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Lidia Maggi Anche Dio ha i suoi guai!

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"La domanda sul male non è un quiz cui si risponde con una battuta. È la questione che accompagna ogni vita umana e anche quella divina. Dio è fragile, perché non è impermeabile all’amore, alla relazione, come testimonia la vicenda di Giobbe."

Rileggendo il libro di Giobbe

Nel bel mezzo della Bibbia c’è un libro che, come un arco, cerca di tenere assieme un mondo che inevitabilmente rischia di sgretolarsi. Il libro di Giobbe è un simulatore antisismico che prova a verificare la stabilità della nostra fede alla luce degli eventi inspiegabili, primo fra tutti il terremoto del male che si porta via i nostri affetti e cambia radicalmente le geografie delle nostre mappe.

Giobbe vede la sua vita sgretolarsi in un crescendo di disgrazie. Prima il pover’uomo viene privato dei suoi beni, poi della casa e infine della famiglia. Tutto accade come in un vortice ed egli rimane nudo, senza identità. Spogliato del benessere passato, del suo presente e, con i figli, anche del futuro, Giobbe comprende che il mondo attorno a lui non esiste più, spazzato via da un tremendo terremoto. Sulle macerie della sua esistenza siede incredulo, incapace persino di respirare.

Solo una parola risuona in lui: perché?

Di fronte al male, agli accadimenti che non trovano una chiara spiegazione, nella nostra architettura di credenti si crea una crepa strutturale.

Il male è un terremoto che destabilizza e devasta le nostre realtà, demolisce le nostre convinzioni, ma non solo. È difficile mantenere intatta la fiducia in Dio. Una delle prime vittime del male è proprio Dio. La fede in lui va in frantumi. Chi precedentemente nutriva una fede immune dal dubbio, si scopre incredulo, incapace di vedere oltre la dura realtà di sofferenza. E allora smette di pregare, chiudendosi in un primo momento in un cinismo che diventa via via indifferenza e rassegnazione.

Muta il nostro modo di guardare alla vita. La nostra fede, insieme al suo Dio agonizzante, rimane sepolta tra le macerie.

«Bambini, non smettete di credere nelle fate», esorta J.M. Barrie nel suo Peter Pan, perché «ogni volta che un bimbo dice: io non credo alle fate, c’è una fatina che da qualche parte cade a terra morta». Dio non è certo come Campanellino; tuttavia, esiste un’analogia tra il mondo immaginario di Barrie, con le sue fatine, i bambini smarriti dell’Isola che non c’è e l’esperienza che molti tra noi fanno di Dio, quando vengono colpiti dal male. L’immane forza del negativo è in grado di demolire anche la fiducia in Dio.

Scopriamo così che la nostra fede non è una casa antisismica, non è costruita sulla roccia: il terremoto del male può ridurre in macerie il nostro Dio.

Fragile come Dio, debole come Dio, Dio è fragile. Non può contare sulla nostra adesione incondizionata. È sottoposto continuamente alla severa verifica del suo operato, alle nostre valutazioni sui vantaggi della relazione con lui. E quando i conti non tornano, perché Dio ci delude e risulta inadempiente, noi non gli rinnoviamo il contratto.

Le ragioni di tale licenziamento in tronco possono essere serissime; e tuttavia, il fatto di poter decidere di smettere di credere in lui e di poter recidere il patto, mette in chiara luce come sia inadeguata l’immagine classica di un Dio onnipotente. Egli è piuttosto un lavoratore precario, costretto a rinegoziare continuamente il contratto stabilito con noi.

Dio è fragile: la sua immagine in noi può esplodere in mille frammenti, quando attraversiamo le tempeste della vita.

Dio è debole. Non soltanto perché non sembra in grado di arginare e domare il male del mondo, ma anche perché lega, fin dagli inizi, la sua esistenza alle sue creature. Egli è tessuto di relazione: ama. E chiunque ama sa che l’amore non è mai ferma certezza, solida costruzione.

Chi ama conosce gli abissi, l’instabilità, il rischio della perdita, come anche l’estasi del cielo. Ami e dipendi dall’altro. Se i suoi occhi si posano su di te, tu sperimenti il paradiso; ma se il suo sguardo ti attraversa senza vederti, ecco che tu precipiti nell’abisso e il tuo mondo va in frantumi.

Lo sa bene il Dio biblico: quando Israele si dimostra indifferente, Dio si arrabbia, manda i profeti per farsi ascoltare e attirare l’attenzione, minaccia di andarsene, alza la voce, ma non riesce a recidere quel legame che lo tiene vincolato al suo popolo.

Dio è fragile, è debole, perché ama e l’amore rende vulnerabili. Non è, dunque, onnipotente il povero Dio: non solo perché non riesce a barcamenarsi nella tempesta del male, ma anche perché si scopre bisognoso dell’essere umano e, dunque, esposto al rischio di essere rifiutato.

