Luciano Manicardi "Stupiti dall'umanità di Gesù"
CONVEGNO DIOCESANO
Milano, 4 novembre 2023
“Stupiti dall’umanità di Gesù”
Luciano Manicardi, monaco di Bose
L’umano oggi
Se l’umanesimo è una corrente di pensiero che si assegna come fine la persona umana, che accorda tutta la sua centralità all’essere umano e alla sua dignità, oggi, esso deve porsi la domanda divenuta cruciale: che cos’è l’umano? Oggi l’umano è un punto interrogativo: la globalizzazione pone a confronto ravvicinato e drammatico concezioni culturalmente e filosoficamente distanti dell’umano, della persona, della sua dignità, dei suoi diritti, della differenza di genere, ecc. Ma soprattutto oggi l’umano è una realtà schiacciata tra l’inumano e il postumano.
L’inumano, che è una possibilità costante dell’umano stesso, lo vediamo nell’uomo ridotto a nulla, considerato cosa o merce, oggetto di umiliazione, svilito dall’odio come vediamo in guerre e genocidi, massacri e odi interetnici, stupri e omicidi, nello sfruttamento dei migranti dall’Africa subsahariana, ma anche in fenomeni meno eclatanti ma non per questo meno gravi, come nella diffusione dell’odio sui social, nella burocrazia umiliante, nel sadismo, nel disprezzo della vita dell’altro considerato come meno umano, nella bullizzazione del ragazzo disabile, nel pestaggio del mendicante, nella ragazzina picchiata dalle compagne di scuola perché non ha passato i compiti. L’inumano è oggi spesso un’educazione, o meglio, una diseducazione, sentimentale onnipervasiva. Del resto il secolo passato con la shoah ha mostrato la capacità anche dell’evoluta e colta Europa di trattare le persone come oggetti, come cose, fino a creare vere e proprie fabbriche di produzione industriale di cadaveri come i Lager. Tutto questo, ci piaccia o meno, dice qualcosa dell’uomo. Il poeta Auden lo espresse lapidariamente: “Il male non è mai straordinario ed è sempre umano, divide il letto con noi e siede alla nostra tavola”.
Ma oggi l’umano si trova a fare i conti con il postumano. Dove con postumano si indica la fase in cui “l’ibridazione biotecnologica prefigura un nuovo stadio evolutivo dell’umanità, caratterizzato dall’intreccio sempre più intimo di biologia e tecnologia e dall’interconnessione in rete”. Una fase caratterizzata dalla liquidazione del corpo, dal suo divenire obsoleto, potendo essere sostituito da altri supporti artificiali, come supporti informatici su cui può essere trasferita l’intelligenza umana. La domanda potrebbe essere: quando un corpo è umano? Per Hans Moravec, specialista di robotica, la prossima tappa dell’evoluzione sarà il passaggio dall’homo sapiens alla machina sapiens. Il postumano sfonda il confine tra uomo e cosa: vediamo la creazione di macchine umanizzate e di uomini macchinizzati, macchine e manufatti con proprietà cognitive (si pensi alla ChatGPT), robot senzienti. Anche la macchina deve prendere decisioni di tipo culturale, etico. Ci possiamo chiedere: possiamo ritenere ancora il pensiero appannaggio esclusivo dell’uomo? Le tecnoscienze applicate alla medicina la stanno mutando: suo fine non è più solo riparare i danni ma potenziare il soggetto umano, aumentarne le capacità. Il delirio di onnipotenza del cosiddetto transumanesimo si spinge a ipotizzare la amortalità. Il tipo di uomo postumano è simile a quegli androidi presenti nel film Blade Runner progettati e prodotti dalla Tyrrel Corporation, il cui motto è “più umani degli umani”.
Ma oggi l’umano è sollecitato anche da una sorta, diciamo così, di postumano positivo. Si tratta di quel postumano che sta erodendo l’idea di eccezione umana mostrando come di diversi elementi ritenuti propri dell’uomo si possono trovare tracce di presenza in altri viventi. Si pensi agli studi di neurobiologia vegetale portati avanti e anche divulgati da Stefano Mancuso. Un postumano che, in questo caso potrebbe avere come esito quello di una maggiore solidarietà e prossimità con tutti i viventi, ispirando una pratica di convivenza mite con la terra e tutti i suoi abitanti, umani, animali, vegetali, minerali.
Insomma, l’umano, oggi, ripeto, è una domanda. Quale risposta può ispirare il vangelo? Quale contributo possono dare i cristiani al lavoro di ripensare l’umano per riscrivere una grammatica dell’umano che è compito di tutti? Come operare insieme per “dar corpo a un nuovo umanesimo”, per riprendere le parole di David Sassoli citate da papa Francesco nell’incontro con i leader religiosi nei pressi del memoriale dedicato ai marinai e ai migranti dispersi nel mare, tenutosi a Marsiglia il 22 settembre 2023? Papa Francesco è stato tranchant in quel discorso: “Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza”. Sottolineo le due parole: umanità e fratellanza. Inoltre, queste domande e questi dilemmi si traducono per i cristiani anche in quest’altra domanda: come annunciare credibilmente il vangelo e presentare Gesù, centro della buona notizia, agli uomini e alle donne di oggi, all’umanità di oggi?
Nel contesto della riforma di papa Francesco
La parola riforma, che nella chiesa cattolica ha conosciuto una storia segnata negativamente dalla sua identificazione con il movimento dei riformatori protestanti, ha trovato con papa Francesco una sua piena riabilitazione. Una riforma, cioè un adattamento nuovo delle istanze di una religione alle esigenze nuove di un'epoca storica, implica un'operazione ermeneutica, una nuova interpretazione delle proprie origini. E io ritengo che una Chiesa che voglia annunciare oggi il Vangelo debba presentare e narrare il volto umano di Gesù di Nazaret, l’uomo che ha narrato Dio.
