R. Repole - Il primato petrino e la Chiesa sinodale
Primato e sinodalità
· Sulla circolarità tra la Chiesa, la collegialità episcopale e il vescovo di Roma ·
Pubblichiamo l’articolo Il primato petrino e la Chiesa sinodale del presidente dell’Associazione teologica italiana tratto dal numero di marzo della rivista «Vita Pastorale. Il mensile per la Chiesa italiana».
È ormai diventato storico l’intervento che papa Francesco ha tenuto in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, nel quale ha parlato della sinodalità come dimensione costitutiva della Chiesa. In esso il Papa ha messo in evidenza come vi sia una circolarità tra sinodalità della Chiesa, collegialità episcopale che si realizza a diversi livelli e primato del vescovo di Roma.
Nell’occasione, Francesco si è detto «persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce. Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo — come successore dell'apostolo Pietro — a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese».
Si tratta di una circolarità virtuosa che è presente anche nella recente costituzione Episcopalis communio, con cui il Papa si pronuncia a proposito dell’istituto del Sinodo dei vescovi: un documento del quale si possono apprezzare degli aspetti di novità, ma rispetto al quale si possono, onestamente, ammettere anche alcune timidezze. Il Sinodo dei vescovi non è presentato dalla Costituzione come una realtà a sé stante, quasi che lo si potesse pensare a prescindere dalla reale vita e vitalità del popolo di Dio o come un evento che riguarda soltanto i vescovi e non la Chiesa nel suo essere sinodale.
Di Episcopalis communio si deve, perciò, anzitutto apprezzare il fatto che i vescovi vengano visti quali maestri e insieme discepoli nella Chiesa. Da ciò deriva che essi sono dotati di un magistero ma, al contempo, necessitano di ascoltare quanto lo Spirito dice alle Chiese ascoltando i fedeli, dotati dello stesso Spirito. Anche in questo caso viene citato un passo conciliare particolarmente caro a Francesco e ripreso da lui in diverse occasioni, quello di Lumen gentium 12. In esso si afferma che la totalità dei fedeli, avendo ricevuto «l’unzione dello Spirito santo (cf 1 Giovanni 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà che gli è particolare mediante il senso soprannaturale della fede in tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di morale». Da questo “statuto” dei vescovi che sono a servizio del popolo di Dio, di cui fanno parte, deriva che il Sinodo dei vescovi deve, anzitutto, essere uno strumento di ascolto profondo di quanto lo Spirito dice alla Chiesa attraverso l’ascolto reciproco dei vescovi che vi prendono parte e che rappresentano le Chiese. Al contempo, tale ascolto dovrà allargarsi, coinvolgendo i pastori, i religiosi e i laici delle singole Chiese, affinché tutti possano esprimersi circa il bene della Chiesa, in ordine alle diverse questioni di cui si tratta nei Sinodi. È particolarmente apprezzabile che per realizzare l’ascolto del popolo di Dio si punti all'utilizzo effettivo di quegli strumenti di partecipazione della Chiesa, come il consiglio presbiterale e i consigli pastorali, che sono stati spesso svuotati di senso in questi decenni.
Nello stesso orizzonte, va rimarcato un altro grande elemento di novità: viene pensato anche il momento della ricaduta dei risultati raggiunti dal Sinodo dei vescovi nel tessuto del popolo di Dio e nella vita delle Chiese, in una recezione che deve essere differenziata perché “incarnata” nelle diverse culture abitate dalla Chiesa. È un aspetto così significativo che si prevede pure una commissione di esperti per l’attuazione. «In tal modo, si mostra che il processo sinodale», dice Francesco, «ha non solo il suo punto di partenza, ma anche il suo punto di arrivo nel popolo di Dio, sul quale devono riversarsi i doni di grazia elargiti dallo Spirito santo per mezzo del raduno assembleare dei pastori» (n. 7).
Tutto ciò non toglie che il Sinodo coinvolga proprio dei vescovi. Anche se vi prendono parte alcuni esperti, scelti in relazione ai temi dibattuti, il Sinodo si configura come un organismo essenzialmente episcopale. Dalla Costituzione emerge come esso vada compreso in quanto collocato nella più ampia sinodalità della Chiesa, ma anche nella realtà della collegialità episcopale rimessa in luce nell’ultimo concilio. Nella Costituzione si evidenzia, infatti, come la collegialità dei vescovi rilanciata dal Vaticano ii preveda che ogni vescovo eserciti, in comunione con tutti gli altri vescovi con e sotto il romano Pontefice, una sollecitudine per tutta la Chiesa.
Ed è in questo orizzonte teologico che viene inquadrato l'istituto del Sinodo dei vescovi. Nel già citato discorso tenuto in occasione del 50° anniversario della sua istituzione, il Papa aveva osato parlare della collegialità dei vescovi vissuta al Sinodo non solo come una realtà affettiva bensì anche come effettiva. Egli prendeva una posizione coraggiosa rispetto a quanti, nei decenni passati, avevano sostenuto la tesi secondo cui il Sinodo dei vescovi non costituirebbe un esercizio effettivo di collegialità episcopale, in quanto non sono presenti tutti i vescovi.
Proprio su questo punto, tuttavia, si deve registrare una qualche timidezza della Costituzione: tanto più se la si confronta con quanto Francesco aveva affermato in occasione dei cinquant'anni del Sinodo dei vescovi. A partire dalla sua istituzione e secondo la dicitura di un significativo testo conciliare come Christus Dominus 5, il Sinodo dei vescovi è pensato non tanto come momento di esercizio della collegialità episcopale, quanto come aiuto alla potestà del Papa. Nella Apostolica sollicitudo con la quale Paolo vi ha eretto e costituito il Sinodo, ciò appare evidente. La prospettiva viene confermata e ribadita dal successivo testo conciliare (Christus Dominus 5) nel quale si afferma: «Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la prestano nei modi e nelle forme dallo stesso romano Pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo, riuniti nel consiglio propriamente chiamato Sinodo dei vescovi». Identica visione è quella recepita e rilanciata dal Codice di diritto canonico.
Ci si poteva, dunque, attendere che la Costituzione facesse evolvere questo istituto a espressione reale della potestà del collegio dei vescovi, che non esiste mai se non cum e sub Petro. Così non è stato. Si può concludere che il documento colloca sì il Sinodo dei vescovi nell'orizzonte della collegialità, ma ne conferma ancora lo statuto di strumento a servizio del ministero del Papa. Rimane espressione di una collegialità affettiva, e non anche effettiva. Su questo aspetto resta molto spazio per la riflessione dei teologi e dei canonisti. Ciò non toglie che si possa, sin d'ora, recepire l'istanza di un cammino più realmente sinodale nella Chiesa e di un maggiore esercizio della collegialità episcopale.
di Roberto Repole