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Regno di Dio e mondo secolare. Tra accoglienza e profezia

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REGNO DI DIO E MONDO SECOLARE. 
TRA ACCOGLIENZA E PROFEZIA
relazione tenuta alla Certosa di Pesio il 9 giugno 2019 per l'Associazione "La tenda dell'Incontro"

Per pensare teologicamente la relazione tra Regno di Dio e mondo secolare occorre anzitutto superare ogni semplificazione, che ridurrebbe la questione a visioni parziali e – proprio com’è nella natura del semplificare – sarebbe un espediente per sfuggire la complessità. Infatti, la prima affermazione che si può fare riguarda il carattere sfuggente e sfuggevole delle due realtà che andiamo a connettere: tanto il mondo e il tempo in cui siamo immersi – e quindi il saeculum – quanto più il “contenuto” di ciò che biblicamente e teologicamente chiamiamo Regno di Dio, sono delle realtà in qualche modo “non disponibili” al pensiero sistematico e rigoroso. Piuttosto, per parlarne, occorre rifarsi a quella forma del pensiero teologico che conosciamo come “paradosso” in quanto capace di cogliere in ogni realtà la compresenza di verità e apparenza, di unicità e molteplicità, di trascendenza e immanenza, cioè di fare quella che Pascal chiamava la “professione dei contrari”.

D’altra parte, come ci testimonia anche La Lettera a Diogneto, questa è la forma dello stesso vivere cristiano: essere nel mondo senza essere del mondo. Il teologo francese Henri de Lubac ha approfondito il tema affermando che la relazione tra Dio e uomo, tra fede e storia, tra grazia e natura richiede la capacità e il coraggio di pensare il paradosso, cioè di reggere una tensione tra due poli apparentemente opposti, nell’attesa di una sintesi. Si pensi semplicemente alla professione di fede del cristiano in Gesù Cristo che è – paradossalmente – vero Dio ma anche vero uomo.

Solo in questa prospettiva, che tiene conto della dinamicità tra i diversi poli della realtà e del Mistero stesso, può essere avviata una riflessione sul rapporto tra Regno di Dio e mondo secolare.

Nella polarità. Regno di Dio e storia, distinti ma non separati

Per introdurre il tema può essere interessante riferirsi al romanzo di Emmanuel Carrère intitolato Il Regno. Dopo essersi convertito al cristianesimo per tre anni e aver poi abbandonato la fede forse per sempre, il noto scrittore francese sente l’esigenza di ritornare alle parole e alle storie del Nuovo Testamento che, in qualche modo, hanno lasciato un segno nella sua vita.

Carrère parla della conversione e commenta il passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù dice a Pietro che in vecchiaia sarà portato dove egli non vuole: “Dietro ogni conversione al Cristo, penso che ci sia una frase e che ognuno abbia la propria, fatta per lui, che lo sta aspettando. La mia è stata questa. Dice, per prima cosa: lasciati portare, non sei più tu che decidi dove andare, e quello che può sembrare un atto di rinuncia può anche essere, una volta mollati gli ormeggi, un immenso sollievo […] Ma dice anche: ciò a cui ti abbandoni – Colui al quale ti abbandoni – ti porterà dove tu non vuoi […] Il mio desiderio più grande era proprio questo: essere portato dove non volevo”.

Del Regno di Dio si può allora abbozzare questo: è un altrove, una realtà che sta oltre il “dove tu sei”, il “dove vuoi andare” o “vorresti essere”. E’ l’Oltre di Dio che ti viene incontro eppure non puoi catturare, ti dà appuntamento ma si fa trovare in altro luogo, ti chiama eppure non sai da dove venga la voce; proprio in questa dinamica polare, ti mette in cammino, ti costringe a uscire e ti fa propendere in avanti; infatti, «Vi diranno: eccolo là o eccolo qua; non andateci, non seguiteli» (Lc 17,23). Il Regno è qui, ma è anche sempre al di là da venire e non può coincidere con nulla o, forse, più radicalmente, si sporge proprio verso ciò che l’umana percezione considera “nulla”, cioè il posto dove non pensavamo e non volevamo andare. Per questo, essere cristiani è alla fine un essere portati, in abbandono e fiducia, laddove Dio chiama.

