Sabino Chialà "La libertà di Gesù"
La pericope odierna conclude il capitolo settimo, in cui Gv riporta un tratto della vicenda di Gesù particolarmente complesso e doloroso. Fin dall’inizio e ripetutamente riferisce di diffidenze: da parte dei suoi fratelli (cf. Gv 7,5) o della gente (cf. Gv 7,12.15.27). Parla di tentativi di arresto (cf. Gv 7,30.32) e persino di attentati alla sua stessa vita (cf. Gv 7,1.19.25). Per contro, non mancano reazioni di apprezzamento e di stupore da parte di chi ascolta, per le sue azioni e le sue parole (cf. Gv 7,12.15.31).
Quanto a Gesù, all’inizio si mostra piuttosto prudente. Prima decide di non salire a Gerusalemme per la festa. Quindi vi si reca, ma di nascosto (cf. Gv 7,8-10). Una prudenza che tuttavia non gli toglierà la parola che, anzi, nel corso degli eventi, si farà sempre più libera.
La medesima aporia si ritrova nel nostro brano, dove alcuni tra la folla riconoscono l’autorevolezza profetica e messianica di Gesù (cf. vv. 40-41) e le guardie mandate dai capi ad arrestarlo se ne tornano ammirate: “Mai un uomo ha parlato così” (v. 46); mentre altri ne contestano l’origine galilaica (cf. vv. 41.52), adducendo anche il fatto che nessuno dei capi e dei farisei ha creduto in lui (cf. v. 48). E Giovanni annota: “Tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui” (v. 43).
Abbiamo qui un esempio di come le parole siano forti e deboli al tempo stesso. Gesù affascina, tocca nell’intimo e convince. Eppure per quelle stesse parole è anche rifiutato e condannato. Parole che fanno dire che è lui il messia, perché efficaci: “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?” (Gv 7,31). Parole che suscitano però anche stizza e senso di superiorità in chi conosce la Legge e sa che il Cristo non sarebbe venuto dalla Galilea ma da Betlemme (v. 42).
Ma questa scena non ci parla solo della debole forza della parola, cioè della sua capacità di toccare senza costringere. Ci parla anche della grande libertà di Gesù. Quella libertà con la quale egli attraversa le aporie, i gesti e le parole di chi vuole fargli del male, che alla fine si mostrano inconcludenti, visto che, come annota scenograficamente Giovanni, “ciascuno se ne torna a casa propria” (v. 53).
Una conclusione deludente, dunque, perché Gesù non è riuscito a convincere? O una scena grandiosa in cui Giovanni ci parla della sua vera forza che consiste nella sua libertà? Quella libertà che non gli fa temere nulla e nessuno, perché lui la sua vita l’ha già affidata alle mani del Padre, come dirà poco oltre: “Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me stesso. Ho infatti il potere di deporla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18).
Da una parte ci sono i raggiri di chi non vuole capire, e userà le sue parole per trovare mille buone ragioni, anche attingendo alle Scritture, per sfuggire. Dall’altra c’è la libertà di Gesù che non cerca neppure troppo di discutere, ma si esprime abitando anche lo spazio della contraddizione, sapendo che nulla può essergli tolto di ciò che davvero gli appartiene. E sapendo che sì, la sua parola può toccare il cuore, ma non costringere; può commuovere, ma non convincere. Anche in questo Gesù è libero. Libero di avere una parola forte nella sua debolezza. Libero di dare da bere solo a chi “ha sete”, come aveva proclamato nel giorno grande della festa (cf. Gv 7,37).
La sua è una parola che disseta e dà vita, ma solo a chi ha sete, a chi ha il coraggio delle proprie seti e sa andare al Signore con la medesima libertà con cui egli gli va incontro.