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Elisa Zamboni "Marta e Maria: un’unica circolarità d’amore" prima parte

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Week-end di spiritualità 
Monastero di Bose 17-18 settembre 2022 

Meditazione di Elisa Zamboni 
MARTA E MARIA: UN’UNICA CIRCOLARITÁ DI AMORE Prima parte 

MARTA, MARTA!

Mi sono basata sulle suggestioni e sui suggerimenti che, attraverso la lettera del vostro vescovo e attraverso il documento che la Conferenza episcopale italiana ha preparato per questa seconda fase del Sinodo che la chiesa italiana sta vivendo, vi sono arrivati. “I cantieri di Betania” e “CAMMINARE INSIEME PER SERVIRE LA VITA DOVE LA VITA ACCADE”. Da entrambi i testi avete l’invito a rivolgere lo sguardo a un’icona particolare contenuta nella narrazione evangelica. Un’originale del Vangelo secondo Luca, l’immagine di due sorelle che accolgono Gesù. Marta e Maria, due donne, sorelle, che accolgono.

Marta e Maria sono due personaggi del vangelo che forse già conosciamo, sono “famose” tra i personaggi biblici, credo però che abbiano ancora tanto da comunicare alle nostre vite di uomini e donne, battezzati, discepoli e discepole del Signore. Per questo vi propongo un piccolo percorso in due momenti: un primo momento, soffermandoci sulla prima delle due sorelle, e successivamente sulla seconda, nella relazione tra loro e con l’ospite che accolgono.

 “Mentre erano in cammino” (v. 38). In genere si parla di Marta e Maria riferendoci a questa pericope evangelica propria dell’evangelista Luca, ma non dobbiamo scordare che incontriamo le due sorelle anche nella redazione del Vangelo secondo Giovanni, in un contesto diverso, e in quel caso veniamo a conoscenza che le due sorelle non sono sole, c’è anche un terzo fratello, Lazzaro (cf. Gv 11,1-41). Mi limito qui alla pericope lucana. Gesù è quindi sulla strada, come per gran parte della sua vita, egli è “l’uomo che cammina”, scrive Christian Bobin.

Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato . 1 

Gesù è in cammino con qualcuno, non è solo, su una strada che egli ha scelto di percorrere, “egli ha preso la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (Lc 9,51), ci dice l’evangelista Luca nel capitolo precedente, è il momento in cui Gesù sceglie e si avvia con risolutezza verso la città in cui si compiranno gli eventi della salvezza con la sua passione e morte. Gesù cammina ed entra nei villaggi, e invia e invita i suoi discepoli di ieri e di oggi a “entrare nei villaggi”. E in questo suo camminare viene accolto, come vedremo accadrà nel nostro brano, o non accolto, come accade nel villaggio dei samaritani (cf. Lc 9,53): questo spaventa i suoi discepoli, e spesso spaventa noi, perchè la non accoglienza riservata a Gesù è il destino che egli annuncia anche a chi sceglie di seguirlo.

Oltre a collocare il nostro brano in stretta connessione con il contesto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, questo primo versetto richiama anche il contesto ecclesiale in cui stiamo vivendo, quello di un sinodo, che è cammino, è un “camminare con”, un essere sulla strada. Papa Francesco, nel discorso di apertura del sinodo ha approprio ricordato che il sinodo è un essere su “tante strade diverse, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, guidati dallo Spirito che ci darà la grazia di andare avanti insieme” . 2   

Ma in questo cammino avviene qualcosa di strano: se il cammino è compiuto “con”: Gesù è assieme ai discepoli, essi poi non avranno alcun ruolo, è infatti uno solo che entra nel villaggio, Gesù rimane solo.
Se c’è continuità nel camminare di Gesù, oggi Gesù scegli, puntualmente, di entrare in questo villaggio. Non ci viene detto perchè ma Gesù entra, senza annunciarsi, giunge nelle nostre comunità.

