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Abitare poeticamente la terra

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La Bibbia e il mondo vegetale
4 dicembre 2018
c/o Liceo classico linguistico “Scipione Maffei” - Verona

Abitare poeticamente la terra
Marco Campedelli

Questo potrebbe essere un modo di raccontare il giardino. L'espressione del poeta Hölderlin è così commentata dal filosofo Heidegger: abitare ha qualcosa a che vedere con costruire. Più precisamente, con misurare, prendere le misure. La misura dell'abitare si chiama poesia perché è questo il modo autentico di abitare la terra. Non un modo calcolante ma uno stare nella misura tra l'alto e il basso, tra la terra e il cielo. Proprio nel frammezzo. Dove vive l'incanto ma anche il rischio. Perché il giardino è un luogo da coltivare e da proteggere. È uno spazio dove convivono l'estetica e l'etica. L'estetica perché il giardino è bellezza e crea bellezza. Ma il giardino come spazio desiderato e condiviso diventa spazio etico perché è anche ospitalità, intimità, relazione, giustizia.

La Bibbia si incontra con orizzonti di grandi culture come quelli delle civiltà egizia e della Mesopotamia. Proprio queste due culture sono terre di giardini. Nell'Egitto i giardini recintati da alte mura. Dentro un incanto di fiori e di alberi ma anche uno spazio coltivato ad orto: per produrre vino, frutta e verdura. Il giardino come il tripudio dei sensi...

La terra d'Egitto, d'altra parte, è una creatura del Nilo. È sinonimo di fertilità e di bellezza.

Vi sono poi i giardini babilonesi: i cosiddetti giardini pensili dell'antica città di Babilonia.

Nella Bibbia le cose sono diverse. Il termine “giardino”, sottolineano gli esperti, compare poche volte.
La terra del popolo ebraico è piccola, più o meno come la regione Calabria. Per 2/3 è deserta e solo un quarto è fertile.

Qual è lo specifico del giardino per la Bibbia? Il popolo di Israele è uscito da una terra giardino come l'Egitto deve affrontare un cammino di quarant'anni nel deserto verso la terra promessa. Lascia un giardino "perfetto" per un giardino "imperfetto".

E questa è una sfida: quale giardino scegliere? Quello della terra dei padroni o quello modesto e fragile ricevuto però in dono nel segno della libertà? Scegliere i giardini d'Egitto significa scegliere anche i suoi dei. Scegliere di camminare verso la terra promessa è scegliere di camminare verso il Dio della promessa, portare la sua parola come pendaglio tra gli occhi, legarla ai propri polsi, inciderla nel proprio cuore.

Il giardino nella Bibbia è lo spazio di una libertà ricevuta e una possibilità di abitare lo spazio del desiderio e della responsabilità.

La parola giardino risuona nella poesia del Cantico dei cantici. Il Cantico dei cantici è la terra della relazione, l'incanto dell'amore. Lo spazio dell'intimità. Il giardino è luogo di iniziazione alla relazione autentica. Questa parola, iniziazione, ci richiama al senso del rito, ma anche all'itinerario educativo. E' bello scoprire che, infine, il giardino è una persona. Il giardino è la donna. La relazione amorosa. L'intimità che non si ottiene con la violenza ma che si realizza nella libertà. Il cancello del giardino nel testo del Cantico si apre solo dall'interno. Non si può forzare, violentare, profanare l'amore.

Il giardino è un luogo dove abitare poeticamente, cioè in modo autentico, la terra. Giardino tra terra perduta e terra ritrovata.

Quasi nel centro del Cantico il diletto, l'amato descrive il corpo dell'amata: “Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fonte sigillata”. Il giardino non è solo uno spazio, ma una persona. Non solo un luogo, ma una relazione. In questa relazione il giardino è raccontato con un’esplosione di sensi: “I tuoi germogli sono un paradiso di melograno, con i frutti più squisiti, alberi di Cipro e Nardo, Nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, con ogni specie di alberi d'incenso, mirra e alle, con tutti gli aromi migliori”.

Il giardino, però, è anche lo spazio che racconta l'esperienza centrale e fondante della Bibbia: l'esodo. Un cammino che va dall'esilio al ritorno nella terra. Il giardino della terra promessa in cui “scorre latte e miele, la più bella di tutte le terre”.

Ma gli uomini, spesso contaminati dal virus padronale, si sono fatti signori di una terra, di un giardino di cui erano solo custodi, anzi a ben vedere "custoditi" da quella terra. Peraltro, dopo il tempo del lutto e del lamento, arriverà quello della gioia e della riconoscenza. Dio costruirà fontane d'acqua per tutti gli assetati di giustizia. La vedova, l'orfano e lo straniero finalmente potranno inebriarsi della bellezza della terra e la parola esclusione non sarà più scritta come vergogna sulla loro fronte.