Sempre le immagini di Dio hanno conosciuto inculturazioni differenti nell’annuncio nelle diverse epoche storiche e nelle diverse regioni geografiche. Oggi siamo avvezzi all'immagine del Dio trinitario che è relazione in se stesso; siamo persino abituati all’immagine del Dio sofferente che in altre epoche cristiane appariva inimmaginabile. Cogliere la dimensione di Gesù come rivelatore di Dio nella sua umanità ci conduce a vedere i vangeli come scuola di umanizzazione come portatori di una parola capace di trasformare la nostra umanità a immagine dell’umanità di Dio che è Gesù di Nazaret. Questa accentuazione è sì suggerita dal fatto che per l’uomo secolarizzato, il cui cielo è vuoto di divinità, il messaggio evangelico è comprensibile - forse - solo come forma di umanizzazione, come pratica di umanità, come offerta di una possibilità sensata di vivere l’umano, ma soprattutto, perché questa ermeneutica che coglie nella fede i vangeli come i testimoni dell’umanità di Gesù di Nazaret, apre una prospettiva di conversione radicale per il credente e la Chiesa. Una conversione che ha a che fare non con pratiche religiose o rituali, ma che riguarda l’umanità stessa dell’uomo: il suo parlare e agire, il suo rapportarsi al mondo, agli altri, alla storia, all’economia e alla natura, il suo guardare e ascoltare, il suo amare e il suo pensare, il suo agire sociale e politico. Insomma, il suo modo di declinare l’umano, di vivere quell’umano che è il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio, che è il dono ricevuto e la responsabilità e il compito da realizzare. Lo sguardo portato sulla pratica di umanità di Gesù come appare in ogni episodio evangelico, negli incontri che Gesù vive, nelle parole che dice, nei gesti che compie, nei suoi silenzi, nella contemplazione dei fiori, delle piante e degli animali, nelle esegesi delle Scritture e nelle invettive contro scribi e farisei, nella preghiera personale e solitaria, nel perdono all’adultera e nell’abbraccio ai bambini, nell’attenzione ai lavori quotidiani degli uomini, dei pescatori, dei contadini, delle massaie, nel rapporto con le autorità religiose e politiche, e così via, dischiude un cammino di conversione estremamente esigente per ogni credente e per ogni comunità cristiana. Un cammino esigente perché riguarda ogni fibra della creatura umana. Un cammino che ha lo Spirito come guida e Cristo come fine. Un cammino cosciente dal fatto che "ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma umano". Quindi mentre il cristiano riflette su quale umanesimo può essere ispirato dal vangelo e da Gesù Cristo, non sta facendo qualcosa di funzionale agli altri, ma anzitutto si deve preparare e disporre a un lavoro di conversione personale, di cambiamento di sguardo, di abbandono di idee e concetti e pratiche assodate e divenute abitudini per acquisirne altre dal vangelo e da Gesù di Nazareth. E inoltre, deve essere chiaro che l’immagine di Dio si riflette sulla forma della Chiesa. Un’immagine di Dio in cui si sottolinei la dimensione umana, pienamente umana di Gesù di Nazaret come rivelatore e narratore di Dio, comporta un profondo cambiamento anche sul piano ecclesiale. E cercherò di mostrarlo. Insomma: interrogandoci e riflettendo sull’umanità di Gesù noi prepariamo la forma futura, prossima, della Chiesa.
Dall’umanità di Gesù alla vita dei cristiani e delle chiese
Noi incontriamo l’umanità di Gesù nelle narrazioni evangeliche, attraverso la loro mediazione. Dunque non ricaveremo dall’incontro con l’umanità di Gesù come tratteggiata nei vangeli un modello, un paradigma di nuovo umanesimo, men che meno una ricetta da applicare, ma un’ispirazione, una partecipazione allo Spirito, lo Spirito santo che ha animato e guidato la pratica di umanità di Gesù nel suo amare Dio e il prossimo. Il titolo della conferenza recita “Stupiti dall’umanità di Gesù” e lo stupore è la forma in cui noi ci lasciamo illuminare, raggiungere, ma anche toccare e colpire dalla realtà: týpto significa colpire, ma anche battere, ferire, percuotere: può darsi che certi elementi dell’umanità di Gesù ci facciano male, che scardino convinzioni radicate, che feriscano e obblighino a ripensamenti radicali e a ri-orientamenti della prassi. Lo stupore conduce a conversione. Io sottolineo pochissimi elementi, estremamente parziali, della ricchissima narrazione evangelica dell’umanità di Gesù, elementi che ritengo decisivi per il contributo proprio che il cristianesimo può dare a un umanesimo oggi e anche utili per la pratica ecclesiale e pastorale oggi, per la modalità della presenza cristiana nella storia.
Gesù, uomo che oltrepassa confini e supera barriere
E poiché, come detto, l’umanità di Gesù la conosciamo attraverso la mediazione dei vangeli (cf. DV 18), leggo un testo evangelico. Scelgo un brano proprio al solo vangelo di Marco, ma che presenta una modalità dell’agire umano di Gesù che ritroviamo in tutti i vangeli, un brano che, tra l’altro, parla espressamente dello stupore che Gesù suscita nella gente. Vi propongo anche una traduzione un po’ più precisa di quella presente nella Bibbia della CEI. Il passo è Mc 7,31-37 e il titolo è guarigione di un sordo-balbuziente non di un sordomuto
31Uscito di nuovo Gesù dal territorio di Tiro, venne, attraverso Sidone, verso il mare di Galilea, in mezzo al territorio della Decapoli. 32Allora gli portarono un sordo che era anche balbuziente e lo implorarono di imporgli la mano. 33Ed egli, presolo in disparte, lontano dalla folla, mise le proprie dita nelle sue orecchie e fatto dello sputo, gli toccò la lingua. 34Poi, levato in alto lo sguardo verso il cielo, emise un gemito e gli disse: «Effathà!» che significa: «Apriti bene!». 35E subito gli furono aperte le orecchie e fu sciolto il nodo che gli legava lingua e parlava correttamente. 36Poi egli raccomandò loro che non lo dicessero a nessuno; ma quanto più glielo raccomandava, tanto più essi lo proclamavano. 37Ed erano stupiti, oltre ogni limite, e dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare chi è senza parola!».
Il passo si apre con una annotazione di tipo geografico in cui Marco descrive il percorso compiuto da Gesù. Partendo dalla regione di Tiro, Gesù sale verso nord in direzione di Sidone che dista circa 25 chilometri da Tiro, quindi piega verso sud-est in direzione del lago di Galilea, nel pieno del territorio della Decapoli (cf. Mc 7,31). Gesù, che normalmente si muove in territorio d’Israele, qui cammina in territorio non israelitico, tra i pagani. Un simile periplo è inverosimile, assurdo, ma forse il senso di tale stranezza consiste nella sottolineatura del superamento della frontiera tra ebrei e pagani. Qui Gesù mostra il suo intenzionale superamento dei confini che separano Israele dalle genti: cammina tra i pagani come ha camminato tra i figli d’Israele. Ed è evidente che questo superamento dei confini è teologico tanto quanto è geografico. Questo superamento è poi in linea con il messaggio dell’intera pericope che si presenta come racconto del superamento di confini e limiti.
