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Sabino Chialà "Alcune figure di uomini e donne di parresia nel nuovo testamento"

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Al di là della ricorrenza dei termini specifici, ciò che impressiona nel nt sono i personaggi che mostrano di agire con parresia, a cominciare da Gesù stesso che ne ha fatto uno dei sui tratti personali più marcati, intendendo la parresia nelle sue tre declinazioni appena menzionate: con il Padre, con gli altri, dai grandi e potenti di questo mondo ai più piccoli che ha incontrato lungo il suo cammino, e con sé stesso. Prima di passare all’esempio di Gesù vorrei, tuttavia, almeno evocare alcune altre figure di cui parlano gli scritti del nt, cogliendo da ciascuna di esse qualche tratto che potremo poi comporre in un discorso più organico nel seguito. 
Una prima figura che si staglia in tutte le redazioni dei vangeli come uomo di parresia è quella di Giovanni Battista. Gesù, che lo ha incontrato all’inizio del suo percorso, ha certamente colto e apprezzato in lui tale tratto. Egli è il profeta che fin dall’inizio del suo ministero ha invitato con coraggio alla conversione chi accorreva a lui (cf. Mc 1,4), ha sferzato alcuni con parole taglienti quali “razza di vipere” (Mt 3,7), ha smascherato i pensieri ipocriti di chi si nasconde dietro la propria appartenenza (“Non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’”: Mt 3,9), ha saputo indicare vie concrete di ravvedimento a quanti gli chiedevano “cosa dobbiamo fare?”, invitandoli alla condivisione, all’onestà e alla rettitudine (cf. Lc 3,10-14). Infine non ha avuto paura di rinfacciare al re Erode il suo sopruso morale, pagando quella sua franchezza con la prigionia e il martirio (cf. Mt 14,3-12). 
Giovanni ha mostrato parresia anche nei confronti di Gesù, quando gli ha mandato a chiedere se era lui il Messia atteso: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” (Mt 11,3). Una richiesta che sembra mettere Gesù davanti alle proprie responsabilità, invitandolo a uscire allo scoperto. 
Ma il Battista mostra parresia anche con sé stesso, nella misura in cui non si appropria di ciò che non gli appartiene, aderendo invece a quella che è la sua missione. È soprattutto il quarto vangelo a rivelarci questo suo tratto, fin dall’inizio, quando è interrogato dai capi: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: ‘Tu, chi sei?’. Egli confessò e non negò. Confessò: ‘Io non sono il Cristo’” (Gv 1,19-20). 
Giovanni Battista si presenta per quello che è, accogliendo la sua verità e la sua missione, senza togliere spazio a Gesù. Per questo, poco oltre, a lui indirizzerà due dei suoi discepoli (cf. Gv 1,35-37); e ad alcuni di questi discepoli che lo informavano, forse con una punta di gelosia, che Gesù gli stava rubando la scena battezzando, dice: 

Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: “Non sono io il Cristo”, ma: “Sono stato mandato davanti a lui”. Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere, io, invece, diminuire (Gv 3,27-30). 

Giovanni mostra parresia nei confronti degli altri, soprattutto dei capi politici e religiosi, ma prima ancora egli vive quella che possiamo definire “parresia con sé stessi”, evitando cioè di appropriarsi di un ruolo che non gli appartiene. Le due forme di libertà e franchezza si giustificano e si sostengono reciprocamente: la libertà di dire a sé stessi la verità conferisce anche il coraggio di dirla agli altri. 
Un’altra figura testimone di parresia nel nt è Paolo, che spesso rivendica esplicitamente tale qualità del suo agire come parresia nei confronti degli altri (cf. 2Cor 3,12; 7,4), nei confronti di Dio (cf. Ef 3,12), e nel suo stesso essere (cf. Fil 1,20). Anche gli Atti degli apostoli gliene riconoscono ripetutamente l’esercizio (cf. At 9,27-28; 13,46; 14,3; 19,8; 26,26) fino alla conclusione del libro, dove l’autore annota che a Roma Paolo annunciava il Cristo “in tutta parresia (metà páses parrhesías) e senza impedimento” (At 28,31). 
Lui stesso ne parla, applicando tale atteggiamento soprattutto all’annuncio del vangelo. Per questo chiede preghiere ai cristiani di Efeso: 

Pregate per me, affinché, quando apro la bocca, mi sia data la parola, per far conoscere con franchezza (en parrhesía) il mistero del vangelo, per il quale sono ambasciatore in catene, e affinché io possa annunciarlo con quella parresia (parrhesiásomai) con la quale devo parlare (Ef 6,19-20). 

