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Lidia Maggi Dalla diffidenza alla differenza

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LA SPERANZA ECUMENICA

Abbiamo chiesto a Lidia Maggi, pastora battista della Chiesa di Varese di declinare in chiave ecumenica una delle parole chiave di questo numero di Vita Nuova, parola che ha fatto da perno all’VIII Festival Biblico vissuto a Vicenza dal 18 al 27 maggio 2012: Speranza.



Vorrei raccontare di un ponte costruito da persone semplici, gente che non occupa cariche ufficiali: laici, uomini e donne che hanno creduto di poter creare un luogo di passaggio per aiutare le chiese ad attraversare l’abisso della paura dell’altro.
Quando penso alla speranza per l’oggi e per il domani delle chiese, non posso fare a meno di nominare l’ecumenismo, quel movimento che ha sollecitato le chiese ad abbandonare una visione della fede competitiva per scoprire gli inediti dello Spirito. L’ecumenismo è come un ponte che riapre una strada interrotta. Il ponte ormai è costruito, anche se, di tanto in tanto, si incontrano cantieri che sembrano rallentare il cammino. Vi faranno credere che quel ponte non porta da nessuna parte e che, anzi, non solo aggiunge altre attività alla già fittissima agenda ecclesiale, ma crea confusione, una Babele di chiese, liturgie, teologie… Oppure vi diranno che l’ecumenismo è per gli addetti ai lavori, non certo per i comuni fedeli.
Ma io vi dico che l’ecumenismo è una teofania, un’esperienza di rivelazione; è l’evento dello Spirito più creativo della nostra epoca. Ha strappato le chiese dalle divisioni in cui rischiavano di rimanere imprigionate; ha spalancato porte, aperto fessure e fatto entrare la luce del Vangelo nei luoghi più nascosti. Sono ormai passati più di cento anni da quando, a Edimburgo, i missionari di diverse confessioni cristiane, riuniti in convegno, si sono interrogati sullo scandalo provocato dalle divisioni tra le chiese. Come si può annunciare l’unico Cristo e farlo nella divisione? Da quella denuncia è sorto il movimento ecumenico, che mira a superare questa situazione di chiese in conflitto, operando gesti di riconciliazione e invocando l’unità nella fede.
Qualche decennio di dialogo tra le chiese è davvero poca cosa rispetto ai secoli di fratture, conflitti, scomuniche. Eppure, quante cose sono cambiate nella nostra percezione dell’altro.
Mentre scrivo queste riflessioni, sono ospite, in occasione del Festivalbiblico, delle suore orsoline di Vicenza. E’ il luogo dove più mi sento a casa in questa città. Ogni volta che vi ritorno, respiro la gioia di visitare delle sorelle che sento compagne di strada nel tentativo di vivere il Vangelo. Ciò che oggi sembra così naturale, come incontrarci tra persone di diversa confessione di fede, non succede per caso ma è stato reso possibile da chi, nella generazione precedente, ha creduto in questa possibilità e ha creato le condizioni perché ciò accadesse. Certo, è il Signore che apre possibilità insperate; ma a noi è affidata la responsabilità di portare a Lui luoghi e persone chiuse, perché possano essere aperti dalla forza dello Spirito.
Io non ho paura per il futuro delle nostre chiese, se lo spirito ecumenico continua a soffiare. Sono convinta che, se sapremo lasciarci guidare da questa forza spirituale, vedremo le nostre realtà crescere nell’amore e nella condivisione e saremo sempre più testimoni credibili di Dio. Io non ho paura perché ho incontrato la forza dello Spirito nel cammino ecumenico.
Io spero. Spero nei cambiamenti che l’ecumenismo susciterà nelle nostre realtà ecclesiastiche. Lo Spirito del Signore è all’opera anche quando non riusciamo a scorgerlo (Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; non la riconoscerete? Isaia 43,19).

