Emanuele Borsotti "Un Dio assetato"
La sete di Gesù in croce sembra rimandare, teologicamente, alla domanda aperta che il Cristo giovanneo poneva a Pietro:
“Il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò
berlo?”(Gv18,11). Vi è dunque nel Figlio la
sete di compiere la volontà del Padre e di
portare così a compimento la missione e
l’opera salvifica che gli è stata affidata.
Nel contempo, però, la condizione di arsura, alla quale Gesù dà voce, può essere letta alla luce della sua umanità. Percorrendo
il quarto vangelo constatiamo come la
sete stia all’inizio e alla fine della parabola terrena dell’esistenza di Cristo, che, pur
essendo il Signore e Maestro, non si vergogna di tendere la mano e mendicare un sorso d’acqua. Non si è vergognato di condividere questa fratellanza tra assetati, di
fare sua la nostra arsura e la nostra fatica,
di diventare carne di desiderio “in terra arida, assetato, senz’acqua” (Sal 63,2). In tal
modo il Cristo, quale icona del Dio invisibile, non ha tracciato sotto i nostri occhi i
contorni di una divinità chiusa in se stessa,
dotata di tutte le prerogative di un essere
perfettissimo, isolato al di fuori di qualsiasi
legame con l’alterità creata, ma ha raccontato la sete di Dio philànthropos, amico
degli uomini. Colui che è re (Gv 19,37)
non abdica alla sua umanità, resta abbarbicato alla sua storia di incarnazione, che
ne ha fatto una carne ferita, segnata dal bisogno di legami, di scambi, di interazioni, nel suo vivere e nel suo morire: la “Sorgente della vita” (Sal 35,10) viene a dissetarsi al pozzo della nostra umanità. Il Dio
che aveva creato l’uomo, la Parola eterna
del Padre, che si è rivestita della carne per
salvare la carne, L’Eterno illimitato che è
entrato nel divenire, nell’ora estrema della
sua esistenza, confessa la sua umanissima
sete e la sua sete di umanità, quasi che
Dio avesse bisogno dell’uomo. La Sorgente si è fatta sete: arsura di un Dio assetato
degli uomini.
L’esperienza umana dell’amicizia è illuminante per comprendere il
dinamismo del donarsi di
Dio stesso all’uomo: vi è
un’amicizia che è sinonimo di aiuto, sostegno, in
un legame caratterizzato
dalla circolarità del dono,
offerto e ricevuto; ma
c’è anche una maturità
dell’amicizia, in cui, l’altro ha la forza di mostrare
tutta la propria debolezza, in un fiorire dell’amore
che osa tendere la mano,
nella mendicità di una
domanda, di un’attesa. Spesso il dono è
un’esperienza difficile, ma ancora più difficile è vivere la libertà di esporsi nel proprio
bisogno, in una nudità che chiede il dono
dell’altro. Nella divina umanità di Cristo,
Dio chiede all’uomo di essere aiutato, gli
presenta la propria sete e attende il balsamo risanante della sua amicizia.
Si delinea così un movimento circolare del
dono: c’è, da una parte, il dono di Dio, radicato nell’ “in principio” della creazione,
affidata alle cure e alla custodia dell’uomo: un dono che si declina poi nell’autocomunicazione di Dio all’umanità, e questo dono è divenuto dono incarnato nel
Figlio che ci ha amato e ha consegnato se
stesso per noi.
Questa tradizio, questa catena di un dono
consegnato per amore dell’uomo, dall’amore del Padre per mezzo dell’amore del
Figlio, non si esaurisce in una sola direzione, a senso unico da Dio all’uomo; il dono
si iscrive in una relazione dialogica, che
non implica necessariamente accoglienza,
riconoscenza, accettazione e gratitudine.