Un uomo, sordo e gravemente limitato nella facoltà di parola, viene portato a Gesù. È una persona la cui sordità ha compromesso la capacità di comunicare: si esprime a fatica, farfuglia, balbetta, ma non è muto. Tanto che la sua guarigione viene espressa dicendo che egli “parlava correttamente”. Menomato nel parlare, egli fatica a farsi capire, così che anche la sua vita relazionale e sociale è menomata. Provate a immaginare la frustrazione e l’umiliazione di chi non riesce a dare forma verbale comprensibile e corretta al proprio sentire e pensare, e immaginate anche il disagio di chi si trova ad ascoltare senza capire e vive quell’incontro o con imbarazzo o con fastidio o con commiserazione o con desiderio di scantonare al più presto. Per cogliere l’umanità di Gesù fate entrare, nella vostra lettura del vangelo, il messaggio nella vostra umanità, traducetelo nei vostri vissuti, ascoltatevi, sentitevi, immaginatevi. Per quest’uomo, lo spazio sociale che normalmente è ambito di espressione di sé e dilatazione di relazioni, per lui è uno spazio limitato, segnato da impedimenti e chiusure. Quasi una gabbia. Altri infatti, lo accompagnano da Gesù e parlano per lui. Egli deve contare sulla solidarietà di altri che si fanno carico di lui, se ne prendono cura e lo portano a Gesù. La solidarietà di altre persone consente di iniziare il superamento di un primo confine, quello sociale che l’azione di Gesù porterà a compimento.
Un altro limite che viene superato in questo racconto è il limite corporeo. Se ogni persona è il proprio corpo e non semplicemente uno che ha un corpo, e se il corpo è il luogo delle relazioni che si manifestano come incontro, dialogo, ascolto, relazione, quest’uomo è gravemente menomato. L’incontro con Gesù porterà quest’uomo a ritrovare il suo corpo come dimora, come espressione di sé e come apertura ad altri. Gesù opera questa liberazione attraverso una contaminazione di corpi: il suo corpo con il corpo dell’uomo sordo e che si esprime a fatica. La fisicità di questa guarigione è narrata in modo dettagliato, senza pudore. Gesù lo prende per mano e lo conduce in disparte, lontano dalla folla, gli pone le dita negli orecchi, con le dita bagnate della propria saliva (e la saliva era ritenuta dotata di proprietà curative) tocca la sua lingua, quindi volge gli occhi al cielo e invoca, con un gemito, l’apertura dei sensi chiusi di quest’uomo. L’apertura dei sensi diventa immediatamente apertura al senso, essendo questo connesso alla relazione con l’alterità. E ora quest’uomo può rientrare pienamente nello spazio vitale delle relazioni.
Ora, noi siamo di fronte a un tratto tipico dell’umanità di Gesù che ha a che fare con coraggio, intelligenza e libertà. In molti e svariati ambiti Gesù non si attiene a confini prefissati e oltrepassa frontiere e limiti, barriere culturali e tabù stabiliti da tempo sia sul piano sociale che religioso. E questo fa non per ribellismo o piacere di trasgressione, ma per istituire orizzonti ben più vasti di quanto possano fare le culture, le tradizioni e le credenze umane. In nome della conoscenza del cuore di Dio, del suo volere, Gesù istituisce un orizzonte di respiro universale per orientare l’agire umano e per dilatare il cuore dell’uomo. Egli supera l’opposizione e la rivalità religiosa fra giudei e samaritani e i rispettivi luoghi di culto affermando che ormai “i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità” (Gv 4,24). Egli supera le diffidenze di genere e non esita a fermarsi a parlare con donne suscitando lo stupore scandalizzato dei suoi discepoli (Gv 4,27), anzi, alcune donne fanno parte del suo seguito discepolare (Lc 8,1-3), cosa inaudita all’epoca. Accoglie la vicinanza, scandalosa agli occhi di tanti, di una prostituta in casa di Simone il fariseo e chiama amore ciò che vede in lei e che gli altri chiamano peccato (Lc 7,36-50). Mangia in compagnia di pubblicani e peccatori (Lc 15,2), superando così anche barriere e inibizioni di tipo morale istituite tra giusti e peccatori. Si lascia avvicinare da pagani riconoscendo in loro una fede ben più grande di quella che ha potuto trovare in Israele (Mt 8,10). Va oltre quanto stabilito da tradizioni certamente venerabili ma che devono lasciare il passo all’urgente primato del fare il bene, di dare integrità a chi non ce l’ha: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla?” (Mc 3,4). Non esita a negare validità ad affermazioni teologiche diffuse e da tutti ripetute come ortodossia intoccabile e indiscutibile, ma che si scontrano con l’esperienza reale e soprattutto feriscono l’umanità dei sofferenti, delle vittime della vita e della storia. In Gv 9,1-3 di fronte a un cieco dalla nascita i discepoli gli chiedono immediatamente chi abbia peccato se lui o i suoi genitori, e Gesù spazza via la credenza che la malattia sia sempre frutto di un peccato con un “no” perentorio. La differenza è nello sguardo: i discepoli vedono un cieco, lui vede, dice il testo, “un uomo” (ánthropon; vidit hominem caecum a nativitate). Gesù vede l’uomo sofferente, vede e sente la sofferenza dell’uomo privato del dono del vedere la luce. Non vede un caso teologico e non ripete le cose apprese al catechismo come fanno loro. E lì noi abbiamo il punto di vista da cui spesso Gesù guarda gli umani: il punto di vista dalla loro sofferenza.
Da tutto questo, per noi e per la nostra prassi ispirata all’umanità stupefacente di Gesù, deduco conseguenze in tre ambiti.