La speranza ecumenica

La speranza è esperienza spirituale che si concretizza nel percorso ecumenico che le chiese stanno facendo insieme. Percorso che possiamo scegliere di interrompere oppure proseguire, diventando staffette, atleti che corrono verso a meta dell’unità.
Si sono compiuti numerosi passi in avanti lungo la via del dialogo e del reciproco riconoscimento. Le chiese hanno imparato a parlarsi e ad ascoltarsi. I fratelli separati si sono scoperti fratelli ritrovati, in cammino verso un’unità dove le differenze sono riconosciute, accolte e non demonizzate. L’obiettivo, dunque, è quello di una “comunione nella diversità”.
Per le chiese protestanti in Italia, tale percorso non è semplice, poiché è connotato dalla disparità di rapporti numerici tra la chiesa cattolica romana e le minoranze evangeliche. Le difficoltà nel dialogo sono molte. E non vanno taciute. Tuttavia, la speranza ecumenica aiuta le chiese a uscire dalla loro autoreferenzialità per riconoscersi compagne di strada nella sequela dello stesso Signore Gesù Cristo.
Le chiese della riforma, lungo il cammino ecumenico,
stanno imparando ad abbandonare un linguaggio apologetico e contrappositivo nei confronti del cattolicesimo per provare ad annunciare la fede a partire dalla propria spiritualità. Non più, dunque, un annuncio finalizzato a spiegare “perché non siamo cattolici”; piuttosto, in positivo, la preoccupazione di raccontare quanto lo Spirito ha detto e continua a dire alle chiese della riforma. E’ il Signore che agisce; ma l’ecumenismo è quel modo speciale che porta a Cristo chiese chiuse, incapaci di comunicare tra loro.

Io non ho paura

Io non ho paura perché lo Spirito ecumenico ha soffiato sulle chiese e le ha cambiate per sempre. Io non ho paura perché ho scoperto di fare parte di una grande famiglia formata da tante chiese sorelle. Non ho paura perché scorgo le cose nuove che il Signore ha fatto tra noi.
Sono grata a Dio per avermi fatto scoprire che non siamo figli unici nella fede e nemmeno figli e figliastri, ma fratelli e sorelle.
Siamo tutti un po’ più ricchi in questa riscoperta dell’altro e della sua diversità.
L’ecumenismo è vento di conversione, è quel modo particolare di vivere la fede aperto alle istanze dell’altra tradizione cristiana.
L’ecumenismo è il ponte che ci porta a scoprire la ricchezza dell’altro, che riapre cammini interrotti e ricollega più saldamente all’evangelo.

Un’icona

L’episodio del sordomuto, guarito dal Signore (Mc 7), è l’icona che può aiutarci a visualizzare il miracolo ecumenico. La chiesa, tornando a Cristo, viene guarita e resa in grado di comunicare con le altre chiese sorelle e con il mondo.

Il testo biblico
Gesù ha ormai superato i confini di Israele. Anche lì, in territorio straniero, ha predicato e agito con potenza. Ha condiviso il pane con i figli che aspettavano di sfamarsi sotto la mensa; ha restituito la figlioletta guarita alla donna pagana. Il muro che separava il popolo eletto e i pagani si è finalmente crepato, rivelando che Dio è Signore di tutti: ebrei e gentili, uomini e donne, giusti o ingiusti, sani o malati.
Ma come far comprendere ai suoi questa verità, quest’apertura oltre i recinti convenzionali del sacro? E’ a questo punto che Gesù guarisce il sordomuto. L’uomo gli viene portato da alcune persone anonime. Così ognuno di noi può sperare di mettere il proprio nome e di essere, almeno una volta nella vita, un tramite per aiutare qualcuno a trovare la propria voce. Il sordomuto non può arrivare a Gesù da solo. E’ muto: non può chiedere aiuto. Inoltre, la sua sordità gli impedisce di ascoltare le parole di salvezza. Può solo affidarsi a coloro che lo accompagnano da Gesù perché imponga su di lui le mani. Il sordomuto, chiuso, imprigionato nel suo silenzio, è come morto, isolato dal mondo.

Toccare la sofferenza
Le mani di Gesù sono mani che benedicono, curano, rialzano e toccano. La salvezza è legata al toccare. Come sarebbe bello essere chiese che non si limitano ad annunciare la salvezza, ma la fanno toccare. In disparte, Gesù ha un contatto profondo con il sordomuto. Compie gesti arcaici, quasi da sciamano: le dita negli orecchi, la saliva sulla punta della lingua.
Qui leggo un primo monito per le chiese: per sanare qualcuno, bisogna essere disposti a sporcarsi le mani.
Le nostre mani sono spesso troppo pulite: come Pilato, noi non vogliamo mettere mano nelle ferite del mondo.

