Gianfranco Ravasi - Diaboliche «fake news»
Falsità. Il serpente tentatore della Genesi rappresenta l’archetipo di una comunicazione malata che comunque si diffonde e si accredita ammantandosi dei colori della verità
Lo zelo anglomane ha ormai imposto l’espressione fake news. In realtà, se si sfoglia un vocabolario, sostantivo e verbo fake coprono i nostri concetti di «falso, inganno, truffa, imbroglio, contraffazione, trucco» e così via (l’unica eccezione è nell’americanismo musicale to fake it che rimanda a un «improvvisare un assolo» nel jazz). Ebbene, la falsa notizia spacciata per verità, al punto tale da far coniare il paradossale sintagma “post-verità”, in realtà ha un capostipite illustre. Si tratta nientemeno che del serpente tentatore del racconto prototipico della Genesi biblica, un rettile non certo registrato nella tassonomia zoologica.
È, infatti, un simbolo che originariamente rimandava all'idolatria dei Cananei, il popolo indigeno della terra biblica che praticava i culti della sessualità, vista come espressione del divino che si manifesta nella fecondità umana e animale e nella fertilità agricola. Il serpente è, infatti, un segno fallico; anzi, nell’antico Vicino Oriente era un indicatore di vita perenne soprattutto col suo mutar pelle. Era anche una rappresentazione del caos: la dea mesopotamica negativa Tiamat era raffigurata come un serpente gigantesco. La stessa Bibbia, però, in un testo greco tardo, il Libro della Sapienza, intuisce dietro questo animale simbolico il Tentatore per eccellenza, Satana: «È per invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo e ne fanno triste esperienza coloro che gli appartengono» (2,24). Nell’Apocalisse il terribile «serpente antico», il drago, è «Satana, il diavolo» (20,2). Egli è definito dalla Genesi (3,1) come «astuto», un aggettivo sapienziale che evoca la capacità di elaborare un progetto, espresso appunto nel ricorso a un abile coinvolgimento ingannevole della donna e dell’uomo.
La seduzione avviene all’ombra di un albero ignoto alla classificazione botanica di Linneo, essendo un vegetale “metafisico” e quindi simbolico. È «l’albero della conoscenza del bene e del male», in pratica una rappresentazione metaforica della morale: la «conoscenza» nella Bibbia non è solo intellettiva ma anche volitiva, affettiva, effettiva, è un atto globale della coscienza, mentre «bene e male» sono i due poli estremi entro cui si racchiude tutta la morale. Quell’albero simbolico è dato da Dio che l’ha piantato nel terreno della storia, perché i valori morali ci precedono e ci eccedono, sono trascendenti e oggettivi.
L’uomo, invece, violando il precetto divino che propone e impone la morale, vuole – con la libertà di cui è stato dotato da Dio – decidere in proprio quale sia il bene e il male, rifiutando di riceverli come codificati da Dio. Sceglie, quindi, di essere lui stesso arbitro dell’etica, respingendone ogni definizione superiore. In questo è sollecitato proprio dalla fake news che gli rifila il serpente sopra evocato il quale insinua odiosamente che Dio proibisca tutto, «ogni albero del giardino» dell’Eden (3,1) e non solo quello della «conoscenza del bene e del male».
Ma l’inganno prosegue con un’altra indicazione maliziosa che ha un’anima di verità, ma che è presentata in maniera ostile: «Dio sa che ... si aprirebbero i vostri occhi e diverreste come Dio, conoscitori del bene e del male» (3,5). Ora, è vero che decidere in proprio ciò che è bene e male è un atto divino, e quindi il «peccato originale» è un atto di hybris, come diranno anche i Greci, è il sostituirsi a Dio, arrogandosi la sua sapienza e la sua autorità, la signoria divina sulla morale. Ma ciò che il Tentatore nasconde è che questo è un atto di ribellione dalle conseguenze catastrofiche perché l’umanità con la sua scelta di scardinare l’etica crea quella valanga di male, di violenza, di ingiustizia che il capitolo 3 della Genesi descriverà nelle battute successive.
Ormai, però, la seduzione della fake news diabolica ha generato il suo effetto fascinatore: «La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò» (3,6). La falsità insistita e ben elaborata prolifera e si diffonde (si pensi all’odierno Internet) e si rigenera ormai come verità pseudo-oggettiva, apparentemente solida e convincente, in realtà deleteria e devastante. In pratica nel racconto della Genesi, come dicevamo, abbiamo l’archetipo di una comunicazione malata che comunque si allarga ammantandosi coi colori della verità. Per questo nella letteratura biblica sapienziale si può individuare un filo nero sistematico che ripetutamente condanna «la bocca piena d’inganno», segno distintivo del potente e del malvagio.
Da quella sorgente discende l’infinita genealogia delle falsità spesso cristallizzate in testi scritti, così come ora accade in forma esponenziale sulle pagine elettroniche dei social. Tanto per citare qualche caso emblematico religioso, pensiamo al carteggio apocrifo tra san Paolo e Seneca, capace di rendere il filosofo latino un filocristiano e persino un convertito alla nuova fede: in realtà, l’epistolario era stato elaborato nel IV secolo. E che dire poi della celebre “Donazione di Costantino”, un testo che fece infuriare Dante: «Ahi, Costantino, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!», cioè il papa Silvestro I (Inferno XIX, 115-117)? In realtà quest’idea di teocrazia papale fu un’abile contraffazione escogitata dalla Curia romana nella seconda metà dell’VIII secolo per avallare il potere temporale dei pontefici.
Ognuno potrà allungare questa lista tirandola anche verso l’ambito politico, ad esempio con gli infami Protocolli dei savi di Sion o con la bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein escogitata da George Bush per giustificare la prima guerra del Golfo. Tra parentesi, l’antica metafora della “bufala” nasce dall’espressione «menare uno per il naso come una bufala», ossia trascinare qualcuno dove si vuole, tirandolo per l’anello appeso al naso, allora applicato ai bufali e ai buoi. Se si vuole, la matrice teorica della falsificazione comunicativa può essere identificata in una tesi ribadita negli ultimi tempi: non ci sono fatti, ma solo interpretazioni.
Il filosofo Maurizio Ferraris nel suo saggio Postverità e altri enigmi (Il Mulino 2017) partiva proprio dall’asserto appena enunciato e commentava: «Frase potente e promettente perché offre in premio la più bella delle illusioni: quella di avere sempre ragione, indipendentemente da qualunque smentita». Questa deriva ha il suo ideale prototipo proprio nell’interpretazione falsificata del precetto divino da parte del serpente e dilaga fino a innumerevoli postverità che persino i politici più potenti non esitano a impugnare come strumento di governo. Ma alla fine vale un interrogativo che lo stesso Ferraris lancia al lettore: «Che cosa potrebbe mai essere un mondo o anche semplicemente una democrazia in cui si accettasse la regola che non ci sono fatti, solo interpretazioni?». Soprattutto se esse sono frutto di una manovra ingannatrice ramificata lungo le arterie virtuali della rete informatica?