L’ambito liturgico e rituale
1. L’insegnamento evangelico è importante per una prassi di umanità e anche per una pastorale finalmente coraggiosa anche per noi oggi. Gesù abbatte distinzioni di tipo cultuale e rituale, chiedendo verità interiore e adorazione in spirito e verità. Chiede che le tradizioni, il “si è fatto sempre così”, le forme, le usanze e le consuetudini non diventino impedimento al nuovo e soprattutto offuscamento del sacramento del povero e tradimento del vangelo. Il discorso di Gesù sul qorbàn in Mc 7, cioè su un’osservanza di tradizioni formali che esentano dalla concreta assistenza ai genitori, o di Mt 23 su chi è scrupoloso osservante di minuzie come pagare la decima del rametto di rosmarino comprato al mercato per adempiere la Legge e poi dimentica di praticare giustizia e carità, ci raggiungono e ci chiedono apertura mentale e di orizzonti per saper distinguere consuetudine e verità. Non si può confondere una modalità con un contenuto: le forme e le modalità devono cambiare se no ciò che muore è la comunità stessa, il contenuto stesso. Scrive Tertulliano: “Cristo, nostro Signore, si è designato come verità (cf. Gv 14,6), non come consuetudine”; e Agostino: “Nel Vangelo il Signore dice: Io sono la verità. Non dice: Io sono la consuetudine”. Il rischio è che la forma diventi contenuto, che la consuetudine offuschi e prevarichi sulla verità divenendo tradizione immutabile e sacralizzata quando altro non è che cattiva o pessima abitudine: “La consuetudine non deve impedire che la verità prevalga. Infatti, la consuetudine senza la verità è errore inveterato”, afferma Cipriano. Se per tanto tempo si è ricevuta l’ostia in bocca dalle mani del presbitero, non cade il mondo se ora la si riceve in mano. Una consuetudine, magari nata “da una certa ignoranza o da dabbenaggine, con l’andar del tempo si radica sempre più e si trasforma in prassi abituale, e così ad essa ci si appella in opposizione alla verità”. Siamo rinviati al lavoro di discernimento che Gesù stesso ha compiuto nei confronti di pratiche e tradizioni giudaiche del suo tempo che facevano velo al comando di Dio: “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” (Mc 7,9). Gesù denuncia prassi cultuali e rituali come infedeli al volere di Dio e contemporaneamente alla carità e alla giustizia verso gli umani: “Se uno dichiara al padre o alla madre: ‘Ciò con cui dovrei aiutarti è qorbàn, cioè offerta a Dio’ non gli consentite di fare più nulla per il padre e la madre” (Mc 7,11-12). L’ambito liturgico e devozionale è quello più toccato da questa tendenza che dimentica la pratica di umanità di Gesù ispirata a coraggio e libertà.
L’ambito morale
2. Anche l’ambito morale viene coraggiosamente superato da Gesù. Nell’episodio della prostituta che si avvicina scandalosamente a lui mentre è in casa di Simone il fariseo e che lo tocca con disinvoltura creando scompiglio tra i commensali (Lc 7,36-50) egli vede l’amore là dove gli altri vedono il peccato. Questa donna, dice Gesù “ha molto amato” (Lc 7,47). L’ambito morale, e in particolare della morale sessuale, è quello della maggiore feribilità umana ma anche quello in cui maggiormente noi siamo abitati da convinzioni culturali così inveterate che fatichiamo ad accettare modi di amare che ci sembrano inconcepibili, innaturali, e che immediatamente giudichiamo o da cui ci difendiamo respingendoli. Mi viene in mente una catechista che si è trovata a dover accompagnare una bambina figlia di due madri: prima la difficoltà, lo sconcerto e poi la responsabilità nei confronti della bambina e la fiducia fatta all’amore delle persone. Passare dallo sconcerto allo stupore meravigliato di scoprire l’amore anche là dove la nostra pigrizia mentale vedeva peccato. Dobbiamo riconoscere che spesso sono le persone in situazioni morali che noi ancora giudichiamo, con termine più che discutibile, come “irregolari”, che già soffrono per la condizione che vivono e in cui si ritrovano e che incontra lo stigma della società e a loro noi aggiungiamo il giudizio di condanna ammantato di religioso. L’umanità di Gesù si esprime anche con queste parole: “Io non giudico nessuno” (Gv 8,15) subito dopo l’incontro con la donna adultera. Dobbiamo forse ricordare che il movimento dell’agape e dell’eros non sono contrapposti ma analoghi? Eros non è solo una modalità di amore “possessiva” ma esperienza in cui mi trovo e realizzo perdendomi nell’altro, anzi, in cui c’è reciproco trovarsi perdendosi reciprocamente. Questa dimenticanza di sé nell’altro non avviene forse anche nell’agape in cui mi dono e spendo per l’altro? Ha scritto il teologo Eberhardt Jűngel: “Dell’amore non dobbiamo mai vergognarci. Perché nell’amore partecipiamo con Dio a un unico e medesimo mistero. … Proprio perché partecipiamo con Dio al medesimo mistero, possiamo diventare ciò di cui non ci è possibile pensare qualcosa di più grande, non già in alcun modo esseri divini bensì, sotto ogni aspetto, esseri umani”.
L’ambito sociale
3. Un terzo elemento è quello del superamento di barriere sociali. Paolo l’ha ben espresso quando in Gal 3,28 afferma che nella comunità eucaristica cristiana “non vi è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo”. E questo lo fa fondandosi sulla pratica di umanità coraggiosa, libera e aperta di Gesù che, in un contesto in cui lo straniero era spesso identificato con un nemico o con idolatra, ha incontrato stranieri e riconosciuto che la loro fede era ben più grande di quella di tanti figli d’Israele (Mt 8,10; 15,28; Lc 17,18-19); che, all’interno di una società rigidamente patriarcale, ha incontrato donne samaritane e cananee osando fermarsi con loro, incontrarle e dialogare con loro (Mt 15,21-28; Gv 4)… Pensiamo a come in tanti ambienti ecclesiali così come in tante fette di società vi sia ancora un atteggiamento di ostilità e rigetto verso gli immigrati, di sospetto, superiorità, giudizio e discriminazione verso le donne. E dunque, come la riflessione sull’umanità di Gesù debba condurci a un radicale movimento di conversione.
Il Regno orienta l’oggi: fraternità e sororità universale
Noi sappiamo che i confini possono svolgere una funzione di protezione, ma possono anche divenire fattori di chiusura e di ripiegamento identitario, di esclusione invece che di accoglienza e di inclusione. Lo stesso Gesù ha faticato ad accedere a questa visione aperta di un volere divino che si estende ben oltre i confini d’Israele, come mostra l’episodio immediatamente precedente il nostro in cui Gesù appare duro di fronte alla richiesta di aiuto di una donna siro-fenicia che lo supplicava per la propria figlia gravemente sofferente (Mc 7,24-30). Ma alla fine si lascia vincere dalla fede della donna (Mc 7,29; Mt 15,28) e si lascia convincere dalla sofferenza della madre per la figlia malata: in quell’incontro l’umanità di Gesù, inizialmente restia e rigida, viene sciolta, smossa, toccata, ferita e convertita dalla donna. Anche Gesù convive con impostazioni culturali e convinzioni teologiche che rischiano di frenarlo e chiuderlo. Ma egli fa dell’incontro il grande sacramento della trasformazione. Potremmo concludere: quale confine è così radicato e giustificato, anche nello stesso Gesù, da impedirgli di operare il bene e di prendersi cura del sofferente?
