L’uomo e il suo viaggio. Intervista a Sabino Chialà
L’uomo come essere drammatico, nel senso etimologico del termine, cioè sempre in azione o, per meglio dire, in viaggio nel cammino della vita. L’uomo e il suo viaggio è il tema su cui è intervenuto, a Mestre, Sabino Chialà, monaco dal 1989, da quasi due anni priore della comunità di Bose, teologo e biblista che ha proposto una riflessione a partire da uno dei suoi libri più noti, Parole in cammino, testi di letterature antiche e moderne e appunti sulla dimensione del viaggiare, metafora della vita stessa. Lo abbiamo incontrato.
Qual è il significato autentico di un viaggio?
Il vero viaggio è qualcosa di faticoso, perché ti mette in discussione. Molti, però, lo vivono piuttosto
come un momento di distrazione. Per questo, tante volte, viaggiando in realtà non viaggiamo
veramente.
Il viaggio è tale quando scardina le nostre sicurezze e ci invita a porci davanti alle nostre fragilità.
Viaggiare, allora, significa esporsi, mettersi in gioco, ricondurci alla nostra essenza. Il viaggio è
l’occasione per deporre le maschere ed emergere per ciò che siamo, per riscoprire la nostra
finitudine in una società consumistica che invece esalta forza e potere. È il punto di partenza di un
nuovo processo di umanizzazione e fraternità.
Per viaggiare è necessaria una meta, così come per vivere l’uomo ha bisogno di un fine.
L’esperienza del viaggio è che il fine è disseminato in ogni istante e, nel contempo, oltre ogni
istante stesso. Più della meta, nel viaggio conta l’andare verso la meta. Viaggiare è indugiare lungo
il cammino, è imparare a contemplare quello che viviamo per scoprire il senso ulteriore dei singoli
frammenti che attraversiamo. Ma per fare questo è necessario riscoprire i sensi interiori che
portiamo in noi stessi. Dobbiamo passare dal vedere ciò che vediamo con i sensi del corpo a vedere
con i sensi del cuore e dell’anima. È un percorso spirituale di riscoperta e presa di consapevolezza
che, in definitiva, tutto ciò che abbiamo ci è stato donato.
Viaggiare, dunque, è anche un abbandonare se stessi.
Spesso andiamo fisicamente in viaggio, ma è il nostro super-Io che ci impedisce di viaggiare
davvero. Il vero viaggiatore è colui che si esercita ad abitare la terra da ospite e pellegrino. Solo chi
si sente ospite, sa ospitare; chi si sente padrone, invece, sa solo rifiutare. Viaggiare è esprimere la
riconoscenza per ciò che si è ricevuto in dono affinché, a nostra volta, lo si possa dare in dono.
Questa è un’attitudine che si può e si deve imparare. Dovremmo tutti capire che un Io ipertrofico e
autoreferenziale ci porta a coltivare il mito dell’“esserci fatti da sé”, mentre dovremmo riconoscere
di essere tutti l’esito di un dono.
Come trovare Dio lungo questo andare?
Dio non è dove vogliamo che sia, ma dove lui vuole abitare. Noi non sapremo mai dove Egli sia
esattamente, perché Dio è sempre oltre. Ogni credente degno di questo nome non può non essere in
dubbio e in ricerca, perché Dio, in quanto tale, sta sempre oltre ogni nostra capacità di
comprensione. La fede, in tal senso, è sempre un’esperienza di viaggio. Negli Atti degli apostoli
leggiamo che i cristiani sono “quelli della via”, quelli cioè sempre in cammino. Potremmo dire che
Gesù Cristo stesso è l’itinerante per eccellenza. E noi non dobbiamo mai smettere di metterci alla
Sua sequela per seguirlo.
Il poeta Fernando Pessoa scrive: «La morte è la curva della strada».
Per il cristiano la morte è il dies natalis della vita piena. Vivere non è altro che la preparazione
dell’ultimo passo. E vivere bene vuol dire introdurci nella prospettiva della morte non come
qualcosa che subiamo ma che accogliamo. È molto difficile perché tutti ne abbiamo paura. Cristo,
però, ha vinto la morte. La resurrezione non è uno slogan. Già nella vita terrena dovremmo
imparare a coltivare l’intimità col Risorto. Dovremmo ogni giorno credere di essere in relazione con
il Vivente. Ecco perché dobbiamo restare sempre nella logica del viaggio: come qualcosa di mai
realizzato, ma sempre di donato, verso cui avere gratitudine.
intervista a Sabino Chialà a cura di Alvise Sperandio
L’Osservatore Romano del 25 novembre 2023