Se infatti procediamo un po’ nella lettura leggiamo che “una donna di nome Marta lo ospitò” (v. 38).
Non si dice che Marta lo accolga in casa, in realtà qui Luca non ci dice né che si tratta di Betania e tantomeno che si tratta di una casa, si parla invece del suo gesto, del suo atteggiamento ospitale. Quasi a voler intendere che Marta lo accoglie direttamente in sé, è lei, con il suo corpo, con il suo cuore, con la sua mente che si fa casa per questo viandante, che in questo modo diventa ospite. A cambiare la situazione di Gesù infatti non è tanto e solo la novità del suo entrare ma il fatto che qualcuno lo accolga.
Con l’accoglienza possiamo trasformare, accogliere ha il potere di modificare l’essere dell’altro, la sua esistenza di migrante può divenire un’esistenza che si ferma, che si radica e trova uno spazio proprio.
Perchè, in fondo, non è questo che ciascuno di noi cerca? Un suo spazio, un luogo in cui poter essere?

In cammino su questa strada con la meta precisa, Gerusalemme, ora Gesù fa un’interruzione e si lascia fermare, ora la sua meta è il gratuito incontro con le due donne protagoniste della nostra pericope. Ha un effetto novità, di cambiamento questo suo entrare in un villaggio, ma possiamo davvero considerarla una deviazione per Gesù? Non è forse proprio questo il suo cammino, vivere come uomo tra gli esseri umani, dono per quanti incontra, fino al dono ultimo della sua vita?

La sua visita non ha un obiettivo, non entra in quella casa perché deve dare un insegnamento, non entra per guarire o per mangiare. La sua visita è gratuita, è la visita di un amico che desidera godere dell’amicizia. “Il Dio di Israele che ha visitato il suo popolo” (cf. Lc 1,68.78), come cantiamo nel Benedictus, accade nella vita di queste due donne in Gesù. Gesù può accadere nelle nostre vite e dipende da noi il suo non essere più viandante ma ospite. Come lo è stato per Marta e Maria.

Dio si comunica alla e nella storia che è libera, in divenire. Non è fissata, statica. Per noi che ci diciamo suoi discepoli questo significa che non basta imparare ed enunciare delle verità monolitiche che soddisfino una conoscenza intellettuale, ma è nella storia, attraverso le prove e le crisi che l’essere umano deve attraversare che queste verità vengono alla luce, che emerge il senso.

E per Marta e Maria Dio si comunica nella visita inaspettata dell’uomo Gesù. Il Signore offre la sua visita e subito essa è accolta da queste due donne. Due donne libere, sole, e autonome nell’aprire la loro casa all’ospite e amico: un’immagine abbastanza insolita nell’ambiente storico di Gesù, anche se questa autonomia sembra caratterizzare tutte le altre discepole di cui ci parla il vangelo. Fanno spazio nella loro intimità, nell’intimità della loro casa e nella relazione che le lega: sono due sorelle. Marta infatti ci viene subito presentata come colei che accoglie e di cui è sorella Maria (cf. v. 39). Sono definite da questo loro rapporto di sororità, ed è proprio come sorelle che aprono il loro spazio comune all’altro. Contrapposte, in concorrenza? Questa lettura fatta nel corso dei secoli, a partire dalle nostre categorie, dalle dicotomie attraverso cui leggiamo il mondo e la realtà, non ci ha permesso, spesso, di sostare sulla buona notizia contenuta in questa pagina evangelica. Per lasciarsi provocare a fondo da questa pagina evangelica occorre affrancarsi il più possibile da quell’antitesi tradizionale nella quale sono state confinate queste due donne: vita attiva e vita contemplativa, tra preghiera e impegno concreto. Questa contrapposizione non appartiene all’intento dell’evangelista, appartiene a un’interpretazione tarda ed è estranea alla mentalità biblica. Marta e Maria non si escludono a vicenda ma sono accentuazioni di un comune e unico progetto di esistenza, sono relazione che esiste nell’unità delle differenze. Lo riassume bene un apoftegma dei padri del deserto di abba Silvano:

Un fratello venne da abba Silvano al monte Sinai e, vedendo i fratelli che lavoravano, disse all’anziano: “Non lavorate per un pane che perisce, ma per quello che dura per la vita eterna. Maria, infatti, ha scelto la parte buona”. L’anziano non rispose nulla, ma disse semplicemente al suo discepolo Zaccaria: “Da’ un libro a questo fratello, e conducilo in una cella vuota”. Quando fu l’ora nona, il fratello guardava nella strada se qualcuno venisse a invitarlo a pranzo; ma non venne nessuno. Allora, poiché nessuno giungeva e la fame si faceva lancinante, il fratello andò a trovare l’anziano Silvano e gli chiese: “I fratelli non hanno mangiato oggi?”, Silvano gli rispose: “Sì. Ma tu sei un uomo spirituale e non hai bisogno di questo pane. Noi invece siamo esseri carnali, vogliamo mangiare, ed è per questo che lavoriamo. Ma tu hai scelto ‘la parte buona’ e leggi e preghi tutto il giorno, non vuoi mangiare un pane carnale”. Quando il fratello intese questo da Silvano, cadde ai suoi piedi e disse: “Perdonami abba”. L’anziano gli disse: “Anche Maria ha assolutamente bisogno di Marta: infatti, grazie a Marta anche Maria viene lodata”.

La sapienza che nasce dalla prassi di questi primi monaci del deserto esprime bene l’originale legame nel quale dobbiamo leggere queste due figure evangeliche. Le due sorelle accolgono in due modi diversi ma la casa che accoglie è una, un’unità, un’unica circolazione di amore, vissuta nella loro sororità, che non teme di aprirsi alla presenza di un altro.

In questo intrecciarsi di relazioni sorge tuttavia una domanda: chi ospita chi in questa casa di Betania?
Sono certamente le due sorelle ad aprire la porta di casa, ma chi è l’ospite, l’hospes in quella casa? Teniamo questa domanda viva mentre rileggiamo assieme questi versetti.
All’ingresso di Gesù nel villaggio corrisponde un’azione successiva di cui non è lui il soggetto. Al suo entrare corrisponde l’accoglienza riservatagli da una donna. Una donna di cui ci viene detto anche il nome, Marta, che significa “signora”. L’evangelista così la fa uscire dall’anonimato, le dona un’identità, un volto, e tuttavia il rilievo più importante è indicato dal verbo che precisa l’azione specifica: “lo ospitò”. Il verbo greco usato indica la calorosa accoglienza dell’ospite nella propria casa, in un lessico del Nuovo Testamento ho trovato questa icastica traduzione: “Ricevere sotto la propria protezione, sotto il proprio tetto, accogliere un ospite”. Ricordiamo ciò che ho accennato in precedenza: qui Luca non precisa che Marta accoglie in casa, anche se è sottinteso. Ma credo possiamo intendere questa ospitale accoglienza come un farci noi casa, tetto, protezione per l’altro che ci visita. L’azione di questa donna non può non interrogare la nostra prassi di incontro e di accoglienza, parole guida del prossimo anno sinodale. Cosa avviene in me quando incontro e accolgo l’altro? Che tipo di ospitalità offro? L’accoglienza di Marta è ancora più significativa perchè sembra contrapporsi alla non accoglienza dei samaritani in Lc 9,52-56.

