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Frederic Manns "Ezechiele: o quando le strutture crollano"

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L'Osservatore Romano 4 settembre 2021
Ezechiele: o quando le strutture crollano

Ero sacerdote nel Tempio di Gerusalemme. Il mio nome, “Dio ti renda forte”, mi dava coraggio quando vedevo il nostro santuario scintillante sotto i raggi del sole. La partecipazione di numerosi pellegrini alle feste di Pasqua, Pentecoste e Succot mi riempiva di gioia. Ho vissuto ore indimenticabili in questo luogo santo.

Come era stupendo il nostro sommo sacerdote quando usciva dal santuario dietro il velo. I leviti alzavano la voce e suonavano le trombe. Il popolo si prostrava la faccia a terra per ricevere la benedizione. Le minacce e gli avvertimenti del profeta Geremia non mi disturbavano oltre misura. Il tempio ci proteggeva. Ma un giorno accadde l’impensabile. Il nemico blasfemo mise il fuoco al nostro santuario e molti operai furono deportati a Babilonia. Come Dio poteva permettere questa prova per il suo popolo? La presenza di Dio abbandonò il nostro Tempio. Ma Dio seguiva il popolo nel suo esilio. Da Gerusalemme desolata carovane di detenuti prendevano la strada dell’esilio. Notabili, impiegati ed artigiani qualificati, dopo settimane di marcia, giunsero gli uni nella regione di Babilonia, gli altri in quella di Nippur, nel Sud. Una profonda tristezza si era abbattuta su tutti. Che cosa potevamo ancora sognare? È finita per noi ogni speranza; ecco ciò che rimuginavamo per giornate intere.

La mano di Dio fu su di me ed egli mi chiamò ad essere suo profeta nella comunità di Tel Abib, vicino al fiume Chebar, il canale grande che scorreva a sud-est del fiume Eufrate. I lavori agricoli e l’innaffiamento occupavano molti di noi. La fatica ci faceva dimenticare la nostra sorte. Ma Nabucodonosor, il monarca, era anche un genio costruttore. Il suo mitico palazzo richiedeva manodopera. I giganteschi ziggurat, in mattoni smaltati e policromi, i templi decorati da leoni alati, ci lasciavano sbigottiti. Babilonia con la sua triplice difesa e le sue maestose torri ci impres-sionava.

Otto porte davano accesso alla capitale. La più importante, dove passavano le processioni, era la porta di Isthar. Di qua partiva verso l’interno la via trionfale. Sulla riva sinistra emergeva il tempio del dio Marduk, con la sua ziggurat alta un centinaio di metri. A pochi passi di là si allargava il grande palazzo su terrazze che scendevano verso il fiume con i famosi giardini pensili. Queste meraviglie non riuscivano a far dimenticare la nostra condizione di schiavi. Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo.

La paura paralizzava i nostri cuori. Ci avevano ribadito che il regno di Giuda poteva affrontare l’impero caldeo, che l’Egitto ci avrebbe aiutati, che Gerusalemme era inespugnabile a causa del Tempio. Il Dio dell’alleanza doveva difenderci. Avevamo creduto tutto questo. Avevamo fatto sogni stellati. Le stelle oggi erano cadute e la terra veniva a mancare sotto i nostri piedi. Tutti avevamo l’impressione di essere stati ingannati. E quando veniva la sera, l’angoscia ci prendeva alla gola.

Alcuni mormoravano: «E giusto questo?». E ripetevano: «I padri hanno mangiato uve acerbe, i denti dei figli sono allegati. I nostri padri hanno peccato e non sono più; e noi portiamo il peso delle loro iniquità». Allora la mano del Signore fu su di me e mi disse queste parole: «Che sono queste lamentele: i padri hanno mangiato le uve acerbe e i denti dei figli sono allegati? Come è vero che io sono vivo, voi non ripeterete più questo proverbio. Un figlio non porterà più la colpa di suo padre, né un padre la colpa di suo figlio. E se il malvagio rinuncia a fare il male, anche lui vivrà, non deve morire. Ascoltate dunque: “Fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché voler morire? lo non godo della morte di nessuno. Convertitevi e vivrete”». Queste parole erano forti. Ero il primo ad esserne sorpreso. Sino a quel giorno non avevo aperto la bocca che per annunziare disgrazie: guerre, invasioni, deportazione. Quando il Signore mi aveva chiamato per rivelare il suo messaggio, mi aveva fatto mangiare un rotolo di pergamena, sul quale era scritto nel retro e nel verso: “Lamentazioni, gemiti e pianti”. Avevo divorato quel rotolo che era dolce come il miele. Da quel momento, non avevo avuto nella bocca che il sapore della sventura. Ed ora che tutto non era che rovine, gridavo ai miei fratelli: Perché voler morire? Dio non vuole la morte di nessuno; ci vuole tutti viventi, i giusti e i peccatori.

Il cammino della conversione era indicato: anche se eravamo anziani eravamo invitati a rinascere. D’ora innanzi il fondamento della vita religiosa non era più il Tempio, né Gerusalemme, né i sacrifici; era il cuore, cioè quello che vi è di più personale in noi. Quando tutto è perso, resta il cuore. E di là la vita può ripartire.

La responsabilità personale di ciascuno contava per la rinascita o per la decadenza. Niente era deciso una volta per sempre: “Se il malvagio rinuncia a tutti i peccati, deve vivere, non morrà”. Il rinnovo interiore del cuore e dello Spirito non dipendeva dalla nazione; esso si basava ormai su ciò che vi era di più intimo in ciascuno. Questo ritorno era un passo difficile. Cominciava con la distruzione della falsa idea che ciascuno si era fatta di sé stesso. Sembrava una discesa agli inferi. Bisognava riconoscere la sua nudità originale non per umiliarsi ma per guarirsi.

Nei giorni di feste le statue di Babilonia erano portate in trionfo per la città. Il giorno più solenne era quello del Nuovo Anno. Tutto doveva entrare nell’ordine cosmico voluto dal dio Marduk. Danzatori e danzatrici eseguivano balletti su due file tra canti e ovazioni. Si recitava il Poema della Creazione e tutta la gente acclamava Marduk. Questo idolo era più forte che il nostro Dio? mi chiedevo. Molti dubbi nascevano nel mio cuore. Se almeno potessimo celebrare il nostro culto, offrire sacrifici al nostro Dio. Ma non avevamo più né altare né sacrificio.

Ritornare al Dio vivente significava riscoprire il Dio misterioso. Nonostante le rovine del nostro Tempio, Dio regnava. Ma, di questo dominio, nessuna traccia esteriore era visibile.

In questa confusione la mia supplica saliva ogni tanto verso il cielo: «Il mio sacrificio, è uno spirito spezzato; del cuore spezzato tu non hai disprezzo». In questo grido filtrava una luce. Era molto più di una semplice certezza. Era un incontro luminoso. Il Dio che era al disopra di tutto, che non era legato né al Tempio di Gerusalemme, né alla terra, ecco che si rivelava vicino al “cuore spezzato”. Questa verità zampillava dal dolore dell’esilio: Dio sta vicino al cuore spezzato. Era l’esperienza tragica che avevamo fatto dopo aver accettato di entrare nel silenzio di Dio. Farsi un “cuore nuovo”, era un invito a ritrovare lo slancio della vita. Senza il ritorno alla dimensione d’interiorità, nessun dialogo con Dio era possibile. Quello che era accaduto non era stato una maledizione, ma una opportunità per ritrovare la verità della relazione con Dio attraverso una lunga via crucis. Dio era capace di fare rivivere i morti.

di FREDERIC MANNS

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