie di domande (Gb 38-41) all’apparenza incongrue, ritmate dal ritornello: «tu
dov’eri?», ma a chi sia nelle condizioni di
Giobbe forse poco importa del parto delle
cerve (39:1) e fenomeni analoghi. Il fatto
è che la divina logica non corrisponde alla
logica sofferta di Giobbe e degli umani in
genere. Dio risponde con altre domande,
eppure Giobbe capisce ugualmente (Gb
42:5) a dire che, se dopo la sofferenza non
si è più come prima, è in questo gioco divino-umano che tutto si decide di volta in
volta, e le risposte risolutive aprono sempre nuove domande,