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Alessandro D’Avenia "FAME D’ARIA – Ritratto degli adolescenti di oggi senza piagnistei"

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Nel pomeriggio del Natale scorso sette ragazzi sono fuggiti dal carcere minorile Beccaria di Milano. Infilandosi in un passaggio dei lavori in corso nella struttura, hanno improvvisato la fuga sul momento. Un’evasione naïf, infatti in poche ore li hanno ritrovati tutti. Dove? A casa delle famiglie a festeggiare il Natale, al parco o sul divano con gli amici... non certo luoghi di latitanza preparati da una rete organizzata. È la scena icastica per raccontare i ragazzi di oggi, perché anche quelli che vivono “fuori” si sentono “dentro”: la realtà assomiglia a una prigione di narrazioni contraddittorie e disperanti, da cui, se hanno ancora un po’ di fame d’aria, tentano di fuggire in cerca di legami capaci di farli sentire “parte” della vita e di avere una “parte” nella vita.
Da anni si parla di emergenza educativa usando il sostantivo per giustificare infinite analisi che rimangono inefficaci sino a che non restituiamo alla parola “emergenza” il suo significato: ciò che affiora dall’indistinto dell’abitudine e degli schemi rassicuranti, ciò che diventa talmente evidente che non si può più ignorare, ciò contro cui si va a sbattere.

Causa ed effetto

L’emergenza educativa è l’unico luogo reale per poter oggi educare: non è paradossale che nell’epoca di maggior produzione nella storia umana di sussidi educativi si faccia così fatica a educare? Il punto è allora altrove: non guardiamo l’emergenza, che è la spinta di qualcuno che vuole nascere, perché la vita di prima non basta più. E che cosa emerge? Una fragilità di cui la pandemia è stata un acceleratore e non la causa, una fragilità dovuta a due povertà più antiche: relazioni buone e cultura della vita (che ispira destini e vocazioni, da non confondere con il dilagare delle retoriche della vita, ideologie che si illudono di far cultura, ma in realtà propongono/impongono solo comportamenti).


IL 52 % DEI GIOVANI FRA 14 E 19 ANNI DICHIARANO ELEVATA SODDISFAZIONE PER LA LORO VITA NEL 2021. E’ L’UNICA FASCIA DI ETA’ IN CALO RISPETTO AL 2020 (QUANDO ERA IL 55%)

Da queste povertà dipende la mancanza di speranza sul futuro e quindi la paralisi sul presente, resa possibile dalla dolcezza anestetizzante dell’eterno presente dei social, che ci fanno dimenticare di avere un corpo per vivere, amare, soffrire, crescere, offrendoci una vita “schermata”, disincarnata, e quindi insipida. Ma noi più simili a una pianta che alle macchine a cui vogliamo assomigliare, se non apparteniamo, se non abbiamo terra, se non siamo curati, se non affrontiamo le stagioni, non produciamo lo stelo, non riceviamo il nostro destino, venire alla luce, e non possiamo dar frutto.


Polvere di nulla

Nel mio dialetto quando non si conosce una persona, si chiede in giro: «A chi appartiene?». Il cappellano del carcere da cui sono fuggiti i ragazzi a Natale, don Claudio Burgio, che ha fondato una comunità (Kayros) per il loro recupero (quello che oggi spesso manca è la “comunità ristretta” che offre appartenenza e cultura della vita), ha raccontato che a differenza di quelli di qualche anno fa, gli attuali minorenni carcerati delinquono quasi per caso o per noia, non sanno chi sono, hanno bisogno di ansiolitici e antidepressivi, in balia della loro emotività, il sé non è neanche liquido, è un pulviscolo emotivo, polvere di nulla, altro che stelle. Molti si aggrappano al rap o lo producono loro stessi, un genere musicale che, con le sue sonorità convulse e provocatorie, mette in scena la ricerca tutta adolescenziale della propria forma. Il rap è la musica di un carcerato a cui non resta che odiare, se ne ha ancora la forza, la vita-prigione in cui è finito. Nella canzone significativamente intitolata, come un foto generazionale, Tutti hanno paura , il rapper Ernia canta infatti: «Verrà la notte su di me/ E nell’ombra io cercherò la via/ Stringimi e poi resta con me/ Oramai, oramai/ Tutti hanno paura, sai/ Di quello che sarà/ Certezze io non ho/ Non so più difendermi/ Troverò una via/ Per uscire da me/ Senza più difendermi».