Un Dio in relazione

Fin dalle prime battute, il Dio biblico vive di relazione: tesse legami, sperimenta la dipendenza, il dover fare i conti con l’altro. Già l’atto creativo da cui sorge il mondo rivela questo aspetto divino: egli crea l’intera creazione chiamandola all’esistenza. La prima immagine di Dio, che fa capolino nel portale d’ingresso della Bibbia, è quella di una voce che chiama.

Egli non parla a se stesso, nel mito antico, ma chiama le cose a essere, le nomina per nome. Prima ancora di esistere, i singoli elementi del creato sono cercati e chiamati:

Luce! Cielo! Terra! E dal caos la luce risponde a quella voce e inizia a essere.

Il racconto poetico della nascita del mondo ci rivela un Dio che ricerca la relazione, che strappa al caos il mondo chiamandolo. Dio non è autonomo e autosufficiente. Ha bisogno delle sue creature, ha bisogno della nostra fede, di stabilire con noi un rapporto. Su questo è davvero fatto a immagine e somiglianza umana: è fragile come noi.

Noi lo siamo perché i nostri giorni sono brevi, perché la malattia può devastarci e la morte afferrarci; Dio lo è perché ha scelto di legare la sua esistenza alla nostra.

Con linguaggio sapienziale, si prende cura delle sue creature e promette di proteggerle dal male e di difenderle dai mille pericoli dell’esistenza (Sal 23). Ma non sempre ci riesce. Chi cammina con Dio e pensa di vivere protetto all’ombra delle sue ali, si scopre ugualmente esposto ai cataclismi della vita.

Anche di questo ci parla il dramma di Giobbe, un uomo alla ricerca di senso nel suo dolore. Egli chiede ragione a Dio di quanto subisce e ne denuncia la latitanza, fino a far affiorare il sospetto (che il prologo, del resto, sembra confermare) che sia lo stesso Signore del mondo il responsabile delle sue disavventure. Tuttavia, nella sofferenza Giobbe non scarta Dio dalla sua ricerca. Anzi, lo sfida: vuole che egli esca dal suo silenzio e risponda a tutte le domande. E, alla fine, Dio si presenta e parla. Ma è tutt’altro che tranquilla la sua voce. Sulla scena non compare l’essere superiore che pronuncia sentenze inappellabili, che ridicolizza le questioni poste.

Egli parla dalla tempesta per rivelare che non è solo Giobbe l’uomo della tempesta esistenziale, le cui domande hanno la forza del tuono. Anche Dio abita l’inquietudine, ha il cuore in subbuglio. Ma come mai Dio è nella tempesta e non riesce a sedarla?

È a questo punto che l’immagine di Dio che Giobbe si era fatto – e noi con lui – viene rimessa in discussione. Il terremoto esistenziale è seguito da una fortissima scossa di assestamento. Dio non si presenta come colui che tiene in mano le redini del mondo. Piuttosto, si mostra solidale con le tragedie umane, condividendone la tragica situazione. Egli le conosce perché le abita e non è immune alle catastrofi e ai terremoti. Sia Giobbe sia Dio conoscono quella furia che afferra, scuote, lacera, lasciandoti agonizzante tra le macerie della vita.

Il Dio che alla fine parla con Giobbe si scopre dentro l’abisso, parte del conflitto, chiamato in causa. Pone domande retoriche, che suonano intimidatorie; alza la voce, come chi prova a difendersi. Ma nel contempo si dimostra affascinato da quell’interlocutore che ha osato sfidarlo. E non si sottrae al dialogo.

A testa alta con Dio

Prima di tutto, Dio vuole guardare in faccia il suo rivale, desidera che questi recuperi tutta la dignità perduta nella sofferenza, per essere all’altezza della sfida, per poter insieme far fronte all’enorme peso del negativo. La prima richiesta concreta che Dio rivolge a Giobbe suona dunque così: «Alzati! Cingiti i fianchi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!» (Gb 38,3).

Non chiede al suo avversario di nascondere il volto, di inchinarsi o togliersi i calzari; lo sollecita, invece, a cambiare postura.

Colui che siede nell’immondizia grattandosi con un coccio, è spronato ad assumere di nuovo quell’atteggiamento eretto e nobile che caratterizza le creature fatte a immagine e somiglianza di Dio. Dietro quella sete di giustizia, quella voglia di comprendere anche l’incomprensibile, che hanno spinto Giobbe a chiamare Dio in giudizio, si cela una dignità invisibile agli occhi degli amici e, forse, al suo stesso sguardo. Giobbe si sente un verme; in realtà è il gigante che può competere e discutere con Dio.

Dio lo vuole eretto, non piegato e umiliato. L’obbedienza incondizionata, che fa abbassare la testa e spegne l’inquietudine, non è voluta dal Dio biblico, che invece desidera discutere da pari a pari con il suo sfidante.

Dio si appresta al dialogo e al confronto dialettico. E fin dalle prime battute, se non ci si lascia catturare dal tono duro e ironico della parlata divina, chi legge percepisce che anche Dio sperimenta la fatica del far fronte al male. Che il problema di Giobbe attanaglia lo stesso Dio, impegnato a porre freni e confini a quel caos che continuamente mette in discussione il cosmo bello e buono da lui voluto «in principio».

