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Nel Getsemani Gesù ci libera dal fantasma del sacrificio

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Si legge tutto d’un fiato l’ultimo libro di Massimo Recalcati, La notte del Getsemani (Einaudi, pp. 84, € 14). Il testo nasce da una conferenza tenuta due anni fa dall’autore presso il monastero di Bose dove si trova la comunità fondata da Enzo Bianchi. Nel libro, Recalcati ripercorre gli ultimi istanti della vita di Gesù rileggendoli in chiave psicanalitica.
È una riflessione sulla notte dell’uomo, sulla caduta, sul tradimento, su Giuda e Pietro, sull’abbandono, sulla fedeltà al proprio desiderio, sulla solitudine, sul silenzio di Dio, sulla debolezza umana, su due preghiere, la prima diversa dalla seconda.

Perché, credenti o altro che si sia, la notte di Gesù nel Getsemani riguarda tutti?

«In nessuna scena dei Vangeli la figura di Gesù appare così lontana da quella di Dio. In nessuna altra scena lo vediamo così vulnerabile, esposto, fragile, mancante. La sua fine è imminente ed egli ama troppo la vita per accettare la sua perdita. I suoi discepoli lo lasciano solo, misconoscono il suo nome, lo svendono per trenta denari. Il suo popolo che aveva acclamato la sua entrata trionfale a Gerusalemme lo abbandona. Sarà trattato come il più miserabile dei ladri e dei bestemmiatori. Ma il punto più cruciale è che sebbene sia il figlio unico e prediletto dal padre le sue preghiere cadono nel vuoto. La notte del Getsemani è la notte del silenzio di Dio, è la notte dell’assoluto abbandono. Tutto questo riguarda l’uomo. Tutto noi abbiamo conosciuto il peso di questa notte, il peso del tradimento, dell’abbandono, della caduta, del silenzio del padre».

In che senso Gesù è una figura radicale del desiderio? E come emerge questa sua peculiarità negli eventi del Getsemani?

«Gesù è come un magnete; la sua parola attira verso di sé. Marco dà una definizione molto bella di Gesù quando scrive: “Gesù è colui che chiama”. In questo senso egli è l’incarnazione della potenza del desiderio. Sposta, sovverte, mette in movimento; tutti i Vangeli parlano della forza del desiderio. Quella forza che si manifesta nell’antica parola “Kum!” che significa “Alzati!” e che Gesù rivolge a Lazzaro nella tomba. Quello che mi colpisce nella sua predicazione è la capacità di far risorgere la vita dalla morte, di non lasciare alla morte l’ultima parola, di rimettere in moto la vita anche quando essa pare morta, finita, spenta. Nella notte del Getsemani Gesù si rivolge a se stesso. Lo obbliga il silenzio di Dio. Assume il proprio destino non come un gesto sacrificale, penitenziale, di mortificazione della sua vita. Ma come scelta, decisione, offerta, donazione di sé che eccede l’ombra tetra del sacrificio. Gesù alla fine di questa notte non accetta passivamente una condanna che lo costringe al sacrificio di sé, ma sceglie liberamente di consegnarsi al suo destino, di fare la volontà del padre. E in questa consegna si libera da ogni forma di consegna. Insegna che ciascuno di noi è responsabile del proprio desiderio».

Perché i funzionari sacerdotali del Tempio di Gerusalemme avvertono in Gesù un nemico? Di cosa è spia questo conflitto?

«La parola di Gesù è sovversiva. Non accetta che la religione del padre diventi un mercato o, peggio ancora, si istituzionalizzi in codici solo formali di comportamento. Gesù pensa che il giusto erede sia colui che sa fare propria la parola delle Scritture. Diversamente i sacerdoti del tempio interpretano l’eredità solo come fedeltà passiva, priva di desiderio, nei confronti della Legge. Quando Gesù dice che è venuto a portare la Legge a compimento ci ricorda la necessità di un movimento in avanti del giusto erede. L’eredità non è una acquisizione passiva di rendite, ma un movimento in avanti, un salto, una esposizione. Non è ovviamente solo un problema dei sacerdoti del tempio, ma della religione ogni qual volta la difesa di se stessa, la conservazione della sua verità dottrinale, prevale sul movimento vitale e sovversivo dell’ereditare come riconquista. Gesù incarna la vita, i sacerdoti la morte. Ma questo conflitto attraversa ogni dottrina che istituzionalizzandosi rischia di perdere il suo slancio vitale originario».

In che modo il Cristo vince l’angoscia e la paura della morte?

«Nella notte del Getsemani possiamo distinguere due diverse preghiere che Gesù rivolge a Dio. Nella prima egli chiede la sospensione della Legge, chiede che venga fatta un’eccezione, supplica, più direttamente, di restare in vita, di allontanare il calice amaro della morte. In questo Gesù resta fedele alla sua predicazione: non è forse il padre – come indica bene la parabola lucana del figliol prodigo – colui che interrompe l’applicazione inumana della Legge, colui che anziché alzare il bastone del castigo abbraccia il figlio che ritorna? L’essenza della Legge non è forse il perdono, l’esperienza della Grazia? Ma l’attraversamento dell’angoscia e della paura della morte avvengono con la seconda preghiera che è il vero mistero di quella notte. Con questa seconda preghiera Gesù disarma se stesso, il proprio Io, si consegna alla volontà del padre. Ma in questa consegna, come ho già detto, egli si libera di ogni consegna. Non va incontro alla morte come se fosse un destino che gli viene sacrificalmente imposto, ma sceglie quel destino, lo fa proprio. Ecco perché egli non si sacrifica per noi ma offre tutto se stesso in un atto di desiderio e di donazione assoluta che vorrebbe liberare l’uomo dal fantasma fanatico del sacrificio. Non indebita l’uomo, ma lo ama senza interesse».

Cosa differenzia e che cosa, invece, accomuna il tradimento di Pietro e quello di Giuda?

«Pietro e Giuda sono entrambi innamorati di Gesù. Sono tra i suoi discepoli, tra i prescelti. Ma Giuda è stato deluso dal maestro e cova rancore come accade in ogni amore deluso. Dunque è disposto a colpire il suo maestro, a venderlo per il prezzo di uno schiavo. Pietro invece non è affatto deluso. Egli ama profondamente il suo maestro. Ma il suo errore consiste nel non considerare che anche l’amore più puro e assoluto, in quanto umano, può essere attraversato dalla contraddizione e dal cedimento. È quello che accade; egli misconoscerà per tre volte il nome di Gesù. È solo il suo pianto finale che gli consente di intendere la natura umana e, dunque, necessariamente contraddittoria, del suo amore. Sono solo le sue lacrime che gli consentono di ripartire, di ricominciare».

Antonio Sanfrancesco
20 luglio 2019
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