8,9% DELLE 14-17ENNI E’ POCO O PER NULLA SODDISFATTA DELLE RELAZIONI FAMIGLIARI, A FRONTE DEL 5,1% DEI MASCHI DELLA STESSA ETA’. NELLE RELAZIONI DI AMICIZIA L’INSODDISFAZIONE RAGGIUNGE IL 16,1% FRA LE RAGAZZE, TRE PUNTI IN PIU’ DEI COETANEI

Una preghiera di essere salvati, appartenendo a qualcuno, dalla propria selva oscura, dove conduce la paura di non esistere o di non voler più esistere dentro se stessi in giornate in cui il dolore, un misto di noia e ansia, dura quasi 24 ore. Si spera di poter evadere dal carcere (elevato) a vita e di non dover più “difendersi”, cioè non essere sempre corazzati contro tutto e tutti pur di esistere, divorati ora dall’ansia indotta da standard irraggiungibili ora dalla noia dei soliti surrogati di esistenza (possesso, potere e piacere) offerti dal successo, scambiato per felicità. Invece di poter essere, avere una vita autentica e sempre nuova, si oscilla tra i due personaggi intuiti da Italo Calvino come nostri antenati: Agilulfo, il cavaliere tutto armatura ma senza corpo, e il suo scudiero Gurdulù, tutto corpo ma nessuna consapevolezza di sé.


Darsi un nome

L’emergenza educativa è innanzitutto povertà di appartenenza (qualità delle relazioni). Chi non appartiene a nessuno non può poi essere per nessuno, il vuoto dell’origine impedisce di essere originali, senza radici non può maturare il frutto che solo noi possiamo dare (le dipendenze sono una risposta all’inappartenenza: quando non si appartiene a qualcuno non resta che appartenere a qualcosa). Ma chi può rimanere in piedi se deve lottare con le vertigini date dal vuoto di una vita senza fondamento? Ulisse, di fronte ai mostri della vita, poteva salvarsi dicendosi Nessuno, perché sapeva chi era. Qui ci sono dei nessuno che devono lottare fino a sfinirsi per darsi un nome, un nome che non hanno ricevuto e cercano di procurarsi con energie che non bastano mai. O sei self made , l’uomo/donna che “si fa da solo” (l’ambiguità lessicale con l’uso di sostanze è tragicamente ironica) o sei hikikomorichiuso in camera e impaurito dall’esistenza. Ernia lo riassume così: «Alcuni adolescenti giocano a far la paranza/ Al polo opposto altri non escono dalla stanza/ Il clima, il virus, la guerra fredda che si riscalda/ Stephen King in confronto ha scritto solo libri per l’infanzia/ Non vedo ‘sto futuro rose e fiori/ Salvate almeno i bimbi dai genitori”» Uno scenario horror in cui chi ti ha messo al mondo è colpevole di averlo fatto, e non resta che la violenza o la fuga. La canzone si chiude con una carneficina: «A breve sarò anch’io fuori dai venti/ I grandi mi tengon sotto, i piccoli crescon svelti/ Dovrei donare ai primi la fine che fa Saturno/ Ed ingoiare i secondi per rimandare il mio turno/ È forte perché forte è la vita, ed è spaventosa/ Ognuno se non le ha, lotta con le armi che trova/ Sono solo un middle child che non riposa/ Che non sa che scelte fare perché tutti hanno paura di qualcosa». Uccidere Saturno, gli adulti, e diventare Saturno, divorando i nuovi, pur di rimanere in scena: fare deserto, farsi da soli, farsi qualcuno, tanto la vita non è che un mostro che non dà tregua alla paura e alla rabbia.