Da qui, una prima considerazione paradossale: il Regno di Dio è altro e altrove rispetto al mondo secolare e per questo ha una sua propria carica profetica. Il Regno, cioè, per definizione interpreta la storia e le offre criteri che la spingono al di là di se stessa, in un orientamento relazionale che coinvolge lo stesso Mistero di Dio. Tuttavia, i credenti indulgono spesso nel rischio opposto, proprio per l’incapacità di sostenere una logica paradossale: la diversità/alterità del Regno di Dio rispetto al mondo, infatti, può incautamente cedere il passo a una interpretazione che separa il Regno di Dio dalla storia umana, con grave ricaduta riduzionista specialmente in merito all’incarnazione. Dunque, la tensione da abitare appare evidente: l’alterità del Regno di Dio non è separazione dal mondo e dalla storia. Tra queste due realtà – Regno di Dio e mondo secolare – c’è una correlazione critica che, come afferma la Gaudium et Spes al n. 56, li distingue e li intreccia senza identificarli.

Proprio la fatica di tale polarizzazione evita anche l’altro rischio, cioè separare il mondo secolare dalla logica del Regno, leggendo nel processo di secolarizzazione una realtà opposta alla fede e nemica del cristianesimo: è davvero così?

Sulla modernità secolarizzata

La secolarizzazione è un fenomeno complesso e le teorie che cercano di interpretarla sono varie e complementari, anche a motivo del fatto che, rispetto agli anni ’70, il fenomeno è notevolmente cambiato dal di dentro. In questa sede non ci interessa soffermarci sulla disputa che riguarda il trovarci ancora in un mondo secolare o l’essere entrati in un’epoca post-secolare; ci preme invece, partendo dal concetto generale di secolarizzazione, chiarire la relazione tra Regno di Dio e mondo, cioè tra fede e storia umana.

Un elemento che caratterizza i secoli che vanno dal 1500 alla prima parte del 1900 è la “rottura”: c’è una crisi che inaugura un mondo nuovo, un superamento del passato, una nuova interpretazione del mondo e della storia centrata, come afferma Blumenberg, sull’uomo inteso come “programma di vita”

Il filosofo americano Richard Rorty afferma che nella secolarizzazione gli uomini non hanno abbandonato Dio, ma lo hanno “ridefinito” in base al proprio ego. In tal senso, la modernità compie un superamento dei paradigmi precedenti, inaugurando un rovescio di prospettiva che genera nuovi principi orientativi: dal cielo alla terra, da Dio all’uomo, dall’oggettività di verità rivelate e valori condivisi alla libertà e autonomia esponenziale del soggetto. L’uomo è capace di trasformare e manipolare le cose e il mondo attraverso la potenza della ragione e l’efficienza del progresso tecnico-scientifico e, così, il piano divino della salvezza viene secolarizzato trasformandosi in una pianificazione razionale della storia.

L’era moderna, dunque, con la sua fede nella ragione e nel progresso e l’euforia dello sviluppo tecno-scientifico, si caratterizza come un tempo trionfante, carico di attese e prospettive, gravido di futuro. Paradossalmente, si potrebbe dire che si tratta di un tempo “escatologico” nella misura in cui guarda al futuro e produce futuro, benché lo secolarizzi affidandone la costruzione all’uomo e definendolo all’interno dei processi della storia.

Ora, anche se può sembrare strano, in questo clima la religione la religione viene annoverata tra le vecchie superstizioni che soggiogano la coscienza dell’uomo e non le permettono di emanciparsi alla luce della ragione; essa è vista come il ricettacolo di credenze che fungono da risposta rassicurante dinanzi agli enigmi della vita e ai misteri della natura che adesso, però, la ragione e la scienza iniziano a studiare, comprendere e modificare; è accusata di promuovere una visione statica del cosmo per garantire l’impassibile dominio di Dio su di esso; è accusata, di conseguenza, di relegare l’uomo al ruolo di spettatore passivo all’interno di un universo incantato in cui le cose sono mosse da Dio a proprio piacimento.

Ci troviamo dinanzi a una situazione inverosimile: la fede cristiana, che è connotata escatologicamente, cioè è aperta al progresso in quanto orientata al futuro del Regno di Dio, agli occhi della modernità secolarizzata appare statica, chiusa, immobile, perciò antimoderna; e la modernità secolare – che forse abbiamo condannato troppo in fretta – in quanto aperta al progresso e alla promozione del futuro è, benché a suo modo, escatologica. Fede e secolarizzazione, forse, avrebbero pituto e dovuto incontrarsi meglio e di più.