Ora, proprio i due episodi contigui della guarigione della donna siro-fenicia e dell’uomo sordo e con difficoltà di espressione nella Decapoli, ci suggeriscono che l’orizzonte che Gesù istituisce e che presiede al suo agire è quello della fraternità-sororità universali. Universali: non limitati al livello famigliare, e nemmeno patriottico o etnico o nazionalistico e aperto alle due metà dell’orizzonte umano, uomini e donne. Questo orizzonte è meta e cammino al tempo stesso. Esso sarà verità nel Regno, nell’escaton e il Regno è la visione che guida Gesù nel suo cammino storico e nella sua prassi di umanità. La fraternità e sororità universale non sarà mai pienamente raggiunta nella storia, ma se nella storia non ci lasciamo guidare da visioni alte e impegnative non realizzeremo nemmeno il possibile. Possiamo realizzare il possibile solo se tentiamo l’impossibile e tendiamo ad esso. Il Regno è oggetto di speranza, ma l’autenticità della speranza cristiana e la sua credibilità (che fa sì che non sia fuga o un’illusione) è data da concrete anticipazioni nell’oggi personale e sociale, storico, politico ed ecclesiale del compimento della speranza stessa. “La speranza per vivere, non può nutrirsi solo di aneliti e rappresentazioni del futuro. Ha bisogno di zone di realtà che attestino e anticipino qualcosa del compimento della speranza stessa”. L’umanità di Gesù si deve fare storia, luogo, relazione, incarnarsi geograficamente. Si dirà che la visione di una fraternità e sororità universale è un’utopia! Rispondo: che cos’è un’utopia? E lascio la parola allo scrittore uruguayano Eduardo Galleano: “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare”. E a camminare creando eutopie, cioè dei luoghi, delle esperienze storiche, collettive, associative, che si caratterizzino per ciò che è significato e implicato dal prefisso “eu”, bene. Quel bene di cui noi vediamo l’esempio nella prassi di umanità di Gesù. Si tratta di creare spazi di condivisione e convivialità, partecipazione e solidarietà, di scambio delle storie e delle narrazioni, che danno senso all’oggi e aprono al futuro; che mentre colmano di significato l’oggi delle persone e delle loro relazioni, indicano la direzione di cammino, la meta verso cui orientarsi. Ovviamente si tratta anche e in particolare di luoghi ecclesiali, si tratta di Caritas, in cui si vive guidati da quella visione che ci impone di considerare gli altri come simili, anzi, come fratelli e come sorelle. Questa la visione e soprattutto la pratica dell’umano che discende da coloro che credono in quel Gesù che si rivolgeva a Dio chiamandolo Abbà e confessandolo Padre di tutti gli umani. Tuttavia non mi dilungo su questo argomento che ho ampiamente sviluppato in una conferenza sempre alla Caritas il 18 marzo di quest’anno.
Gesù, uomo capace di cura
Un altro tratto che emerge dall’insieme della testimonianza evangelica ci parla di Gesù quale uomo che si spende nella cura delle persone, in particolare curando malattie fisiche e psichiche, ma, come vedremo, non solo. La cura è un’attitudine dell’intera vita di Gesù che narra esistenzialmente la sollecitudine di Dio per ogni uomo, massimamente i più deboli e poveri. I vangeli testimoniano che Gesù ha incontrato un gran numero di malati, di persone afflitte da svariate malattie: menomazioni fisiche (zoppi, ciechi, sordomuti, paralitici), malattie mentali (gli “indemoniati” designano persone afflitte di volta in volta da epilessia, isteria, schizofrenia, cioè da una serie di mali la cui origine era attribuita a un impossessamento diabolico), handicap e infermità più o meno gravi, cronici o momentanei (lebbrosi, la donna che soffriva di emorragie, la suocera di Pietro colpita da grande febbre). L’incontro con questa umanità sofferente, con i volti e i corpi sfigurati di così tanti uomini, ha costituito per Gesù una sorta di bibbia vivente, in carne ed ossa, da cui egli ha potuto ascoltare la lezione della debolezza e della sofferenza umane, apprendere l’arte della compassione e della misericordia, imparare che la malattia e la sofferenza costituiscono il “caso serio” della vita umana.
I vangeli sottolineano il fatto che Gesù cura i malati (il verbo greco therapeuein, “curare”, ricorre 36 volte, mentre il verbo iasthai, “guarire”, si trova 19 volte), e curare significa anzitutto “servire” e “onorare” una persona, prestarle completa attenzione, ascoltarla, discernere il suo bisogno più profondo, comprenderlo, provare empatia con lei, rispettarla, dialogare con lei, farsi presente nel momento del bisogno. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l’unicità e si relaziona con la totalità del suo essere, cogliendone la ricerca di senso, vedendolo come una creatura capace di preghiera e segnato da debolezza, mosso da speranza e disposto all’apertura di fede, desideroso non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza all’intera sua vita. Il Gesù terapeuta manifesta che ciò che conta è la persona malata, non la sua malattia.
L’umanità, l’attitudine autenticamente umana, deve poi anche abbracciare la sfera del parlare cristiano: soprattutto quando affronta i temi della malattia e della sofferenza, della morte e del lutto, il discorso cristiano deve essere evangelizzato e umanizzato. Esso infatti rischia toni antievangelici, rischia di cadere nell’ovvietà, di vivere di luoghi comuni, di prediche, di banalità spiritualistiche, di mancare totalmente la profondità e la gravità di ciò che l’altro sta vivendo, di divenire retorica irrispettosa e pretenziosa. Anche qui una lezione di umanità ci viene dal considerare come si comporta Gesù davanti a malati e sofferenti. Incontrando i malati, Gesù non predica mai rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma mai che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio, non chiede mai di offrire la sofferenza a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici: egli sa che non la sofferenza, ma l’amore salva. Insomma, non basta farsi vicini ai malati, bisogna imparare il come di tale vicinanza.
La compassione
Inoltre Gesù si coinvolge profondamente con la situazione personale dei malati: la loro sofferenza viene patita da Gesù stesso che prova compassione per loro, cioè entra in un movimento di con-sofferenza che lo coinvolge anche emotivamente. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri e il suo corpo e il suo animo si fanno cassa di risonanza del dolore dell’altro: egli si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche (timore di contagio) e le convenzioni religiose (timore di contrarre impurità rituale) suggerirebbero di porre una distanza fra sé e lui, come nel caso dei lebbrosi che Gesù non solo incontra strappandoli dall’isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura li tocca. Gesù non guarisce senza condividere. Ai lebbrosi, questi malati che vedevano tutte le sfere della loro vita sconvolte dalla malattia perché allontanati dalla loro famiglia, costretti a vivere fuori dai centri abitati e considerati colpiti da Dio e oggetto del suo castigo, Gesù si fa vicino, parla con loro, tocca il loro corpo, restituisce loro una vicinanza umana e la comunione con Dio (Mc 1,40-45; Mt 8,2-4; Lc 5,12-16). Anche qui Gesù supera limiti e tabù inveterati. Gesù mostra che ciò che contamina non è il contatto con chi è ritenuto impuro, ma il rifiuto della misericordia, della prossimità al malato; insegna che non c’è sporcizia più grande di chi non vuole sporcarsi le mani con gli altri; svela che la comunione con Dio passa attraverso la misericordia e la compromissione con il sofferente.