È una nuova creazione. Un giardino donato. Ma non è una terra solo bella bensì anche una terra buona. Non ha solo una connotazione estetica ma anche una connotazione etica. Una terra dove bellezza fa rima con giustizia. Una terra che produce bellezza per tutti. Che non genera violenza ma fa germogliare la pace. Ecco l’ecologia integrale della Bibbia. Quell'ecologia richiamata da Francesco, il vescovo di Roma, nella Laudato si’. In questa prospettiva di una terra che germoglia e fruttifica per tutti c'è un coraggioso documento dal titolo “La terra è di Dio”: una lettera scritta dall'allora abate di San Paolo Fuori le mura e padre conciliare dom Giovanni Franzoni, poi protagonista delle grandi battaglie civili nel nostro Paese. Era il 1973. Uscì in preparazione del Giubileo del 1975 indetto da Paolo VI. Per Franzoni dire la terra di Dio significava dire che la terra è di tutti.

Che i poveri non possono essere espropriati del loro giardino. 

Risuonano quelle parole profetiche vedendo come è ridotta “la terra di Dio”; oggi questo racconto biblico trova corpo nelle storie di donne e uomini in cerca di un giardino perduto, violato, un giardino distrutto dalla guerra, inquinato dai rifiuti tossici. Un giardino rubato ai piccoli e divorato dalle multinazionali e dalle mafie. Ci sono perfino popoli che non hanno più nemmeno un giardino per seppellire i morti.

Ma, tornando alla Bibbia, soffermiamoci sul giardino dell'Eden del libro della Genesi. I capitoli 2-3 tra quelli più recenti del Primo Testamento, in cui è proiettata all'indietro nel tempo delle origini la storia di esilio e di ritorno verso la terra promessa che il popolo ha vissuto. Per questo è lo spazio della vita e della libertà, della relazione e dell'alterità, della creatività e dell'incontro. Del dono e della responsabilità. Per questo ha un senso pregnante nella tradizione sacerdotale del testo ci si riferisce al culto ma anche al servizio etico: il compito affidato agli umani è di servire la terra, costruire una società giusta, salvaguardare i diritti umani, salvaguardare il creato, promuovere la giustizia, coltivare la pace (Per la parte riguardante il Primo Testamento mi sono riferito alla riflessione della biblista Grazia Papola.)
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Anche nel vangelo c'è un giardino ferito e germogliato. Gesù risorto si presenta come giardiniere, come colui che dice la cura di Dio.

Nella Via crucis del 1999 il poeta Mario Luzi mette queste parole in bocca al Cristo:

“Padre mi sono affezionato alla terra come non avrei creduto
È bella e terribile la terra
Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne e perfino i deserti...".
Un Cristo affezionato alla terra, una terra per cui sente profonda nostalgia, e che non vorrebbe più lasciare. Un Cristo, per dirlo con le parole di Bonhoeffer, “fedele alla terra".

Cristo appare come nuovo Adamo. Questo anche nella narrazione della passione morte e risurrezione.
Il simbolo del giardino torna insistente. È infatti un bosco-giardino l'oliveto del Getsemani, è un giardino quello che Gius d'Arimatea offre per seppellire il corpo di Gesù. Proprio in questo giardino Gesù appare alla Maddalena sotto l'aspetto del giardiniere “hortolanus” è signore del giardino.

La scena dell'incontro tra Gesù e la Maddalena evoca il Cantico dei cantici. Maria di Magdala riconosce il maestro dalla voce. Come l'amata del cantico riconosce il suo diletto che viene balzando sui monti, saltando sulle colline come un cerbiatto. Dopo il caos disgregatore della morte il giardino della risurrezione è l'immagine del cosmo finalmente ritrovato. Riconciliato.

Commuove che sui barconi di Lampedusa, tra i beni di prima necessità e i ricordi più struggenti, siano stati trovati molte Bibbie e molti Corani. Molti di questi migranti non ce l'hanno fatta e i loro libri hanno il valore di una consegna, di un testamento. Con qualche fiore tra le pagine, parole sottolineate, qualche nome scritto al margine della pagina. Storie sacre che continuano in nuovi esodi, nuovi diluvi, nei sogni spesso infranti di giardini attesi e desiderati.

Il giardino diventa lo spazio del desiderio. C'è, dentro questo desiderio, il gusto amaro dell'esilio.
L'esiliato sradicato dalla propria terra pensa la terra-giardino come uno spazio in cui il lutto viene rielaborato, dove dare ordine al proprio universo infranto. L'incanto del giardino non è più innocente, preservato dalla ferita. È un incanto abitato dalla consapevolezza che anche l'albero ferito germoglia, che la primavera viene dopo un rigido inverno e un letargo in cui anche la speranza sembrava tentata a non risvegliarsi.

La poetica del giardino è lo spazio per immaginare luoghi possibili, per progettarli. Nel giardino la differenza è una virtù, non una vergogna. Ma il giardino è uno spazio non solo mitico, immaginario.
È uno spazio reale, storico. Per cui la poetica del giardino non può sussistere senza la politica del giardino che è il passaggio dal mito alla storia. E dentro questo spazio della storia il mito rivela la sua forza generatrice.