I tempi lunghi delle guarigioni
Ma non basta toccare il dolore. Sono necessari tanti gesti per aprire. Gesù tocca, alza gli occhi al cielo, soffia e parla.
Chi vuole farsi guarire del Signore deve aprirsi a percorsi lunghi. Così come chi vuole aiutare i muti a ritrovare la propria voce, a farla sentire al mondo, non può pensare di farlo in tempi brevi, mossi dall’emozione momentanea.
Gesù soffia, come per il primo uomo impastato di fango che diventa vivo con quell’alito divino. Egli dona la forza della prima parola creatrice: Effatà, Apriti! E il sordo si apre: parla e ascolta.
La gente si stupisce e riconosce che Gesù ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e parlare i muti!
La sintesi della missione di Gesù è racchiusa in questa dichiarazione della gente anonima: Gesù è venuto per ridare voce a quanti non possono parlare, per ridare visibilità agli invisibili, per aprire gli orecchi a quanti non è dato di ascoltare parole di speranze. Lo stesso mandato è stato affidato ai suoi. I seguaci di Gesù sono coloro che sono stati aperti, guariti dall’egoismo, dall’individualismo, dal silenzio e chiamati a loro volta ad aprire.

Chiamati ad aprire il mondo
Come i discepoli perplessi dopo aver fallito una guarigione, chiediamo al Signore: perché facciamo così tanta fatica ad aprire? E perché ci scopriamo così chiusi, divisi? Facciamo fatica a parlare, ad ascoltare, a comunicare, e viviamo in chiese che non ci aiutano. Chiese spesso chiuse, incapaci di far toccare con mano la salvezza.
Sentiamo di essere chiamati a dare voce a chi non può parlare e a fare udire chi non vuol sentire. Ma non ci riusciamo. Non siamo in grado di aprire all’amore di Dio nemmeno i nostri cari. Anche noi abbiamo bisogno di guarigione. Ci scopriamo, nostro malgrado, spiritualmente sordomuti. Come possiamo, portare al mondo la guarigione del Signore? Il mondo continua ad essere malato; la salvezza che ci è stata consegnata non ha sanato molto. Non ce l’abbiamo fatta: noi non abbiamo fatto bene ogni cosa. Il riconoscere il nostro fallimento, la nostra impotenza, non vuole essere segno di disperazione. Piuttosto, è invito ad invocare aiuto, a venirci incontro, aiutarci reciprocamente e, spalla a spalla, camminare verso Gesù per essere da Lui guariti, aperti.
L’ecumenismo è questo: un appello alla conversione, un invito rivolto a tutte le chiese a mettere al centro il Cristo.
L’ecumenismo è scoprire che, se non sono in grado da sola di ritornare a Lui, posso contare su fratelli e sorelle di confessione diversa dalla mia, che mi sosterranno affinché io possa ritrovare quelle mani benedicenti.
L’ecumenismo è esperienza di guarigione che restituisce il respiro spirituale. E’ finestra in una stanza a lungo tenuta chiusa. E’ apertura per il mondo, affinché il mondo creda.
La chiesa è chiesa solo quando è abitata dai differenti che si riconoscono in Cristo fratelli. Altrimenti è monca.
L’ecumenismo è la possibilità di imparare a vedere con lo sguardo di Dio che ci vuole uniti nella differenza. E non solo con la generazione dei nostri contemporanei ma anche con quelle passate e con quelle future.
Credo che ai nostri padri e alle nostre madri nella fede dobbiamo tutto ciò che ci hanno trasmesso, ma anche il peso di alcune scelte ecclesiastiche che hanno conseguenze sul nostro modo di essere chiesa. Gli errori, poi, che noi facciamo li pagheranno le generazioni future. Di questo dobbiamo essere ben consapevoli. Come sarà la chiesa che consegneremo alle generazioni che verranno?
Da parte mia, vorrei lasciare a chi verrà dopo di me una chiesa migliore, più accogliente di quella che ho trovato, unita nella diversità; una chiesa che non teme le mille liturgie per lodare Dio, una chiesa colorata, che attira a sé non con la paura delle fiamme dell’inferno, ma con il fascino che emanano coloro che profumano di Vangelo. Persone fragranti come il pane. Vorrei lasciare ai miei figli una chiesa più coraggiosa, meno preoccupata di difendere i propri spazi e più attenta a dare voce a chi non ne ha.
Il Signore, attraverso la speranza ecumenica, dice a tutti noi: apriti! C’è tanto lavoro da fare per vigilare sulle ingiustizie e sanare il mondo. Ma ricorda: non sei solo. Ti accompagna lo Spirito di Gesù e la presenza di tanti fratelli e tante sorelle e di tante comunità cristiane. Apriamoci alla speranza del Regno!
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