Qualcosa che manca

Il quadro potrebbe sembrare cupo, ma ho cercato di narrare “l’emergenza in purezza”, cioè dove è più “emergente”: gli adolescenti in fuga dal carcere per cercare il Natale e la lingua della paura e della rabbia, il rap. Ciò che “emerge” è, come dice il titolo di un’altra canzone dello stesso disco di Ernia, Qualcosa che manca , e che cosa è? «Cerco qualcosa di grande, qualcosa che resti». Ecco il punto: abbiamo smesso di dare qualcosa di grande, una visione di mondo appassionante, una cultura della vita, e abbiamo smesso di dare qualcosa, anzi di essere qualcuno, che resta. Tutto si consuma, perché tutto deve essere consumabile. Eppure il disco del rapper si intitola Io non ho paura : come fa a non averne? La strategia di Ernia è un doping esistenziale che però non tutti possono permettersi: «Prove di coraggio tolgono all’amore i forse/ Più che il salto nel vuoto, è il prendere la rincorsa./ Io non ho paura, è un modo per farsi forza».

9,5% GLI STUDENTI CHE NEL 2021 HANNO CONCLUSO LA SCUOLA SUPERIORE CON COMPETENZE DI BASE INADEGUATE

Ma non basta, non basta mai. Ripetersi di non aver paura è retorica o illusione, come il tentativo del barone di Münchausen di salvarsi dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli. Dall’assenza di fondamento ci tira fuori solo un altro che ha i piedi “piantati” sulla terra, qualcuno a cui appartenere, qualcosa che resta. Solo così il sintomo è già cura, la domanda è già risposta, l’emergenza è approdo. E l’approdo è l’adulto a cui viene urlato: «Dimmi perché sono nato, dimmi come nascere ancora e aiutami a farlo». Insomma quello che serve è che le agenzie educative (famiglia e scuola innanzi tutto) facciano sentire “figli” questi “orfani” che hanno tutto per vivere tranne che il perché farlo, tanto da poter dire nell’età fatta a questo scopo: «Io sono nato per questo, questo è quello che sono venuto a portare al mondo, questo è ciò che solo io posso essere e fare». Il coraggio di esistere lo ha solo chi tiene aperte le due direzioni della vita: da e per. Solo se sono “da” qualcuno, posso essere “per” qualcuno. Direzioni sbarrate dal consumismo, dal nichilismo, dall’individualismo: quel combinato virale che chiamo il CONIND dell’anima.


Prigionieri della paura

Una volta un bambino orfano venne cacciato da scuola per il suo comportamento ingestibile. Tutti si raccolsero per rendere pubblica l’espulsione. La maestra di un’altra classe, Marija Judina, una delle più grandi pianiste russe del ‘900, vedendo la scena, si mise a piangere per l’umiliazione inferta dagli adulti a un bambino che, quando la vide in lacrime, le corse incontro, abbracciandola e promettendole che sarebbe stato buono «per sempre». Gli fu data un’ultima possibilità. Nei giorni successivi rimase sempre attaccato a quella maestra e il suo cambiamento fu repentino e totale, tanto che la donna gli chiese perché non lo avesse fatto prima. Il bambino rispose: «Nessuno aveva mai pianto sulla mia vita». La parola “cattivo” viene dal latino captivus , che significava prigioniero, cattivo è il prigioniero della paura di non valere nulla, di non esistere per nessuno, invece “liberi” in latino erano i figli, coloro che potevano ricevere l’eredità. È libero solo chi appartiene, chi diventa figlio di qualcuno. Questa generazione è fragile perché non appartiene, sono ragazzi generati biologicamente e materialmente ma non esistenzialmente e culturalmente, la loro vita non vale per sé stessa, serve a soddisfare i desideri di altri: oggetti di aspettative (carriera, prestazioni, risorse umane) e non soggetti di possibilità (destini inediti, doni per il mondo).