Mentre ai cristiani di Tessalonica confida: “Dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio la parresia (eparrhesiasámetha) di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte” (1Ts 2,2). 
Paolo sa che la parresia richiede il pagamento di un prezzo, spesso molto alto, ma è pronto a pagarlo. Dal suo discorso emerge anche la consapevolezza che ciò è possibile se vi è libertà interiore, la quale si esprime nel non far dipendere il proprio agire e il proprio annuncio da un’aspettativa umana. Continua infatti scrivendo ai tessalonicesi: 

Il nostro invito alla fede non nasce da menzogna, né da disoneste intenzioni e neppure da inganno. Ma, come Dio ci ha trovato degni di affidarci il vangelo, così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari (1Ts 2,3-7). 

Si tratta di un testo particolarmente illuminante nella comprensione del nostro tema: Paolo rivendica innanzitutto la sua libertà. Il coraggio del suo annuncio, anche a costo di sofferenze, poggia sull’onestà del suo agire, sul fatto che non è menzognero, mosso da intenzioni disoneste o interessi personali, e neppure dal desiderio di gloria umana o di approvazione. Non ha nulla da nascondere e non è condizionato da aspettative materiali. Per questo la sua parola è libera e capace di rischiare. Non solo, ma è anche una parola mossa dall’amore, un requisito che, come vedremo, è essenziale alla parresia autentica, perché non si risolva in sfrontatezza e arroganza. 
Oltre che a Paolo, gli Atti degli apostoli riconoscono la qualità della parresia anche ai dodici, facendo di questo tratto il primo requisito dell’agire ecclesiale, e dunque uno dei fondamenti su cui dovrebbe poggiare la vita stessa della chiesa. Il libro degli Atti, che narra le vicende delle prime comunità cristiane, è infatti lo scritto neotestamentario in cui il verbo parrhesiázomai ricorre con più frequenza, con sette delle nove occorrenze totali del nt, cui si aggiungono cinque impieghi del sostantivo corrispondente. 
Pietro e Giovanni mostrano parresia dinanzi al sinedrio, dopo la guarigione dell’uomo storpio alla porta bella del tempio (cf. At 3,1-10), un atteggiamento che stupisce i capi degli anziani e gli scribi. Dice infatti Luca: “Vedendo la parresia di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti” (At 4,13). Qui la parresia si esprime come libertà di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, come diranno nel seguito i due apostoli. Rimproverati di non aver obbedito all’ingiunzione di tacere, replicano: “Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,19-20). Tale parresia, inoltre, non è una facoltà umana, ma è dono di Dio. Infatti, poco oltre, la comunità in preghiera la invoca dicendo: “Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare in tutta parresia (metà parrhesías páses) la tua parola” (At 4,29), ed è loro concessa come dono dello Spirito santo: “Tutti furono colmati di Spirito santo e proclamavano la parola di Dio con parresia (metà parrhesías)” (At 4,31). 
Mostrano parresia Paolo e Barnaba, secondo il racconto degli Atti, quando ad Antiochia di Pisidia, contestati nella sinagoga, decidono di rivolgersi ai pagani: 

Allora Paolo e Barnaba con parresia (metà parrhesías) dichiararono: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani” (At 13,46). 