Al di là dell’effetto retorico, che sembra mettere a tacere ogni domanda, il discorso divino amplifica il grido di Giobbe, dandogli dignità, fino a permettergli di sondare la forza e la fragilità della creazione da Dio voluta.

Il male secondo Dio

Come Dio spiega a Giobbe lo scandalo del male?

La linea principale del discorso afferma che Giobbe non può comprendere tutto, perché non era presente fin dall’inizio. Ma, accanto a questa educazione al senso del limite, Dio fa ricorso ad altre due argomentazioni.

La prima prova a contenere il problema, sottraendo in tal modo al male la pretesa di un potere illimitato: esso è sì come un mare che tutto invade e tutto travolge, ma è controllabile. Il male è parte della creazione: è come l’acqua che sgorga dal grembo della terra; come un bambino in fasce, con le nubi come coperta e l’oscurità della notte come pannolini. È un neonato inquieto, che si sposta da ogni lato. Può far danni, ma basta metterlo nel box perché stia al suo posto, evitando di farsi male e di far male: «Chi chiuse con porte il mare balzante fuori dal grembo materno, quando gli diedi le nubi come rivestimento e per fasce l’oscurità, quando gli tracciai dei confini, gli misi sbarre e porte? Allora gli dissi: “Fin qui tu verrai, e non oltre; qui si fermerà l’orgoglio dei tuoi flutti”» (Gb 38,8-11).

La seconda argomentazione, cui Dio ricorre nella disputa, è quella di mettere il suo interlocutore di fronte alle difficoltà divine nel gestire il mondo e i malvagi che lo abitano. Come se fosse semplice eliminare gli empi! Ci provi Giobbe! E, se ci riesce, Dio stesso lo loderà, riconoscendolo più grande di lui:«Su via, adornati di maestà, di grandezza, rivèstiti di splendore, di magnificenza! Da’ libero sfogo ai furori della tua ira; scruta tutti i superbi e abbassali! Scruta tutti i superbi e umiliali! Schiaccia gli empi dovunque stanno! Seppelliscili tutti assieme nella polvere, copri di bende la loro faccia nel buio della tomba! Allora, anch’io ti loderò, perché la tua destra ti avrà dato la vittoria» (Gb 40,10-14).

E così Dio, mentre tesse le lodi della perfezione del suo creato e degli animali da lui progettati, arriva a condividere con Giobbe la fatica nell’arginare il male, un’eterna vigilanza che non può mai venire meno. Il male è come polvere che si accumula ogni giorno sul tappeto della vita. Al mattino anche Dio, come un’accorta casalinga, è costretto ad alzarsi e a sbattere la polvere accumulata per far precipitare via i malvagi. Ma appena la pulizia è fatta, la polvere si forma di nuovo e bisogno ripetere l’operazione ogni giorno:«Hai tu mai, in vita tua, comandato al mattino, o insegnato il suo luogo all’aurora, perché essa afferri i lembi della terra, e ne scuota via i malvagi? La terra si trasfigura come creta sotto il sigillo e appare come vestita di un ricco manto; i malfattori sono privati della luce loro, e il braccio, alzato già, è spezzato» (Gb 38,12-15).

Un Dio fra le macerie

Un linguaggio poetico è quello con cui il libro di Giobbe prova a cercare un senso ultimo ai terremoti della vita, senza peraltro trovarvi una risposta definitiva. La domanda sul male non è un quiz cui si risponde con una battuta. È la questione che accompagna ogni vita umana e anche quella divina. Ai nostri occhi si tratta solo di soluzioni temporanee, quelle suggerite dalla forza poetica del discorso divino; tuttavia è difficile non riconoscere l’importanza di queste immagini, capaci di rivelare un tratto inedito del volto divino, che lo rende somigliante a quello umano.

Dio è fragile. Come noi prova a resistere al male con soluzioni parziali. È fragile, ma non si sottrae al negativo della storia, ai sismi della vita, preoccupato di salvarsi la pelle. Come noi si ribella, non si arrende e ricomincia, sempre, di nuovo, la lotta per strappare al caos il mondo. È fragile perché non è impermeabile all’amore, alla relazione, come testimonia la vicenda di Giobbe.

E una discendente dell’uomo di Uz, Etty Hillesum, giungerà a comprendere che questo Dio fragile va aiutato a sopravvivere. Più che aspettarci di essere salvati da lui, siamo noi a dover estrarre dalle macerie quel Dio che i terremoti della storia vorrebbero annoverare tra le vittime.

Di quali capovolgimenti è capace l’amore! Esso è più forte della morte e sa intonare il canto anche nella tragedia. A patto, però, di condividerla, di non evitare l’urlo, prima, e la domanda, dopo.

Per vedere un Dio così bisogna essere compagni di Giobbe, fino in fondo. La fede, come la vita, può sempre trovare nuovi inizi, ma bisogna abitare la tempesta. Questo ci dice la Bibbia.

Fonte: Solidando
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