Marta che ospita è pienamente donna del suo popolo, non dobbiamo dimenticare quanto l’ospite sia importante nelle tradizioni dell’oriente e anche tutto l’Antico Testamento ci dà testimonianza di questo.
Potremmo infatti dire che Marta qui risuona dei rimandi di una pagina di Genesi che è paradigmatica dell’ospitalità vissuta nel popolo di Israele. L’episodio che troviamo in Genesi 18,1-16, la visita alla querce di Madre, quando il Signore visita Abramo. Se rileggiamo il brano possiamo trovare risonanze con i nostri versetti di oggi: mi limito a ricordarne alcuni. Vi è il “correre” (Gen 18,2) di Abramo appena vede i tre uomini, e li prega “di fermarsi dal suo servo”. Vi è il suo “andare in fretta” (v. 6), ordina anche a Sara e al suo servo di fare in fretta (cf. vv. 6.7), e poi egli stesso “corre e prepara” (cf. v. 7), e vi è infine il suo “stare in piedi presso di loro” (cf. v. 8), mentre quelli mangiavano. Ma troviamo nell’Antico Testamento molte altre narrazioni di accoglienza ospitale: Elia e la vedova di Sarepta (cf. Re 17,7-16); Eliseo e la sunammita (cf.2Re 4,8-11),… Marta si sta comportando nel modo migliore, sta offrendo ospitalità come prescritto dai costumi sociali del tempo e dalla cultura del suo ambiente.

Ma l’evangelista ci offre anche altri elementi relativi alla sua ospitalità. Dopo averci presentato anche l’altra sorella, al versetto 39, torna a parlare di Marta. Il testo ci offre una seconda ondata di informazioni e fin dall’inizio notiamo che se prima le due sorelle erano definite dalla relazione, dallo stesso status di sorelle, ora vi è la presenza di un “invece” che dice che è creata una distanza, una sorta di defamiliarizzazione e straniamento. “Marta invece” (v. 40a), era “occupata, distolta, sovraccaricata” ma anche “distolta, distratta”. Marta è occupata a servire. La sua ospitale accoglienza tuttavia è degenerata, è addirittura divenuta distrazione: la sua ospitalità diventa indiscreta e inospitale nei confronti di Gesù. Volendo esprime la migliore ospitalità, essendo eccessivamente preoccupata, in fondo si dimentica di Gesù. È strattonata attorno al “servizio” che desidera offrire al suo ospite. Per Marta questa diaconia consiste nel prendersi cura di Gesù in tutti i suoi bisogni, mettendo a sua disposizione la propria casa, i propri mezzi e tutto ciò che è necessario all’ospitalità.

Il servizio, la diaconia però, dopo l’ultima cena, dopo la vita, passione e morte di Gesù, è segnato da una novità dalla quale non si può più prescindere: quella portata da Gesù. Lui che si è fatto servo, che ha scelto di essere servo e chi, come lui, vive questa diaconia, la sceglie e la assume non da schiavo ma da figlio. È Gesù il modello di ogni diaconia, il Figlio dell’uomo che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,16), lui che sta “in mezzo a noi come colui che serve” (Lc 22,27).

Marta prende l’iniziativa di accogliere Gesù, lo ospita in sé, essa ama molto Gesù, ma il suo amore si esprime con il moltiplicarsi di servizi e preoccupandosi per questioni connesse alla vita materiale. Marta accoglie traducendo la sua ospitalità in gesti, in operatività, tende a fare qualcosa per lui, disperdendosi in “molti servizi”, che però non sono ancora “il servizio” di colui che si è fatto servo per noi. Il servizio che non è servitù ma che si può assumere solo una volta raggiunta la libertà.

Marta l’ha riconosciuto, accolto, amato e ora gli rivela anche la sua sofferenza e rivolge a lui il suo lamento: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire” (v. 40). Marta ha un’idea precisa su come si serve, forte di ciò che la consuetudine sociale prevede, e quindi osa una parola verso il suo ospite. Una parola di lamentela, essa rimane attaccata alle sue idee, al suo pensiero su come si deve accogliere, e tutte queste diventano pretese nei confronti di ciò che dovrebbe fare sua sorella. Marta è amica dell’uomo Gesù, appartiene già alla sua comunità, ma forse l’entusiasmo per Cristo, che le ha permesso di accoglierlo con tanti servizi, non basta a liberarla dai suoi vecchi schemi, modi e modelli di relazione che non permettono l’incontro totale. Risulta frammentata tra “le tante cose”, completamente assorbita dal lavoro, e probabilmente questa frammentazione la vive anche interiormente. Il suo cuore è distratto tra i molti servizi, ciò che lo abita è la preoccupazione - le dirà Gesù - e non tanto l’essere serva.