Tra le due non c’è una totale opposizione; anzi, bisogna riconoscere che l’istanza di fondo della secolarizzazione è generata dal cristianesimo stesso nella misura in cui l’essenza stessa della fede cristiana è la relazione con un Dio che rende l’uomo protagonista attivo della propria vita e responsabile della storia e della creazione. La secolarizzazione guarda all’uomo come essere capace, con la sua volontà e attraverso i lumi della ragione e della scienza, di progettare ciò che ancora non c’è e di modificare l’esistente, orientando la storia al futuro; ma anche la visione storico-escatologica della fede cristiana orienta l’uomo al futuro e lo guarda come responsabile attivo del destino della storia. Come afferma il teologo tedesco Johann-Baptist Metz, la fede biblica, infatti, si fonda su una Parola che orienta al futuro, verso la terra promessa e i tempi nuovi inaugurati e compiuti da Gesù Cristo, rispetto ai quali l’uomo è invitato a leggere la realtà come una “storia in divenire” e a portare avanti una missione critico-creatrice, in continuità con quella di Cristo.

Probabilmente, senza l’ottusità da entrambe le parti, la secolarizzazione si si sarebbe affermata in continuità con la fede cristiana invece che in contrapposizione, così come ben teorizzato dalla Teologia della Secolarizzazione del Novecento e, più di recente, dal filosofo canadese Charles Taylor.

Non sarà dunque mai superfluo ricordare che, per una corretta ermeneutica del fenomeno – ma anche per correggere l’imprecisazione del linguaggio ecclesiale che continua a parlare di secolarizzazione in termini negativi – dobbiamo operare la distinzione, usata da Paolo VI, tra secolarizzazione e secolarismo: la prima, “è lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede o con la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa o in ogni evento dell'universo, le leggi che li reggono con una certa autonomia, nell'intima convinzione che il Creatore vi ha posto queste leggi”; la seconda, invece, è “una concezione del mondo, nella quale questo si spiega da sé senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio, divenuto in tal modo superfluo ed ingombrante (Evangelii nuntiandi, n. 55).

Va da sé che la logica del paradosso, teologicamente espressa in questo caso dal “già e non ancora”, è l’unica capace di puntellare la relazione tra Regno di Dio e mondo secolare, evitando sia il rischio dell’opposizione tra le due realtà che quello di una loro identificazione.

Come afferma Moltmann, la relazione tra Regno di Dio e storia deve essere intesa nel segno di un paradosso, di una dialettica e di una reciproca tensione: esiste una distanza, determinata dal fatto che il Regno di Dio è una realtà che cresce nella storia umana secolare e, tuttavia, ancora in essa non è compiuto; proprio tale distanza è lo spazio della profezia. Infatti, il Regno è nel mondo secolare, ma è destinato alla sua trasformazione e alla liberazione, per condurlo “altrove”, nel seno stesso di Dio; il Regno ha segni evidenti di presenza in questo mondo secolare, e al contempo è contestazione profetica delle strutture, delle visioni e delle ideologie di questo mondo. Ciò significa che il Regno di Dio nella storia secolare è anticipazione, in quanto frammento del tutto che viene; ma è anche resistenza messianica contro le forze del male e della morte ancora all’opera in un mondo. La prima rappresenta ciò che deve ancora venire, la resistenza si traduce nell’assunzione di responsabilità nei confronti della storia e, perciò, nell’impegno e nella dedizione perché il mondo si apra al futuro del Regno.

In tal senso, il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine, e non soltanto in appendice: è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzione, cioè trasformazione del presente. L’elemento escatologico, il Regno di Dio, è il fondamento della profezia cristiana perché in attesa dell’aurora del nuovo giorno esso ci chiama a iniziare qui e ora la trasformazione del mondo.

Quale profezia per il tempo secolare?

