Massimo Recalcati "Coronavirus, risorgere è possibile ma serve una comunità"
La Stampa, Specchio, domenica 4 aprile 2021
Ora si vede la luce, dicono i virologi. Siamo all’ultimo miglio di buio. L’esperienza collettiva del
trauma dell’epidemia ci ha trascinati in un abisso che non potevamo immaginare. Ma abbiamo
imparato qualcosa? Individualmente ciascuno di noi ha conosciuto direttamente o indirettamente
l’angoscia del buio, della malattia e della morte: una diagnosi che mette a rischio la vita, la perdita
di una persona cara, la sconfitta o il fallimento sono esperienze che prima del Covid abbiamo
vissuto in solitudine. Il dolore separa, isola, spacca la nostra vita allontanandola dalla vita in
comune. Accade nella scena biblica del grido disperato di Giobbe: abbandonato, nudo e rasato,
caduto nella cenere, piagato nel corpo e nell’anima, la sua vita è senza sostegno, senza più nessuno
su cui poter contare. Ebbene se esiste una lezione fondamentale del terribile magistero del Covid
essa riguarda la possibilità di condividere l’incondivisibile, di condividere l’esperienza del dolore e
della morte.
Con l’epidemia l’esperienza incondivisibile è divenuta obbligatoriamente comune travolgendo
l’intero pianeta. Ovunque nel mondo abbiamo visto le stesse scene: città chiuse, persone impaurite e
mascherinate, terapie intensive, malati strappati ai propri cari, masse di morti. Le grandi città
dell’Occidente che prima guardavano a distanza di sicurezza fenomeni collettivi come la “fame nel
mondo” o le epidemie che si accanivano sulle popolazioni più povere e svantaggiate, hanno dovuto
vivere lo stesso orrore senza più alcuna distanza protettiva. Interi popoli si sono trovati accomunati
dalla stessa disperazione. Il buio è calato come una catastrofe senza precedenti, se non nel diluvio
biblico, sul nostro mondo. Le vite individuali, come le comunità e le nostre economie si sono
trovate, come mai prima d’ora, sull’orlo di un precipizio. Ecco la lezione: siamo stati obbligati dal
magistero del Covid a considerare che il dolore del nostro simile non è qualcosa che non ci
appartiene, perché è il nostro stesso dolore. La stessa politica ha dovuto riconoscere il carattere
inaudito di questa esperienza dando vita, non solo in Italia, a governi che si reggono
sull’arretramento delle identità particolari nel nome del riconoscimento di un bene comune che
implica una condivisione di responsabilità.
Il carattere sistemico della pandemia ha mostrato il tratto farsesco del narcisismo delle piccole
differenze imponendo un brusco passaggio all’età adulta: l’ideale sovranista della propria
autonomia – ideale non solo politico ma anche mentale – è stato travolto da una esperienza
inaggirabile di interdipendenza e di interconnessione. Abbiamo dovuto correggere la nostra idea
individualistica della libertà comprendendo che la salvezza o è un fatto collettivo o non esiste e che,
di conseguenza, o la libertà implica la solidarietà o è una pura astrazione retorica. Ma soprattutto
abbiamo dovuto imparare di nuovo l’importanza fondamentale delle nostre istituzioni, correggendo
il pensiero populista che oppone ideologicamente le istituzioni alla vita.
Negli ultimi anni questo è stato un pensiero nocivamente egemone: da una parte la vita che reclama
i suoi diritti e dall’altra le istituzioni che difendono i loro privilegi; da una parte il movimento
dinamico della vita e dall’altra l’immobilismo conservatore delle istituzioni; da una parte il lavoro
della vita e dall’altra la corruzione delle istituzioni. Il Covid ci ha rivelato invece che la vita e le
istituzioni, come ricorda giustamente Roberto Esposito nel suo ultimo libro titolato Istituzioni, sono
due facce di una stessa figura. Cosa sarebbe successo di fronte alla violenza della pandemia se non
fossero esistite le istituzioni, prima fra tutte quella della famiglia? Dove saremmo finiti? Le critiche
anche legittime alla gestione della crisi non devono oscurare il valore umanissimo delle istituzioni,
che non consiste solo nella tutela dei più fragili, ma nel rendere possibile l’esperienza della
condivisione. Per questo Pasolini ricordava che non esiste miracolo più grande della vita delle
istituzioni. E per questo ancora, mentre non risparmiava le sue critiche alla corruzione del sistema
politico, faceva appello al carattere “commovente” e “misterioso” delle istituzioni, per le quali vale
sempre la pena di spendere la nostra vita.
Avremo oggi e nel prossimo futuro la forza di fare esistere davvero una poetica e non solo una
politica delle istituzioni? Sapremo fare risorgere le istituzioni dalle ceneri del populismo?
L’accoglienza delle forze armate impegnate nella campagna di vaccinazione, il senso inedito di un
ordine procedurale e di un rispetto individuale dati insieme, di una cura del collettivo ma sempre
attenta al tratto irriducibile del particolare, come tutti coloro che si sono vaccinati possono
testimoniare, è un esempio semplice ma significativo di quello che intendo per poetica delle
istituzioni. In un tempo dominato dalla barbarie del male che rivolge contro di noi la nostra stessa
violenza ecocida, la tracotanza di un antropocentrismo che ha violato i limiti imposti dalla natura,
l’esistenza di comportamenti di cura che sanno rispettare il carattere immensamente sacro della
singolarità, come ha dato prova innanzitutto il nostro personale sanitario, ma anche le nostre
famiglie, i nostri insegnanti e i lavoratori dei servizi che non hanno mai smesso la loro attività, non
dovrebbero istruire la politica, non dovrebbero alfabetizzare le sue azioni come il suo linguaggio?
La violenza delle parole ha alimentato in questi anni una cultura dell’odio che, non a caso, ha tra i
suoi maggiori responsabili proprio coloro che hanno coltivato in modo militante il disprezzo delle
istituzioni senza vedere le metastasi che fatalmente hanno contribuito a generare nel tessuto della
nostra comunità.
La resurrezione della vita non passa mai attraverso l’odio e il disprezzo, ma, come insegna il
messaggio evangelico, solo attraverso la fede che l’ombra della morte non è mai l’ultima parola
sulla vita, che non tutto è morte, odio e disprezzo. È il compito, che Pasolini definiva “miracoloso”,
che ci attende: fare risorgere la vita collettiva delle istituzioni, ridare ad essa piena dignità, coltivare
il senso profondamente democratico della rappresentanza, restituire valore al conflitto politico come
conflitto delle idee e non come denigrazione morale dell’avversario, riconoscere che la poetica delle
istituzioni non coincide con l’organizzazione dello Stato, ma è una forza che pervade interamente la
comunità, che le stesse parole che noi usiamo istituiscono la vita e ci rendono responsabili ogni
volta del valore etico di questa istituzione.