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Sabino Chialà "Uso della coscienza: tra obbedienza e libertà"

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Prima di concludere, torniamo per un attimo a quanto detto nell’introduzione a proposito delle sorti alterne conosciute dalla libertà di coscienza, per cercare di comprendere le ragioni di tanta diffidenza. La riserva più ricorrente avanzata dai detrattori della libertà di coscienza riguarda il soggettivismo o il relativismo cui essa potrebbe indurre. Effettivamente, come dicevo all’inizio, il rischio che la coscienza sia intesa come luogo di rifugio al riparo dal confronto con l’altro e vivaio dell’autoreferenzialità è tutt’altro che ipotetico. Si tratta di una realtà ambigua e facile da pervertire a proprio comodo.
Essa è poi vista come contraria all’obbedienza, cui spesso è stata contrapposta in ambito religioso, come anche nei regimi totalitari. Spesso è stata infatti avvertita come un attentato all’autorità, quasi vi fosse tra queste due dimensioni un insanabile antagonismo. Evidentemente si tratta di una visione distorta dell’obbedienza, che non di rado ha trovato terreno fertile anche nella chiesa e in alcune comunità religiose tendenti al settarismo.
L’autentica obbedienza cristiana è invece sempre liberante. Coopera all’affrancamento di colui che la vive, così come l’autorità è autentica solo quando sa rendere liberi anziché asservire quanti le sono affidati, aiutandoli a divenire autonomi e a crescere. Ma per rendere liberi, l’autorità ha bisogno di fare appello alla coscienza di colui che è chiamato a obbedirle. Solo un’obbedienza cosciente è anche liberante, come lo è solo una coscienza obbediente.
Per obbedire in verità, come per pregare in verità, è necessario un “io” cosciente, poiché l’obbedienza autentica è sempre interiore, è ragionata, pensata, elaborata. Anche se a volte dovrà sottomettersi a qualcosa che non comprende fino in fondo, ciò accadrà non senza prima aver fatto di tutto per comprendere, arrendendosi alla fine e solo con un atto di affidamento che richiede ancora coscienza. L’obbedienza esteriore, superficiale, senza coscienza, è solo distruttiva, avvenga essa in una società, in una chiesa o in una comunità religiosa, ed è il terreno fertile dell’abuso di coscienza.
Neppure l’obbedienza è in sé stessa una virtù (1). Non è mai autonoma e può trasformarsi in un’impostura, in qualcosa di completamente antievangelico, come ricorda un detto dei padri del deserto, quasi una sorta di controcanto in un orizzonte in cui l’obbedienza, anche quella perinde ac cadaver (“al modo di un cadavere”), è spesso indicata tra le pratiche principali del monaco. Ma proprio da quel mondo, ci giunge anche questa storia:

Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. 
Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: Ho visto un’altra cella e me ne vado”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò”.
Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. 
Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: 
“Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metania da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”.
Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò, lo condusse nella sua cella, come se non avesse sentito niente di quello che l’altro gli aveva detto; quindi disse al suo discepolo: 
“Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve” (2).

Ciò che qui ha reso il giovane monaco capace di vera obbedienza è stato l’uso della propria coscienza, esercitata all’ascolto dell’evangelo e dell’altro che aveva dinanzi a sé, non solo del monaco ospitato, ma anche del proprio padre spirituale, che in quel caso gli chiedeva qualcosa che ne contraddiceva la funzione. Il giovane monaco è stato capace di obbedirgli in verità, disobbedendogli in apparenza. La coscienza quindi non si oppone alla vera obbedienza, ma ne è al servizio, perché questa possa produrre la liberazione cui è ordinata.


1 Ricordo il titolo del famoso scritto di don Lorenzo Milani: L’obbedienza non è più una virtù, Lef, Firenze 1979.
2 Detti dei padri, Serie anonima N 451, in I padri del deserto, Detti editi e inediti, pp. 190-192.

tratto da "Pensare e Dire" Edizioni Qiqajon

Pensare e dire… coscienza e parresia: due dimensioni essenziali dell’essere e del relazionarsi. Con un taglio esperienziale e pratico si indicano qui percorsi che aiutino a rivisitare il proprio vissuto: i pensieri che lasciamo abitare in noi e le parole che transitano per le nostre labbra. 

AUTORE Sabino Chialà (Locorotondo 1968) è monaco e priore di Bose dal 2022 a oggi. Studioso di ebraico e siriaco, si è dedicato in particolare allo studio della figura e dell’opera di Isacco di Ninive, di cui ha recentemente pubblicato la prima traduzione italiana completa della prima collezione dei suoi scritti.


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