E lo stesso faranno poco oltre nella città di Iconio (cf. At 14,3). Qui abbiamo un esempio di parresia intesa come coraggio di prendere atto di una situazione, in questo caso avversa, e di proseguire inventando una via nuova possibile. 
Parresia è attribuita infine ad Apollo che predica nella sinagoga di Efeso: “Egli cominciò a parlare con parresia (parrhesiázesthai) nella sinagoga” (At 18,26). Una qualità che l’autore degli Atti mette in evidenza anche laddove non impiega il termine corrispondente, come nel caso di Filippo che osa battezzare l’eunuco etiope, nonostante quella sua menomazione che lo escludeva dal tempio (cf. At 8,38), o di Pietro allorché osa entrare in casa di Cornelio nonostante si trattasse di un pagano impuro (cf. At 10) e per questo fu rimproverato dagli altri apostoli (cf. At 11,2-3) e dovette giustificarsi (cf. At 11,4-18). È anche la libertà che mostrano Giacomo e gli altri apostoli, riuniti a Gerusalemme (cf. At 15), nel confrontarsi su una situazione nuova, vale a dire le modalità richieste ai pagani per aderire al vangelo, prendendo una decisione storica, che trasformò radicalmente il volto stesso della comunità dei seguaci di Gesù il messia. Nella maggior parte di questi casi, come già osservato per Paolo, la parresia è riferita all’annuncio del vangelo. Agire con parresia significa avere il coraggio di annunciare il Cristo in ogni contesto e sopportando ogni contraddizione. 
Altre figure neotestamentarie cui i testi attribuiscono esplicitamente un agire caratterizzato da parresia, anche senza impiegare i termini corrispondenti, che agiscono cioè con coraggio e libertà, sono ad esempio i malati che si accostano a Gesù e osano chiedergli la guarigione: il lebbroso che mette alle strette il Maestro con quel “se vuoi puoi purificarmi” e che si sente rispondere: “Lo voglio!” (Mt 8,1-3); l’emorroissa che ne tocca le frange del mantello sapendo di fare un gesto sconveniente, ma per lei vitale (cf. Mt 9,20-22); i due ciechi di Gerico che gridano sfidando la folla che li vuole zittire (cf. Mt 20,29-34). Parresia mostrano anche quanti chiedono la guarigione per altri: il centurione che intercede per il proprio servo mentre si ritiene indegno di accogliere Gesù in casa sua (cf. Mt 8,5-13); i portatori del paralitico che non si lasciano intimorire dalla folla assiepata intorno a Gesù, ma scoperchiano il tetto per calarlo dinanzi a lui (cf. Mt 9,1-8); la donna cananea che, pur cosciente della sua origine pagana, chiede le briciole di cui i cagnolini possono sfamarsi (cf. Mt 15,21-28). 
Non dissimile è l’agire con parresia, cioè con coraggio e fiducia, di chi si sente peccatore: la donna che unge il capo di Gesù con un unguento preziosissimo, sfidando le critiche dei presenti (cf. Mt 26,6-13); o l’altra donna (la stessa, secondo alcune versioni) che gli lava i piedi con le sue lacrime e poi li asciuga con i capelli, incurante del disprezzo del padrone di casa, fariseo osservante della Legge (cf. Lc 7,36-50); o ancora Zaccheo che sfida la propria statura e la vergogna di essere disprezzato, salendo su un albero di sicomoro per riuscire a vedere Gesù e che alla fine otterrà di ospitare il Maestro in casa propria (cf. Lc 19,1-10). 
Maria di Nazaret agisce con parresia: quando interroga e chiede spiegazioni su come potrà realizzarsi ciò che l’angelo le ha appena annunciato (cf. Lc 1,34); quando si reca in fretta da Elisabetta, non appena ha saputo della sua gravidanza (cf. Lc 1,39); quando a Cana di Galilea chiede l’intervento di Gesù in un banchetto che rischiava di naufragare (cf. Gv 2,1-12). Parresia mostra anche Maria di Betania, che osa sfidare le rimostranze di sua sorella Marta e gli usi del tempo mettendosi ai piedi di Gesù nella posizione del discepolo e rivendicando per sé quel posto che all’epoca era riservato ai soli uomini, e per questo riceverà l’approvazione del Maestro (cf. Lc 10,38-42). Parresia è quella di un malfattore che, ormai agonizzante in croce, osa chiedere a Gesù di essere condotto con lui in paradiso (cf. Lc 23,39-43). Parresia infine è quella della donna samaritana che s’intrattiene con Gesù, un rabbi giudeo, lei che è una donna samaritana e con alle spalle una storia affettiva travagliata (cf. Gv 4,5-42). E gli esempi potrebbero continuare. 
Gesù stesso ha raccomandato la parresia nella preghiera, con varie parabole: quella dell’amico importuno che chiede il pane nella notte (cf. Lc 11,5-8); quella della vedova alle prese con il giudice iniquo (cf. Lc 18,1-8); o ancora la parabola del pubblicano al tempio, esempio della parresia dell’umile, che riconosce semplicemente il proprio peccato (cf. Lc 18,9-14). 


AUTORE Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.


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