È emblematico il fatto che il dono di Dio
“venne fra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”(Gv1,11). Di fronte al dono, la libertà del destinatario resta
libera anche di opporre il
suo rifiuto. È un privilegio
divino essere sempre l’amante, e non tanto l’amato, cioè essere colui che
ama con un amore preveniente, più di quanto sia
amato, e nonostante non
sia (ri)amato. Ma il dono
costituisce comunque un
appello, una pro-vocazione, una chiamata alla
risposta e, quindi, alla responsabilità: non a caso
l’umanità (e la chiesa), destinataria del
dono di Dio, è stata designata come sposa,
come figura sponsale, chiamata a dare la
sua risposta a colui che la ama. E la risposta che il Signore ardentemente desidera
da noi è innanzitutto che noi accogliamo
il suo amore e ci lasciamo attrarre da lui.
Il Cristo assetato e morente confessa lo
spessore carnale del bisogno e la profondità umana del desiderio. C’è dunque un
desiderio in Dio che attende la nostra risposta. E la nostra prima risposta è il nostro stare davanti a lui.
“Sapendo che ormai tutto era compiuto…” (Gv 19,28): quella parola riarsa, che
invoca dagli uomini qualche goccia che
spenga la sete, è detta nella consapevolezza di un compimento. Ora, la compiutezza della vita di Cristo e la
manifestazione completa
del suo amore vengono a
coincidere con la dichiarazione della sua sete. In Cristo abita tutta la pienezza
(Col 1,19), tale pienezza
però non lo circoscrive in
un isolamento irraggiungibile di una perfezione senza
scalfitture ma lo iscrive nei
confini dell’umano, della ferita, della mancanza, della vulnerabilità, della non autosufficienza. Nell’ora della croce, quando
forse la sua sete è ancora più lacerante di
quella provata al pozzo di Sicar, colui che
aveva nutrito e dissetato i suoi nell’ultima
cena, ora è lui che chiede di essere dissetato e accetta che qualcuno gli venga in
soccorso. È il cedere di Cristo alla propria
umanità, fino all’estremo, e nel contempo è il suo appello all’umanità dell’uomo
(Perché ho avuto sete e mi avete dato da
bere - Mt 25,35). Ma forse, riandando alle
parole del salmista, il Gesù morente sta
anche confessando il desiderio di essere
con il Padre (Ha sete di te l’anima mia -
Sal 63,2 ), pur nella consapevolezza che
a quella comunione potrà pervenire solo
bevendo il calice che il Padre gli ha dato.
“Vi era lì un vaso pieno di aceto; avvolta
perciò una spugna, imbevuta di aceto, su
un ramo di issopo, gliela accostarono alla
bocca” (Gv 19,29): mentre nel racconto
marciano Gesù aveva rifiutato il vino mescolato con mirra, secondo la narrazione
giovannea Gesù accoglie il sollievo che
può venirgli da quella bevanda rinfrescante, anzi si ha l’impressione che egli desideri ricevere quell’ultimo gesto di attenzione
umana, prima di abbandonarsi alla morte
e di proclamare il compimento. In qualche modo c’era in Cristo quasi un’attesa
di quell’estremo segno di
umanità nei suoi confronti,
un segno che inaugura la
compiutezza della sua vita:
è come un viatico che lo
accompagna nel momento
finale della sua autoconsegna e dell’abbandono in
Dio.
“Anche la carità crepuscolare di un gesto così debole,
come accostare dell’aceto a una bocca già
arsa dalla sofferenza, diventa motivo di speranza, restituendo ai nostri gesti più deboli
la loro grazia originale capace di trasformare la mancanza in un indizio di pienezza che
non ha più paura di cedere. Questo diventa,
in estremis, l’unico modo per amare: lasciarsi amare senza vergognarsi di cedere!
( Fr. Michael Davide)
Nella sete del Crocifisso si manifesta così
il volto di un Dio assetato, di un Dio desiderante, di un Dio che si abbevera alla
propria mancanza e vive della propria sete,
sino a morire.