Ma Gesù non cura solamente quando è davanti a persone malate, bensì egli mostra sollecitudine e si prende cura di peccatori e di poveri; di bambini ed emarginati; di stranieri e di donne; accetta di mandare a monte i propri progetti di solitudine e riposo di fronte a folle che lo seguono, anzi quasi lo braccano pur di avere da lui un insegnamento (Mc 6,34); spende tempo ed energie fisiche, emotive, psichiche, cognitive, spirituali dando la sua presenza a la sua attenzione a persone da tutti ignorate: egli vede la povera vedova che dà la sua elemosina al tempio e coglie quel gesto come profetico del suo dare tutto, del suo dare la vita (Mc 12,41-44). Se l’occhio è specchio dell’anima il suo sguardo rivela la sua persona e ogni volta che si dice che egli prova compassione, questo è preceduto dall’osservazione che egli “vide”. La sua umanità è colpita e ferita dal dolore degli umani, dalla sofferenza che tocca e stravolge i corpi e le vite degli umani. La sua pratica di cura si nutre di empatia e di compassione, e ci insegna che l’universalismo del suo agire è connesso al prendere sul serio il carattere universale della sofferenza. E Gesù ci insegna che la compassione è cifra di una umanità alta, degna di questo nome. È il no radicale all’indifferenza. “La compassione”, scrive Emmanuel Lévinas, “ha un senso etico. È la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo, nell’ordine normale dell’essere”. La compassione come elemento fondamentale della relazionalità umana non può certo essere intesa come pura emozione. La compassione è dotata di una struttura cognitiva, è una forma di intelligenza del mondo, e in particolare, essa discerne le fragilità dei sofferenti e accompagna lo sguardo con un giudizio di gravità (un serio evento negativo ha colpito qualcuno: si pensi all’uomo mezzo morto visto dal Samaritano nella parabola di Lc 10,29-37), quindi con un giudizio di innocenza (la persona non ha alcuna colpa di ciò che ha subito: l’uomo ferito è stato aggredito); poi un giudizio di rispecchiamento (ciò che è avvenuto a lui poteva avvenire a me; la vittima è un altro me stesso; l’empatia diviene il ponte che il Samaritano lancia verso la vittima) e infine un giudizio eudaimonistico (la vittima è elemento significativo nel mio insieme di valori e scopi, per cui perseguire il suo bene e fare tutto ciò che è nelle mie possibilità è la priorità: il Samaritano interrompe il suo viaggio, si fa carico della vittima, lo cura, lo affida a chi lo può assistere e alloggiare paga di tasca sua ciò che è necessario).
La curiosità
Gesù insegna che l’essere umano è colui che risponde dell’altro uomo, che si fa responsabile dell’altro uomo: questa è la postura dell’anti-Caino, di colui che cioè che dice: “Sì, io sono custode di mio fratello” (cf. Gen 4,9). La cura diviene così responsabilità. E si accompagna alla buona curiosità. Se c’è una curiosità invadente, intrusiva, irrispettosa, indiscreta, vacua, c’è una curiosità che è espressione di responsabilità e di serietà umana. E che onora l’etimologia del vocabolo curiositas, che contiene la nozione di cura, dunque di sollecitudine, attenzione, applicazione. E la cura, secondo un’antica etimologia che la fa derivare dal vocabolo cor (cuore) e dal verbo uro (bruciare), è ciò per cui un cuore brucia, è interesse, è passione. Buona è la curiosità mossa da philanthropía, da amore e passione per l’umano. Come appare nel celebre passaggio della commedia di Terenzio così spesso citato – “Sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda” -, ma di cui ci si dimentica che costituisce la risposta che Cremete dà a Menedemo che lo rimprovera di essere curioso: “Hai tanto tempo da perdere, Cremete, che non pensi agli affari tuoi e ti occupi di quelli degli altri, che non ti riguardano affatto?”. Dunque vi è una curiosità che è apertura al mondo, vulnerabilità al molteplice, passione per l’umano, disponibilità a lasciarsi interpellare dall’alterità, capacità di stupore verso il reale. Dunque, questa curiosità ha una importante valenza spirituale. E ci porta a ritenere che anche l’umanità di Gesù fosse abitata da questa dimensione. In Gesù infatti è presente l’atteggiamento di ricerca, di passione e di interesse per l’umano in tutte le sue espressioni che troviamo attestato nella tradizione sapienziale veterotestamentaria. Quella tradizione secondo cui “le esperienze del mondo sono sempre esperienze di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo” (Gerhard von Rad). L’atteggiamento sapienziale, espresso da Qoelet con l'affermazione programmatica “mi sono proposto di ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo” (Qo 1,12), è visibile nei suoi esiti in Gesù. Gesù ricorre spesso al linguaggio proverbiale che dice sia l’accoglienza di un’eredità di cultura popolare sia la sua personale capacità di osservazione e di nominazione del reale. Si può abitare il mondo senza conoscerlo? Si può conoscerlo senza esplorarlo? Si può esplorarlo senza interrogarlo? Gesù dimostra di conoscere le pratiche dei pescatori (Mt 13,47-50) e dei contadini (Mc 4,1-20; 26-32; Lc 13,6-9), dei pastori e delle massaie (Lc 13,20-21), sa osservare il cielo e intuire i cambiamenti climatici (Lc 12,54-56), sa contemplare la natura con stupore e ammirazione (Mt 6,25-34), conosce ed è informato di fatti di cronaca (Lc 13,1-5), sa osservare le gemme delle piante di fico e dedurne i cambiamenti stagionali (Mc 13,28). E queste immagini hanno dato consistenza al linguaggio parabolico con cui Gesù ha narrato Dio ai suoi contemporanei. Non sono restate un sapere fine a se stesso, ma l’hanno aiutato a parlare di Dio. L’immagine di una chioccia che raduna i pulcini sotto le ali gli è restata talmente impressa che ne ha fatto la metafora del suo agire nei confronti di Gerusalemme (Lc 13,34). Verso le persone che incontra Gesù mostra interesse, attenzione, arrivando a interrogarle sulla loro salute, sul loro nome, sulla loro situazione famigliare, su ciò di cui hanno bisogno, perché egli cura non in modo asettico, ma con un coinvolgimento personale e stabilendo una relazione autentica: non si relaziona con categorie indistinte (peccatori, malati, prostitute, poveri, ...), ma con uomini e donne con un volto e un nome, una storia e dei bisogni precisi (Mc 5,9.19.30-32; 8,5.23; 9,21; 10,51; ...). La cura che Gesù esercita verso tante persone deboli e malate si accompagna all’interesse, alla giusta e sana curiosità per la loro condizione.