In questa prospettiva, la professione di fede del credente abbraccia la paradossalità di una speranza incarnata eppure non ancora compiuta: credo che Dio è all’opera nelle macerie della storia e già si vedono i segni del Regno; tuttavia, scoprendo i segni della Sua presenza, posso discernere in anticipo il Suo progetto sull’uomo e sul mondo e constatare come esso è non ancora realizzato, e si fa strada nella notte dell’aridità, del male e del non senso. I fragili segnali, i semi sparsi, i frammenti e i gemiti del Regno di Dio sono come piccole luci che fanno intravedere la fine della notte, ma restano pur sempre avvolti dalle tenebre della umana contraddizione, dall’ambivalenza della realtà, dalla ferita del peccato. Perciò, la professione di fede nel Regno di Dio, mentre mi fa vedere il mondo così come Dio l’ha da sempre sognato, allo stesso tempo incalza e provoca questo mondo e questo tempo e diventa pungolo e provocazione critica per la storia, specialmente per quelle situazioni in cui appare visibile il degrado dell’uomo, dell’umanità e del mondo. La fede, dunque, non ci abilita a separarci dal mondo, ma, anzi, ci immerge in esso con lo sguardo di Dio sulle cose e sulla realtà e con una maggiore responsabilità critica e profetica perché in esso siamo proprio noi che dobbiamo far lievitare il Regno di Dio.

Quando parliamo di profezia del Regno di Dio, dunque, anzitutto diciamo che l’atteggiamento del cristiano e delle Chiese nei confronti del mondo dovrà sempre unire in modo paradossale due aspetti: una simpatia che si fa accoglienza e, al contempo, una parola e una prassi controculturali, che si traducono in un agire alternativo e diventino segni di una nuova visione dell’uomo e della società, capace di contrastare le forme di oppressione, di discriminazione, di ingiustizia e di nichilismo, cioè tutto ciò che nasce dalle vecchie e nuove idolatrie del nostro tempo. L’ottica messianica in cui si muove un cristianesimo profetico, dunque, impara da Gesù una prassi di liberazione, che punta il dito contro il male e contro la sofferenza degli uomini e diventa segno di controtendenza.

Si può parlare del Regno solo a partire dalla manifestazione salvifica e liberante di Dio che vediamo nella prassi di Gesù, laddove Egli è all’opera nel guarire gli ammalati, liberare gli ossessi, sedere a mensa accanto ai peccatori, rialzare chi è caduto, aprire gli occhi dei ciechi, rimettere in libertà i prigionieri, riaccendere la speranza in tutti gli emarginati, i discriminati e gli scomunicati.

In questo senso, il cristiano che si incammina verso il Regno è chiamato a liberarsi dall’immaginare Dio come una potenza trionfante amica dei puri e dal praticare un cristianesimo borghese che lo fa appartenere – parafrasando Schillebeeckx – a una lobby di pii e a una comunità onesta; al contrario, Egli si convertirà al Dio della compassione e imparerà a mettersi in gioco con occhi, cuore e mani a favore della giustizia e della liberazione.

Quale profezia del regno di Dio nel mondo secolare, dunque? Suggerirei tre piste, che non hanno pretesa esaustiva e, naturalmente, comprendono una serie di altri passaggi, di interpellanze critiche, di domande e di trasformazioni pastorali.

1 Ritornare a Gesù e al Vangelo. Non sembri questa un’affermazione scontata o banale perché oggi, in un tempo secolare che ha in qualche modo marginalizzato la fede cristiana e ci ha introdotti in una condizione post-cristiana , c’è bisogno di recuperare l’essenza del messaggio cristiano, il cuore dell’esperienza della fede radicata nel Vangelo e quindi, in sostanza, ritornare a Gesù. È anzitutto nel segno di questa profezia che possiamo leggere, in un tempo secolare e indifferente alla fede, lo stesso il pontificato di Francesco, il cui programma si sintetizza nella riscoperta della gioia del Vangelo: “Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta […] Gesù Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale” (Evangelii gaudium, n. 3)

Tornare a Gesù, alla riscoperta del fascino della sua predicazione e, ancor più della sua umanità bella, è il programma teologico-pastorale di cui si sente oggi l’urgenza. Si tratta di rintracciare, nella libertà del Cristo e nella Sua umanità, il luogo in cui può fiorire anche per l’uomo del nostro tempo, un’umanità capace di essere pro-esistenza: cioè di trovare il senso della vita nella relazione con Dio e con il prossimo. Nasce così un uomo nuovo che non disprezza, non usa la violenza, non mercifica l’altro, ma diventa dono di solidarietà e di amore.

Ritornare a Gesù, come ha suggerito il teologo spagnolo Pagola, è anche superare le reazioni di autodifesa e l’opzione della restaurazione, che fanno del cristianesimo una religione del passato, sempre più anacronistica e meno significativa per le nuove generazioni.