Il senso del limite

Una volta don Claudio ha chiesto il nome a uno dei nuovi ospiti del carcere Beccaria, che gli ha risposto: «Cazzi miei». Da quel giorno il cappellano ha cominciato a chiamarlo proprio così, finché quel ragazzo ha iniziato a fidarsi di lui e gli ha chiesto scusa per quella risposta, precisando: «Volevo capire se te ne fregasse veramente di me». Mi viene in mente il professore di religione del mio liceo, don Pino Puglisi, di cui quest’anno ricorre il trentesimo dell’assassinio mafioso. Quando, durante il processo, chiesero al killer, divenuto collaboratore di giustizia, perché avessero deciso di ucciderlo, rispose: «Si portava i picciriddi cu iddu (portava i bambini con lui)», una pericolosissima minaccia per il meccanismo di potere mafioso. I bambini, attraverso il gioco, la bellezza, lo studio e gli amici, facevano esperienza di una vita più attraente, e trovavano la forza di “liberarsi” dal padrino, perché erano diventati “figli” di un padre, non “picciotti” ma “figli”. Solo chi appartiene si può sporgere con coraggio sulla vita, solo chi riceve vita ha vita da fare. Per questo il mio professore fu ucciso, e non conosco altra strada educativa che quella di far sentire amati, dove il verbo amare non è un’emozione ma l’azione creativa di chi si impegna a far fiorire la vita di un altro. Il dolore che ci provoca questa generazione è dolore di parto, l’occasione per nascere noi stessi prima che far nascere loro, perché solo l’essere educa, cioè tira fuori: fa nascere. Se un ragazzo non legge ci si può chiedere quanti libri gli abbiamo letto, raccontato, o quanti ce ne siano sul nostro comodino e sulla nostra bocca. E così anche nella vita: i ragazzi sono chirurgici nel chiederci conto, con le loro provocazioni o storture, dell’autenticità della nostra vita. Ci lamentiamo dell’uso che fanno dei cellulari, e siamo noi che glieli abbiamo regalati quando erano bambini o che ne facciamo esattamente lo stesso uso. Non esiste l’educatore perfetto, ma solo l’educatore che usa come risorsa creativa “l’emergenza”, senza lasciarsi ingabbiare dal senso di colpa, che non è mai creativo ma punitivo. Creativo è solo il senso del limite: quando lo sperimentiamo siamo infatti invitati dalla vita stessa a trovare una soluzione inedita e soprattutto a chiedere aiuto.

Fame d’aria

Di recente lo scrittore Daniele Mencarelli ha scritto un romanzo dal titolo Fame d’aria , quella fame che provano i ragazzi rinchiusi nella vita-carcere, anche se apparentemente sembrano avere tutte le libertà e le sicurezze, come il protagonista di The Truman Show . In questo libro è un padre a esser salvato dal figlio, e non per la solita stucchevole retorica dei giovani che salveranno gli adulti, del nuovo che è buono solo perché è nuovo. No, il padre è salvato dal figlio perché il figlio è malato: è il limite, è l’emergenza d’amore che salva. Il padre, con l’aiuto di altri che non si aspettava, impara a fare ciò che non sapeva o non aveva la forza di fare: amare. Questo è quello che l’emergenza educativa chiede. Se vogliamo una vita nuova, dobbiamo indirizzare le energie che dedichiamo ad analisi e sensi di colpa, a far venire del tutto alla luce questa vita “emergente” e quindi “nascente”: offrire tempo, presenza, cultura a ognuno di questi orfani, perché diventino figli, cioè liberi, capaci di ricevere in eredità un destino per trasformarlo nella loro unica e irripetibile destinazione. I ragazzi di oggi non sono né migliori né peggiori di quelli di ieri, e allo stesso modo gli adulti. Semplicemente là dove gli adulti decidono di esserci, in corpo e spirito, lì i ragazzi fioriscono, perché, come ogni germoglio curato, hanno trovato terra in cui metter radici e nutrirsi di vita buona. Il resto lo farà l’energia che loro stessi hanno, e la luce, tutta quella luce che c’è fuori di prigione. Fuori dagli schemi, fuori dagli schermi. Ma noi siamo dentro o fuori?


Alessandro D'Avenia


Fonte: Corriere/Sette

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