La sottolineatura di quella solitudine in cui sostiene di essere stata lasciata, e la postura che essa prende: “si fece avanti” (v. 40), esprimono bene i sentimenti di Marta. Si sente abbandonata, “lasciata sola a servire”, e in piedi, in una posizione predominante rispetto alla sorella e al Kyrios che sono seduti, non guarda, non parla alla sorella, ma si rivolge in modo brusco al Signore dandogli quasi un ordine.
Marta in piedi, Maria seduta, sembrano indicare non solo un diverso atteggiamento delle due sorelle ma anche un certa incomunicabilità tra loro. Essendo su due posizioni diverse non si guardano negli occhi, c’è distanza, e Marta rimane schiava del suo sguardo, rimane aggrappata alle sue idee e scivola in ciò che tutti noi conosciamo molto bene: il giudizio. Giudica la sorella. Perchè?

Perchè sta accogliendo in un modo diverso, una modalità che Marta non capisce e quindi giudica.
Accogliente con il viandante non riesce ad accogliere la sorella nella sua diversità. E in questo cerca un alleato nel Signore: parlare a un terzo e non direttamente al fratello o alla sorella è già prendere distanza ed esprimere un giudizio. Cerca l’avvallo del Signore, convinta che lui condivida il suo punto di vista. Richiama la sua attenzione e si rivolge a lui con un imperativo: “Non ti importa … dille che mi aiuti” (v. 40). L’agitazione, le preoccupazione per i molti servizi diviene per Marta un peso, una catena che la acceca: le nostre idee e convinzioni rischiano di renderci cechi. Marta rivolge uno sguardo di indignazione verso la sorella e quindi non riesce a vedere e pensa di non essere essa stessa guardata, come se nessuno, sorella o Gesù, si interessasse del suo lavoro. 

Verso Marta va spesso la nostra simpatia perchè la sua esperienza è stata, è o sarà, un giorno o l’altro, anche la nostra. Quando ci sentiamo persone sulle quali tutto poggia, dedite, a ciò che fanno., disponibili. Ma anche persone per le quali gli altri sono indispensabili: perchè abbiamo bisogno dello sguardo e della comprensione degli altri. Marta è l’individuo che, in ciascuno di noi, esiste attraverso quello che fa e per quello che fa. Abbiamo tutti un’immagine di noi da difendere, un posto nella famiglia, nella società, nella comunità, nella chiesa, da occupare. E desideriamo che coloro che ci circondano accettino quel posto, accettino quell’immagine che abbiamo di noi o che vogliamo dare di noi. La sofferenza nasce evidentemente quando ciò che siamo o che vogliamo essere, ciò che facciamo o che diciamo, sembra incontrare l’indifferenza, il fastidio, il rifiuto. La domanda allora è: come vogliamo essere guardati e quindi come vogliamo essere amati?

Possiamo dire che Marta in fondo è libera, è libera di rivelare la sua verità profonda, di alzare la sua lamentela, il suo disappunto per essere lasciata sola proprio là dove lei ritiene sia importante esserci e fare. Non nasconde la sua irritazione, quell’irritazione che è come una catena e può trascinare reazioni che sfociano in conflitti. E Gesù la accoglie così, semplicemente chiamandola per nome. Gesù, di cui finora non abbiamo sentito la voce, ora, chiamato a “dire”, prende la parola anche con Marta.
Dobbiamo in realtà notare che la risposta a Marta è data dal Kyrios, dal Signore, è quindi una risposta alla comunità cristiana post-pasquale, e quindi anche a noi.