2 Annunciare e promuovere una nuova immagine di Dio. Il Regno di Dio coincide, alla fine, con la Persona stessa di Gesù; il Regno coincide con la sua persona e con la sua missione. Ritornare a Gesù e ravvivare la nostra relazione con Lui è ciò che mette in atto la prima e più radicale opera di riforma del cristianesimo, cioè la purificazione della nostra immagina di Dio e la conversione da una rappresentazione errata, negativa, spesso ostile di Dio, al Dio vivo e vero che Gesù ci svela. La predicazione e la missione di Gesù – come ha scritto Pierangelo Sequeri – riaprono la questione sulla verità di Dio: Egli non è il legalista, il giudice che punisce chi non è posto, l’impassibile che esige sacrifici dagli uomini, ma è invece l’Abbà, il Dio della compassione e della dedizione assoluta, il Dio umano che ha viscere di compassione per gli ultimi, gli emarginati e gli esclusi.

La dedizione assoluta di Dio per l’uomo impedisce la cristallizzazione di immagini di Dio anti-umane e sovverte la religione borghese, invitandoci a una nuova forma di umanità che abita la storia nella pratica dell’amore e della fraternità universale. Il Regno di Dio, perciò, è realtà che riconducendoci a Gesù incalza la comunità cristiana sui linguaggi, le prassi, le liturgie, la teologia che soggiace alla predicazione lo stile dell’essere Chiesa e del nostro stare al mondo: quale Dio stiamo immaginando? E quale volto di Dio annunciamo? In quale Dio crediamo?

3 Vivere e praticare un cristianesimo critico-profetico. Tornare a Gesù significa necessariamente abbandonare un “cristianesimo religioso”, ridotto a pratiche rituali o norme morali e recuperare, invece, la chiamata a diventare discepoli che assumono lo stile dell’umanità di Cristo e la sua prassi nel mondo; si tratta di trovare linguaggi, pratiche e spazi per vivere nella società una presenza alternativa, che si confronta col mondo secolare ma, al contempo, ne denuncia le idolatrie, si indigna per le sue ingiustizie e si mette in ascolto del grido delle vittime.

Il teologo tedesco Metz ha efficacemente parlato di una “mistica dagli occhi aperti”, cioè un cristianesimo che non “passa oltre”, ma, come il buon samaritano, si ferma con compassione davanti ai feriti della storia; in questa parabola, in fondo Gesù afferma che non si può credere in Dio restando ciechi dinanzi al dolore del mondo, e che, anzi, glorifica Dio solo chi ha occhi aperti nei confronti dell’altro, in particolare dei feriti e dei poveri. La memoria di Gesù, infatti, è viva e pericolosa. Essa si fa sequela critico-profetica, sensibile al dolore e capace di sovvertire valori e modelli dominanti.

In questa direzione, l’attuale pontificato di Francesco rappresenta un segnale incoraggiante nel delineare i tratti di una Chiesa “ospedale da campo”, attenta alle ferite e alla carne dei fratelli, aperta al dialogo, ispiratrici di pensiero e prassi dell’accoglienza e della solidarietà; si tratta di essere proprio quel lievito del Regno di Dio che, alla fine, coltiva in questo mondo il nuovo paradigma di umanità fondato sullo stile di Gesù, che inquieta l’indifferenza, inaugura un’etica del riconoscimento, allarga gli spazi del dialogo, della fraternità e dell’amore. Si tratta di credere, insomma, come scrive Timothy Radcliffe che “il cristianesimo è pericoloso. Bisogna metterci il foglietto delle istruzioni”.

Conclusione

La relazione tra Regno di Dio e mondo secolare, dunque, non può che assumere la forma di una tensione critico-profetica che, mentre scalfisce la “calma piatta” di un cristianesimo tranquillo e accomodato, innesca una sequela cristiana propositiva e creatrice. Proprio l’antinomia del “già e non ancora” che si riferisce al Regno di Dio fa dei cristiani persone che abitano il mondo con serenità e spirito di accoglienza, ma, al contempo restano vigilanti nella ricerca di nuove sintesi da costruire, a immagine dell’umanità buona e bella di Gesù. Così, la stessa Chiesa si caratterizza come comunità del Regno di Dio, ossia comunità che, lungo il cammino, regge le tensioni e le inquietudini della storia annunciando in essa l’Altro che chiamiamo Dio.

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