Gianfranco Ravasi " Pietro e la Parousia"
29 giugno
PIETRO E LA PAROUSÍA
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
In un passato neppure troppo lontano in Italia la solennità degli apostoli Pietro e Paolo, assegnata dal calendario liturgico al 29 giugno, era una festività anche civile.
Il ricordo è vivo in me perché la mia ordinazione sacerdotale avvenne proprio nella vigilia, il 28 giugno 1966, per permettere a me e agli altri presbiteri della diocesi di Milano, che la celebrazione solenne successiva avvenisse in un giorno festivo dell’intera comunità. Oggi lo è ovviamente solo per la Città del Vaticano e per Roma. Nel giorno successivo si commemorano, invece, tutti i protomartiri cristiani romani, citati persino dal più celebre degli storici latini, Tacito, vissuto tra il 55 e il 125 circa. Nei suoi Annales, evocando l’incendio di Roma del 64, annotava che «Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più atroci coloro che il volgo chiamava crestiani... i quali prendevano nome da Cristo, condannato a morte ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio» (XV,44,2-5).
Ma ritorniamo a san Pietro la cui esistenza fu troncata in quell’occasione sul colle Vaticano. Il taglio biblico della nostra rubrica ci invita a riscoprirne la figura attraverso il Nuovo Testamento, ove è citato ben 155 volte col nuovo nome assegnatogli da Gesù, Pétros, e 9 volte con l’originale aramaico Képhas. Tutta la sua vicenda umana e apostolica è narrata nei Vangeli, negli Atti degli Apostoli (capitoli 1-15) e sporadicamente nell’epistolario paolino. Noi, però, vorremmo proporre a chi ci segue una lettura “petrina” più specifica.
È noto, infatti, che tra le cosiddette Lettere cattoliche – cioè destinate a tutte le Chiese delle origini, testi che erano espressione della predicazione e della vita della comunità cristiana destinata ormai ad allargarsi oltre il perimetro gerosolimitano-palestinese – sono registrati anche due scritti posti sotto il patronato di Pietro. Il primo è un’opera composta in un greco raffinato (62 parole sono esclusive di queste pagine in tutto il Nuovo Testamento), sorprendentemente convergente con alcuni temi paolini come la grazia, l’elezione, la libertà cristiana, il culto spirituale, i carismi, il rapporto con le autorità civili. Tuttavia non mancano contatti anche col pensiero giudeo-cristiano della Lettera di Giacomo e di quella agli Ebrei.
Noi, però, vorremmo suggerire ai nostri lettori un approfondimento (o almeno un itinerario testuale) all’interno della Seconda lettera di Pietro che, tra l’altro, dimostra esplicitamente di conoscere l’esistenza della Prima: «Questa, o carissimi, è già la seconda lettera che vi scrivo e in tutte e due con i miei avvertimenti cerco di ridestare in voi il giusto modo di pensare» (3,1). In realtà, però, essa per linguaggio, stile e argomenti diverge dalla Prima e converge piuttosto con un’altra Lettera cattolica, quella di Giuda. Il patronato dello scritto è, comunque, netto: «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo» (1,1). Tuttavia è convinzione comune tra gli studiosi che sia da escludere una paternità petrina.
L’incertezza su tale attribuzione era già diffusa nel III secolo con Origene che la definiva «controversa», mentre lo storico Eusebio di Cesarea ribadiva che «di Pietro una sola Lettera, la cosiddetta Prima, è riconosciuta come autentica». E san Girolamo concludeva: «Pietro ha scritto due Lettere, che si chiamano cattoliche, ma la seconda è rifiutata dalla maggioranza a causa della sua differenza di stile con la Prima». Effettivamente tra i due testi ci sono solo 100 vocaboli comuni contro 600 diversi (56 sono assenti in tutto il resto del Nuovo Testamento). In particolare differenti sono temi e impostazione e a questo ha badato l’esegesi moderna giungendo alla conclusione che siamo di fronte a uno scritto tardo (forse l’ultimo del Nuovo Testamento, della fine del I o dell’inizio del II secolo), posto sotto lo pseudonimo e l’autorità petrina da un predicatore o maestro dell’antica tradizione cristiana.
Costui ha voluto comporre una specie di testamento o discorso d’addio, liberamente ispirandosi a un genere noto all’Antico Testamento e usato per Giacobbe (Genesi 49), Mosè (Deuteronomio 33), Giosuè (cap. 23), Davide (2Samuele 23,1-7) e, nel Nuovo Testamento, per lo stesso Gesù (Giovanni 13–17) e per Paolo (2Timoteo).
Ecco una battuta significativa al riguardo: «Credo giusto, finché mi trovo in questa tenda [del corpo] di continuare a tenervi desti con la mia esortazione, sapendo che è vicino il tempo di levare la mia tenda, come anche il Signore nostro Gesù Cristo mi ha manifestato» (1,13-14).
Lo scritto è fortemente segnato dalla polemica contro i «falsi maestri» o «profeti» che «introducono eresie rovinose» (2,1). È difficile ricostruire la fisionomia di costoro perché l’autore procede per allusioni. Tuttavia possiamo tentare un’identificazione raccogliendo i vari indizi. Daremo, così, uno sguardo anche alla Chiesa delle origini che visse non in un’età dell’oro idealizzata ma nei travagli di una crescita, spesso faticosa e tortuosa.