Il giardino dell'Eden sta cronologicamente dietro l'esilio ma simbolicamente davanti. Cioè diventa la meta verso cui tendere. È l'utopia sempre da realizzare. In questo senso, prendendo a prestito una riflessione di Agamben, se l'Eden parla delle cose ultime noi facciamo l'esperienza delle cose penultime. Per cui è il cambiamento del penultimo che porta al ripensamento dell'ultimo. La storia è il teatro del penultimo.

In questo senso il giardino perfetto dialoga con il giardino possibile.

Mi piacerebbe ripensare la metafora del giardino come metafora dell'esperienza educativa.

La scuola deve custodire e coltivare. Deve essere uno spazio recintato, cioè salvaguardato, protetto ma non ostile. Non deve essere lo spazio della difesa ma della cura. Il giardino-scuola è dialogo costante tra natura e cultura, con la nostra natura di esseri umani e la possibilità di diventarlo. In questo mi sembra significativo evocare le parole del nostro concittadino veronese, il teologo Romano Guardini sul compito che abbiamo di diventare pienamente umani.

La scuola dovrebbe essere il luogo dell'incanto. Il luogo cioè dove coltivare un'utopia. Però la scuola è una esperienza davvero educativa se accetta di essere “violata” dalla trasgressione di coloro che educa.

L'albero della conoscenza che sta nel mezzo del giardino-scuola non può essere preservato. Deve prevedere la trasgressione. Deve prevedere la cacciata dall'Eden. Deve accompagnare nell'esilio.
Perché la scuola è un originario exit. Un'uscita.

Lo studente deve ritrovare il suo giardino dove la terra dell'incontro sia anche la terra della responsabilità. La poesia della Bibbia. I salmi che il popolo compone nascono quando le cetre sono attaccate agli alberi. La riappropriazione della terra non è la proprietà del latifondo avuta per antichi privilegi o in un sistema autoritario e violento, è la terra appesa a una promessa. Un giardino ri-trovato prevede questo viaggio di perdita di innocenza. I più bei canti i ragazzi li scrivono quando, dopo aver perduto la terra dell'incanto, la ritrovano attraverso la loro ricerca, e perfino attraverso il loro errore.
La dove errore sta anche per errare, viaggiare, cercare, ricominciare.

Il fare poetico che la scuola genera porta frutto, germoglia solo in un fare politico di chi da fruitore del giardino diventa finalmente costruttore o co-costruttore del giardino.

La Bibbia, come sappiamo, sappiamo è matrice di cultura: poesia, letteratura, arte, musica, architettura si sono abbeverate alla fonte ispiratrice della Bibbia. Bastano queste parole di Marc Chagall ne “Il messaggio biblico: "Fin da piccolo sono stato attratto dalla Bibbia. Mi è sembrata e mi sembra ancora, che sia stata la più grande fonte di poesia di tutti i tempi. Fin da allora ne ho cercato il riflesso nella vita e nell'arte.”

C'è un testo che mi è particolarmente caso e che vorrei evocare.

E’ il testo del gigante egoista di Oscar Wilde. La storia mette al centro della scena il giardino. Un giardino che per natura si offre come incanto e nutrimento. Ma nel momento in cui viene snaturato conosce una morte senza metamorfosi un rigidissimo e permanente inverno. I bambini riabitano il giardino attraverso una trasgressione. Un pertugio ricavato nel muro. Ancora una volta la trasgressione fa ripartire la storia. In fondo è un dialogo che mantiene in vita il giardino e i bambini.
I bambini nutrono il giardino e il giardino nutre i bambini.

È un altro modo di raccontare il dialogo tra natura e cultura.

Una scuola che chiude il suo sapere in un recinto diventa una scuola egoista. E siccome la scuola ha un sapere grande può avere anche un potere grande. Ma la scuola che non permette ai bambini di stare sui suoi alberi diventa un gigante egoista. Gli studenti devono poter salire sugli alberi della scuola e la scuola deve loro permetterglielo perché solo così la scuola fiorisce… come in un giardino. Concludo con una poesia che mette in scena alberi e bambini, ricerca e stupore, una poesia di Dylan Thomas:

"Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi
spauriti, pronunciando sillabe sommesse
per timore di svegliare le cornacchie,
per timore di entrare
senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Se fossimo bambini potremmo arrampicarci,
catturare nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto,
e, dopo l’agile ascesa,
cacciare la testa al disopra dei rami
per ammirare stupiti le immancabili stelle.
Dalla confusione, come al solito,
e dallo stupore che l’uomo conosce,
dal caos verrebbe la beatitudine.
Questa, dunque, è leggiadria, dicevamo,
bambini che osservano con stupore le stelle,
è lo scopo e la conclusione.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi".
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