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Paolo Crepet «Basta ipocrisie. L’unica via? Cambiare»

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8 Settembre 2024

CREMONA - Mentre il padre festeggiava i 51 anni con tutta la famiglia lui aveva in testa la strage, che avrebbe messo in atto qualche ora dopo, poco prima delle due del primo settembre.

«È stata la sera della festa che ho pensato di farlo, non avevo ancora ideato questo piano, però avevo pensato di usare comunque il coltello perché era l’unica arma che avevo a disposizione in casa», ha messo a verbale, davanti alla giudice, il 17enne che con 68 coltellate ha ucciso il papà, la mamma e il fratello di 12 anni nella villetta di Paderno Dugnano, nel Milanese. A distanza di una settimana (e dopo che un altro episodio dai connotati simili, anche se per fortuna con esito diverso, è accaduto venerdì anche a Macerata), rimane la cronaca giudiziaria e restano in sospeso domande che coinvolgono tutti, chi ha una famiglia, dei familiari, dei fratelli, degli amici. Che alla fine si riassumono sempre nello stesso modo: perché? Come mai nessuno se ne è accorto? Che cosa si può fare? Qual è la strada da seguire? Molti sono intervenuti in questi giorni, ciascuno con la propria valutazione o il proprio smarrimento. Non usa mezze misure, secondo il suo stile, Paolo Crepet, psichiatra e scrittore, la cui analisi — per certi versi spietata — tocca tutti, senza assoluzioni di sorta, nessuno escluso. 

Professor Crepet, esiste una spiegazione di fronte a fatti così gravi? «Mi spaventa come mai nessuno se ne sia accorto. C'erano per forza dei segnali è ovvio, un ragazzino di 17 anni prende in mano un coltello e fa una strage e non ci sono segnali? Stiamo scherzando. Questa, è una società dove non ci si conosce più, dove non ci parliamo più, io non conosco nessuno dei miei condomini. È una comunità sfaldata, una volta tra vicini ci si aiutava. Quello che è capitato a Riccardo di Paderno è solo la punta di un iceberg. Lui l’ha fatto, mille altri ci hanno pensato. Costa ammetterlo, ma probabilmente è così». 

Ma i genitori possono capire queste situazioni? «Il problema non è se possono, è che non vogliono. L’importante è portare i figli in giro, al centro commerciale o dove piace loro andare. Ti compro questo, ti compro quello e tutto è risolto, così non rompono».

Il suo è un giudizio severo, come spesso accade, quando affronta questi temi. «Diciamo che mi posso permettere una chiarezza che l’età ti suggerisce se hai vissuto qualche esperienza. Non è il caso mi pare di girare intorno alle questioni o di utilizzare le cosiddette mezze misure. Almeno io la penso così: pensiamo che queste tragedia sono solo la punta dell’iceberg, chissà quanti casi non hanno lo stesso epilogo ma potrebbero averlo. Basta leggere le cronache».

Nella sua analisi la famiglia occupa un ruolo chiave, come se fosse colpevole o responsabile di qualcosa che invece trova difficilmente una spiegazione razionale. «La famiglia è morta. Punto. Morta lentamente, ma è morta, da almeno 40 anni più o meno».

Non è un po’ troppo? «No, guardiamo la realtà. Noi accreditiamo il modello familiare come una sorta di catena economica».

Cioè? «Il nonno ha messo via un po’ di soldi, il papà li ha più o meno mantenuti. Ai figli non importa nulla né del lavoro né dei sacrifici da fare. Basiamo il futuro sul concetto di eredità finanziaria. Cosa c’entra con la strage? Si collega al tema del rapporto diretto tra genitori e figli. Su cosa lo basiamo? Quali sono i cardini? Quali sono le prerogative? E poi cosa si intende per buona famiglia? In base a cosa diamo dei giudizi? In base al reddito? Spiegatemelo: in merito a che cosa?».

Professor Crepet, indichi anche una strada: che fare? «C’è solo una cosa da fare: cambiare. L’hanno fatto i nostri nonni, dopo la guerra. Hanno inventato un mondo, un modo di vivere, di lavorare. Basta ipocrisie. Se invece qui nessuno vuol cambiare niente, allora rassegniamoci a diventare dei semplici naufraghi della vita».

E poi comunque questi casi non sono così rari. «Siamo tutti violenti, questa è una società violentissima. Aggiungo che il carcere non è un deterrente, non gliene frega niente, zero».

Mi sento solo anche in mezzo agli altri, aveva detto il 17enne. «Il senso di solitudine è grande. Non basta che i genitori dicano ‘come va?’. Quanto tempo passano i genitori a tavola insieme ai figli? Dieci minuti? Se uno vuole fare il genitore, lo faccia davvero, fino in fondo».

Infine, c’è il tema dei social. «Se uno sta tanto sui social, si metta a dieta, gli si imponga un determinato numero di ore. E si dicano anche dei no: a 13 anni non puoi fare sempre come vuoi, devi sapere cosa fa e dove va tuo figlio».


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