Gesù ha guardato Marta, ha visto la sua agitazione, la sua enorme generosità nei suoi confronti, è con lei in quell’affaccendarsi, Gesù vede tutte quelle donne che si prendono cura dell’umanità, nel corpo, che trasformano i doni della terra e del sole in cibo per quanti amano. Il Signore le vede e le chiama per nome. Gesù all’inizio ricorda a Marta l’essenziale, ciò che forse Marta ha dimenticato: il suo nome di figlia amata. Sembra quasi che egli voglia restituire unità a quell’identità frammentata che caratterizza Marta. Marta ha perso la direzione, il senso, e Gesù le ricorda chi è, le chiede di ascoltare perchè le deve parlare di lei. La ripetizione del nome due volte risuona di nuovo in noi come un’eco del passato, quando Dio chiama Abramo due volte: “Abramo, Abramo!” (Gen 22,11), nel momento in cui fermerà la sua mano dal sacrificare il figlio Isacco. Dio, come Gesù ora, chiama i figli per rassicurarli della sua presenza, del fatto che egli c’è, ci vede, e ci comunica parole che richiedono di essere ascoltate, richiedono attenzione. Agostino commenta questa pagina affermando che “La ripetizione del nome è forse un mezzo per suscitare in Marta una maggiore attenzione” . 3 

“Tu ti affanni e ti agiti per molte cose” (v. 41). La traduzione italiana non rende pienamente ragione dell’originale greco che è nella forma verbale passiva e ci rimanda con forza l’idea di essere in balia di forze esteriori che ci sconvolgono. Il verbo che Luca utilizza qui per “affannarsi” (merimao) è un verbo molto usato dall’evangelista Luca, e sempre con un’accezione negativa (cf. Lc 8,14; 21,34). Pochi capitoli dopo questi nostri versetti lo ritroviamo in quella che potremmo definire la risposta più adeguata a Marta.

Per questo io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi! Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? Se non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così bene l’erba nel campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede. E voi, non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta (Lc 12,22-31).

Marta, e noi con lei, si affanna perché non ricorda, non fa esercizio di ricordare e dimentica chi è e quanto vale agli occhi del Padre, dimentica che il Padre non vuole servi ma figli e figlie, dimentica che il suo nome è quello di figlia. Paolo lo ricorda nella sua lettera ai cristiani della Galazia: “Non sei più schiavo, ma figlio, e, se figlio, sei anche erede” (Gal 4,7).

Marta cercava la complicità di Gesù per richiamare Maria ai suoi doveri di donna che ospita e che quindi deve assicurare i servizi all’ospite, ma Gesù su questo non interviene. La sua risposta non si interessa del servizio in sé ma su come Marta l’ha assunto, sulla modalità. I “molti servizi” nei quali Marta era occupata, nelle parole di Gesù divengono le “molte cose” per cui lei è ansiosa e turbata. Gesù richiama Marta perchè conosce il danno che può provocare questo agitarsi per le molte cose, perchè questo le impedisce di accogliere il dono che il Signore, ospite a casa sua, le porta: la sua Parola, e il Regno che con lui avviene. È solo accogliendo primariamente questo dono, la sua Parola, che lo stesso servizio potrà essere plasmato e orientato.

La domanda che il Signore rimanda anche a noi oggi è se c’è ancora spazio per l’accoglienza quando siamo completamente distratti, assorbiti e messi in agitazione dalle cose da fare? Distrazione per il troppo, preoccupazioni anche giustificate rischiano di distrarci dall’essenziale: Gesù ci richiama con insistenza all’attenzione. Per questo ho scelto di concludere con alcune righe di un’autrice che sull’attenzione ha riflettuto molto. Scrive Simone Weil a proposito dell’attenzione:

Del resto non è solo l’amore di Dio che ha per sostanza l’attenzione. Della stessa sostanza è fatto l’amore per il prossimo … in questo mondo gli sventurati non hanno bisogno di altro che di uomini capaci di rivolgere loro la propria attenzione. Tale capacità di prestare attenzione a uno sventurato è cosa molto rara, molto difficile; è quasi un miracolo; è un miracolo. 4

1) Ch. Bobin, L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano 1998, p. 9. 
2) Francesco, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale. Discorso del santo padre Francesco, 9 ottobre 2021.
3 ) Agostino di Ippona, Sermo 103,3.
4) S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, pp. 199-200.

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