Una cultura della cura
Questa dimensione dell’umanità di Gesù, la cura, deve a mio parere divenire un punto irrinunciabile dell’agire ecclesiale in forma di cultura della cura. Questa è un’urgenza che non ammette dilazioni. Infatti, oggi, la cultura della cura si oppone alla dominante cultura della guerra. Lo si può vedere non solo dalle tante guerre che esplodono ovunque, ma anche da come la metafora bellica fu utilizzata nella narrazione della pandemia predominante in Europa e a livello mondiale: il nemico invisibile, i medici in prima linea, gli infermieri in trincea, la battaglia da vincere ... Quando l’unica immagine adeguata e rispondente alla realtà era quella della cura. “Cura” era la parola adeguata, adatta a far fronte alla situazione pandemica ma anche necessaria per il “dopo”, perché la cura è essenziale alla vita, è una necessità universale dalla condizione umana che è universalmente segnata da vulnerabilità. Del resto la guerra è l’esatto contrario della cura: nella guerra l’altro è nemico da eliminare, la natura e l’habitat vengono distrutti, alla logica della riparazione e della custodia si sostituisce quello della distruzione, alla solidarietà si sostituisce il paradigma dell’inimicizia.
La regola d’oro
Nella sua passione per l’umano Gesù, che già ha semplificato e sintetizzato la volontà di Dio espressa nella Torah nell’unico e duplice comando di amare Dio e il prossimo, formula un principio etico basilare e di portata universale: la regola d’oro: “Tutto quanto volete che i figli degli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12). La cura dell’umano diviene cura del prossimo, del concreto volto, corpo, nome, biografia, storia incarnata da un essere vivente che ho davanti e che mi interpella. Qui abbiamo un principio basilare, semplice quanto inaggirabile per la costruzione di un umanesimo universale e pienamente rispondente alle esigenze evangeliche. Ma vorrei sottolineare un altro elemento che desumo dalla stupefacente umanità di Gesù e che incontra rispondenze in tante altre tradizioni culturali e religiose.
Gesù, uomo che ama la natura e impara da essa
Dice un testo della tradizione giainista (antica religione che affonda le sue radici nell’induismo): “Un uomo dovrebbe preoccuparsi di trattare tutte le creature come egli istesso vorrebbe essere trattato” (Sutrakritanga I,11,33). La regola d’oro viene qui estesa a ogni vivente e a tutto il vivente e chiede l’attivo prendersi cura, l’assumersi direttamente la responsabilità del trattamento reciprocamente armonico tra tutte le creature. Un tratto straordinariamente interessante dell’umanità di Gesù emerge da alcune sue parole disseminate nei vangeli. Gesù dice: “Guardate attentamente gli uccelli del cielo” (Mt 6,26), “considerate i gigli del campo” (Mt 6,28), e altrove: “osservate i corvi”, “guardate il fico e tutti gli alberi”, “imparate dall'albero di fico” (Mc 13,28). Sono comandi di Gesù che normalmente non prendiamo in considerazione perché pensiamo - forse a ragione, forse no - che non abbiano la stessa rilevanza di “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) o di “Siate vigilanti e pregate” (Lc 21,36) o di “Amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34), eppure sono parole che rivelano sia la persona di Gesù sia come lui vorrebbe i suoi discepoli. Rivelano anzitutto qualcosa di Gesù, della sua vita interiore, della sua umanità. E su cui pertanto non siamo autorizzati a sorvolare con sufficienza. Gesù osservava animali, piante e fiori e ne coglieva il magistero, sapeva imparare da essi, sapeva porsi alla loro scuola. Tanto che nelle sue parabole e nel suo parlare di Dio e del suo Regno ricorrono chiocce e pulcini, volpi e lupi, cammelli e asini, passeri e colombe, grani di senape e chicchi di grano, vigne e cardi, zizzania e frumento, e per designare sé e i suoi discepoli parla di vite e di tralci. Le parole di Gesù ci svelano che animali, alberi e fiori sono maestri. Essi lo sono, anche per noi, oggi, lo sono con la loro presenza silenziosa, lo sono con il loro semplice esserci: il comando di Gesù si rivolge non a loro, ma a noi umani che dobbiamo risvegliarci al reale, lasciarci illuminare dal reale, rispettare, ascoltare e osservare e imparare dalle creature del creato. Perché solo allora la nostra esperienza di Dio e il nostro parlarne potranno avere una qualche credibilità. Animali, alberi e fiori sono lì, con la loro silente presenza a offrirci con discrezione la possibilità di entrare in consonanza con il sentire che fu in Gesù stesso. Nell’etica della prossimità che Gesù pone al centro del compiere la volontà di Dio centrata sull’amore, il creato, l’habitat, l’ambiente, la casa comune, è anch’esso prossimo da amare, curare e custodire.
La “forma ecclesiae”
Quale forma di chiesa si viene a delineare dalla considerazione della pratica di umanità di Gesù? Quattro immagini possono rendere l’idea di elementi che dovranno far necessariamente parte della chiesa che verrà e che in parte è già presente nella sua forma attuale.
Scuola
Il Gesù che insegna, istruisce, insegna ai discepoli a pregare, li ammaestra in privato, il Gesù che parla alle folle, chiede che la chiesa sia scuola, nel senso di spazio di iniziazione all’arte della vita spirituale e di formazione umana: le due cose insieme. Trasmettere la conoscenza delle Scritture e massimamente del vangelo; introdurre all’arte della preghiera personale; della lotta contro i pensieri e contro le tentazioni; del discernimento; insegnare quei movimenti di ascolto e silenzio che sono fondamentali per riconoscere la presenza del Signore in noi stessi e negli altri. Ma poi insegnare a pensare, perché il pregare implica il pensare la propria vita davanti a Dio; introdurre all’arte delle relazioni, perché solo così si potrà arrivare ad amare; iniziare alla vita interiore, perché solo così si potrà accedere a quella dialogicità interiore necessaria per avere saldezza e consistenza interiore, chiedono che la comunità cristiana sia scuola, luogo di trasmissione di un sapere che è eminentemente pratico, cioè volto alla vita. Insomma puntare a fare unità fra umano e spirituale per non separare ciò che Dio ha unito. La conversione pastorale chiesta da papa Francesco non può che divenire anche svolta catechetico-pastorale che punti sempre più alla formazione della persona, alla conoscenza di sé, che è l’altra faccia della conoscenza del Signore, inscindibile da essa. L’umanesimo che sgorga dal vangelo deve puntare a una formazione integrata della persona umana. È quello che chiede papa Francesco quando in EG 14 chiede che la pastorale si orienti “alla crescita dei credenti, in modo che rispondano sempre meglio con tutta la loro vita all’amore di Dio”.