L’accento più esplicito nel descrivere questi dissidenti cade sulla «conoscenza» (per sette volte ritornano i vari termini della gnosis) che essi si arrogano. Possiamo, perciò, sospettare la presenza delle prime tentazioni gnostiche, inclini a creare un cristianesimo elitario, legato al concetto di salvezza acquisita attraverso gradi progressivamente alti di conoscenza riservati agli eletti. Sappiamo quanto la gnosi crebbe poi, nel II-III secolo, in Egitto configurando un vero e proprio modello alternativo di cristianesimo. Per sostenere le loro tesi gli pseudoprofeti ricorrono pure a «miti sofisticati» (2,16) di tipo esoterico, generando non solo una teoria ma anche una prassi eterodossa.
Spesso, infatti, all’idea di ascesa nei cieli della conoscenza si accompagnava il rigetto dell’ascesi cristiana: liberi dal peso del corpo o ad esso indifferenti, lasciavano che quest’ultimo si abbandonasse al suo istinto e al suo destino, mentre l’anima e la mente si libravano nei cieli tersi della contemplazione. Ecco, allora, l’accusa di libertinismo scagliata contro di loro dall’autore della Lettera: «Con discorsi roboanti e vani adescano ricorrendo alle passioni licenziose della carne... Promettono libertà ma in realtà sono loro stessi schiavi della corruzione. Se dopo aver fuggito i miasmi del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo, ne rimangono nuovamente invischiati e piegati, la loro ultima condizione è peggiore della prima... Si è per essi verificato il proverbio che dice: Il cane è tornato al suo vomito [Proverbi 26,11] e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago» (2,18-22).
Ma l’attacco più severo riguarda due capitoli della teoria dei falsi maestri. Il primo concerne la parousía, la venuta ultima di Cristo a sigillo della storia, che tanto agitò la cristianità delle origini. Ebbene, costoro, ricorrendo alla concezione cosmologica ellenistica, rifiutano l’idea che la storia confluisca verso quella meta di palingenesi. Infatti, questi «schernitori beffardi» affermano: «Dov’è mai la promessa della sua venuta [parousía]? Dal giorno in cui i nostri padri s’addormentarono tutto rimane come al principio della creazione» (3,3-4).
Si fa leva sulla tesi greca dell’immutabilità dell’essere per negare ogni redenzione futura che, invece, il nostro autore ribadisce con fermezza secondo il linguaggio apocalittico classico: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli passeranno fragorosamente, gli elementi cosmici consunti dal calore si dissolveranno e la terra con quanto contiene sparirà... Noi attendiamo e affrettiamo la venuta [parousía] del giorno di Dio nel quale i cieli si dissolveranno nel fuoco e gli elementi cosmici incendiati si fonderanno. Secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra nei quali avrà residenza stabile la giustizia» (3,10-13).
Di fronte al ritardo della parousía di Cristo i falsi maestri ne avevano proposto semplicemente la cancellazione, riducendo il cristianesimo a una fede intimistica, basata sulla purificazione della conoscenza. L’autore della Lettera, invece, riconferma l’importanza dell’attesa perché la dilazione fa parte del piano di Dio «per il quale un giorno solo è come mille anni e mille anni come un giorno solo: il Signore non ha allora – nel mantenere la sua promessa – quella lentezza che alcuni gli attribuiscono ma usa pazienza non volendo che alcuno perisca ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (3,8-9).
Un secondo capitolo teologico rilevante riguarda l’uso spregiudicato delle Sacre Scritture da parte di questi falsi maestri, in particolare delle Lettere di Paolo che sembrano già essere codificate e “canonizzate” (3,15-16). L’autore, allora, ribadisce con forza la funzione della tradizione ecclesiale nella corretta interpretazione della Bibbia: «Nessuna profezia della Scrittura può essere soggetta a interpretazione soggettiva. La profezia non ci fu comunicata da volontà umana ma quegli uomini parlarono da parte di Dio, mossi dallo Spirito Santo» (1,20-21).
La Lettera ci presenta l’Antico e il Nuovo Testamento profondamente uniti tra loro sulla base di una lettura globale cristologica. I profeti e gli apostoli fanno parte di un unico progetto di rivelazione che ha per meta Cristo: «Dovete tenere a mente le parole che furono prima rivolte dai santi profeti e il comandamento del Signore e Salvatore trasmesso dagli apostoli» (3,2). È in questa luce che il nostro autore, rivestendosi dei panni di Pietro, rievoca il giorno luminoso della Trasfigurazione nel quale, accanto a Gesù, erano presenti Mosè ed Elia, cioè l’Antico Testamento, e conclude: la voce che proclamava Gesù Figlio amato di Dio «noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con Cristo sul monte santo. E così abbiamo conferma ancor più solida della parola profetica alla quale fate bene a rivolgere l’attenzione come a lampada che brilli in luogo tenebroso, finché non spunti il giorno e la stella dell’aurora si levi nei vostri cuori» (1,18-19).