Strada
Il Gesù che incontra, che dialoga con tanti, che cammina con i due di Emmaus così come con i suoi discepoli lungo le strade di Galilea, il Gesù che secondo un antico testo apocrifo è synodos, “compagno di viaggio” (“Credi in Gesù: egli ti sarà compagno di viaggio, sýnodos”; Atti di Tommaso 103), ci rinvia all’immagine della strada, della via, a ricordare che la fede è un percorso che dura quanto dura una vita e che in tale cammino si è sempre in ricerca, non si possiedono verità e certezza, si è insieme ad altri ed è essenziale attendersi e stare insieme, e non precedersi, non sgambettarsi, non ostacolarsi, non nascondersi, fare la gara a chi arriva primo. La via era il nome del cristianesimo nell’antichità. “Quelli della via”: ecco i cristiani, chiamati, dunque a far strada insieme ad altri. Cercatori insieme ad altri cercatori, perché della verità nessuno è possessore, neppure il cristiano che la confessa, ma non la possiede. Tutt’al più ne è posseduto e allora la può narrare e testimoniare con il suo vissuto. Cercare insieme significa anche assunzione del dialogo come metodo: potremmo dire met-odos del syn-odos. Il dialogo, è un metodo, più che un contenuto o una virtù. È il metodo di cercare insieme la verità e di edificare insieme un senso. Metodo che accorda importanza essenziale all’interlocutore come soggetto e non lo considera mero terminale della propria opera di convinzione o di propaganda o di proselitismo o di convincimento. È un cammino costruito insieme con le parole, è sýn-odos, e non tende alla sopraffazione dell’altro, ma all’edificazione comune della verità. La verità avviene nel dialogo. E qui tutti, ma proprio tutti, sono i possibili pellegrini con cui il cristiano fa strada. Non ha il lusso di poter scegliere. Chiunque può essere il suo compagno di strada e il suo interlocutore: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda conto della speranza che è in voi” (1Pt 3,15). Se Ignazio di Antiochia definisce i cristiani “compagni di viaggio”, sýnodoi (Lettera agli Efesini 9,2: “Siete tutti compagni di viaggio”, in verità questa strada, che è la strada della carità la si percorre con chiunque, credente o no. Chiunque può divenire synodos, compagno di viaggio del cristiano.
Cortile
Il Gesù che accoglie stranieri, peccatori, emarginati e che è mosso da quella che è stata definita “santità ospitale”, inclusiva e non escludente, il Gesù che incontra anche ricchi e uomini religiosi, dialoga con chi gli si oppone e gli è nemico, con chi la pensa diversamente da lui, chiede alla chiesa di farsi cortile. Cortile è spazio di incontro, di accoglienza con i diversi, con chi pensa e crede diversamente. Benedetto XVI invocò la nascita di un cortile dei gentili, per analogia dello spazio riservato nel Tempio di Gerusalemme ai non ebrei. Egli pronunciò queste parole il 21 dicembre 2009: “Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di ‘ cortile dei gentili’ dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto”. La chiesa è chiamata a essere cortile, luogo dove l’incontro e l’accoglienza e l’ospitalità diventano pratica comune. Ancora una volta tutto di gioca sulla qualità umana di accoglienza, riconoscimento, ascolto, rispetto, senza mai giudicare e condannare, ma dove anche si riesce a nutrire una parola all’altezza delle problematiche degli uomini di oggi. Apertura culturale e libertà di pensiero diventano tratti significativi di una chiesa che non teme la contemporaneità e si mostra attenta all’umano contemporaneo.
Ospedale
Il Gesù che cura malati e perdona peccatori, che si prende cura di quanti incrociano il suo cammino, che chiede che la comunità cristiana sia ospedale. Luogo che si prende cura dei sofferenti e dei poveri, che discerne ogni forma di povertà, da quelle economiche a quelle relazionali, che si prende cura delle ferite degli uomini e delle donne, ben consapevole di essere lei stessa una curatrice ferita. Una terapia dell’ascolto cordiale, dell’accoglienza incondizionata, del consoffrire con chi soffre, del farsi ricettacolo di traumi e tragedie personali, famigliari, di lutti, mostrando empatia verso tutti. Questo è un ambito di pastorale pressoché inesauribile. E si fonda sulla pratica di umanità di Gesù il cui sguardo sulle persone si posava sulla loro sofferenza e non sui loro peccati, che arriva a fare del povero e del sofferente un sacramento della sua presenza, come mostra la pagina di Mt 25,31-46 che afferma l’autorità escatologica dei sofferenti.
Intelligenza, immaginazione, creatività, coraggio, libertà
Il principio dell’incarnazione, affermazione centrale e caratterizzante del cristianesimo, espresso dall’adagio patristico “Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”, oggi lo possiamo comprendere ed esprimere altrimenti e la formulazione potrebbe suonare così: Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi uomo, perché l’uomo umanizzi la sua umanità a immagine di Gesù, l’uomo che ha narrato Dio, l’immagine del Dio invisibile. Del resto Ireneo di Lione scrive: “Come potrai essere dio, se non sei ancora diventato uomo? Devi prima custodire il rango di uomo e poi parteciperai alla gloria di Dio”. La visione dell’incarnazione come finalizzata all’umanizzazione dell’uomo è conforme a quanto il Nuovo Testamento afferma circa Gesù, che si è manifestato “per insegnarci a vivere in questo mondo” (Tt 2,12). Riprendendo le parole di un contemporaneo, potremmo dire che “essere cristiano è diventare uomo in verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo” (Denis Vasse). Anche Dietrich Bonhoeffer si sofferma su questa essenzializzazione dell’esperienza cristiana:
Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo.
Ora, Il fondamento evangelico dell’umanità di Gesù, così come l’abbiamo esaminato seppure in maniera parziale e selettiva in queste riflessioni, ci chiede di mobilitare queste energie e risorse: intelligenza, immaginazione, creatività, coraggio. Risorse che caratterizzano l’agire di Gesù e ne mostrano la grande libertà. Il coraggio di andare controcorrente, l’immaginazione che lo porta a discernere la presenza di Dio nel quotidiano, la creatività nell’interpretare la tradizione ricevuta dandovi nuova profondità e vitalità, l’intelligenza delle persone e delle situazioni. Il tutto, nella semplice e inaggirabile convinzione espressa da Lattanzio nel III sec. d. C. che è alla base di un umanesimo universalista: “Il principale vincolo che unisce gli uomini fra loro è l’umanità”
Il video dell'intero convegno si trova a questo link https://www.youtube.com/watch?v=EmBgFRFzGYU.