Gianfranco Ravasi "Il segno di Giona"
Gianfranco Ravasi Jesus Aprile 2021
Questo mese si è aperto con la Pasqua del Signore. Come spiegheremo e come sanno già i nostri lettori che ben conoscono i Vangeli, il simbolo quasi obbligatorio da proporre per questo evento cristologico fondamentale è «il segno di Giona». Il profeta protagonista è realmente vissuto nell’VIII secolo a.C. nel regno settentrionale di Israele (2Re 14,25); ma il libretto che lo vede in azione è in realtà una parabola sapienziale posteriore, forse del V secolo a.C., destinata a respingere l’integralismo esclusivista che allora aleggiava nella comunità giudaica, sorta dopo l’esilio babilonese.
Il suo nome Giona, Yonah in ebraico, Yunus nell’arabo del Corano, letteralmente significa «colomba» (potremmo pensare al nostro cognome comune Colombo), anche se in realtà egli era più simile a un falco a causa della sua chiusura mentale, ostile com’era all’apertura verso i nemici, auspicata invece da Dio. La colomba, tra l’altro, era l’animale sacro alla dea Ishtar, il cui santuario più acclamato era situato proprio a Ninive, la capitale dell’Assiria, alla quale il profeta era stato inviato in missione dal Signore, città ritornata tristemente famosa in questi ultimi anni a causa delle devastazioni dei fondamentalisti del cosiddetto «Califfato» dell’Isis (l’antica Ninive si affacciava, infatti, sulla costa orientale del Tigri, proprio di fronte all’attuale Mosul). Il segno cuneiforme che indicava questa città, tradizionale nemica di Israele, era quello della casa e del pesce.
Proprio il pesce, come è noto, è nel cuore del racconto, trasformato dalla tradizione popolare in una balena, cui forse fa allusione il Pinocchio di Collodi. In realtà, il pesce mostruoso – si pensi al Leviatan del libro di Giobbe (40,25-41,26) – è un simbolo negativo, perché il mare incarna il caos acquatico che attenta alla terraferma, alla vita, e quindi è segno anche del giudizio divino. Il profeta, renitente alla chiamata divina che lo vorrebbe inviare a predicare proprio a Ninive, si imbarca su una nave diretta all’antipodo, cioè a Tarsis, forse l’attuale Gibilterra o la Sardegna (un’iscrizione con la parola Tarshish è stata rinvenuta a Nora-Pula presso Cagliari). Come si diceva, non manca neppure un pizzico d’ironia quando si descrive Giona, ignaro della tempesta che si è scatenata, mentre russa pacificamente; al contrario, i marinai pagani «pieni di timore verso il Signore, offrono sacrifici e voti» (1,16) perché plachi il fortunale marino.
La vicenda narrata dal libretto biblico vuole illustrare una tesi precisa, cara alla profezia post-esilica: è l’invito a spezzare il guscio dell’integralismo e a condividere l’universalismo della misericordia divina che abbraccia anche il tradizionale nemico e oppressore di Israele, l’Assiria idolatra e persecutrice. Giona controvoglia è costretto a predicare la conversione ai niniviti e con irritazione ne scopre l’esito positivo perché quei pagani si pentono e cambiano vita, mentre il profeta sperava in un’ostinazione che avrebbe scatenato il giudizio divino.
Infatti con irritazione egli vede che, dalla base fino al vertice dello Stato assiro, tutti scelgono di pentirsi e di digiunare, coinvolgendo antropomorficamente persino gli animali. Con ulteriore arroganza egli osa rinfacciare a Dio: «Signore, non era forse questo ciò che temevo quand’ero nel mio paese e per il quale m’ero affrettato a fuggire a Tarsis?». Con asprezza giunge, allora, fino al punto di criticare un Dio troppo «misericordioso e clemente, longanime e di grande amore, che si lascia impietosire dopo aver minacciato il giudizio» (4,2).
Alla fine, attraverso una parabola nella parabola, quella del ricino e del verme – che invitiamo a leggere in tutta la sua fragranza nel capitolo 4 del libro – il Signore interpella e ammonisce questo profeta ottuso e chiuso nelle sue idee (e tutti coloro che sono simili a lui) con un interrogativo che suggella il racconto: «Giona, tu ti dai pena per questa pianta di ricino [seccata e che non ti ripara più dal caldo]… E io non dovrei aver pietà di Ninive, la grande città, nella quale vi sono più di centoventimila abitanti… e una grande quantità di animali?» (4,10-11).
Questo interrogativo finale (Giona è l’unico libro biblico che finisce con una domanda rivolta a interpellare il lettore) ha come segno proprio quell’albero di qiqayôn, forse il ricino, alla cui ombra il profeta si era riparato e fatto inaridire da un verme che lo rodeva, così da lasciar esposto Giona al sole incandescente e al vento caldo del deserto. Ma il messaggio è tutto nello squilibrio tra il risentimento meschino e gretto del profeta, preoccupato solo di tutelare il suo benessere e le sue idee, e la generosità illimitata dell’amore divino.
A questo punto dobbiamo spiegare le ragioni del successo cristiano di un’opera che è stata riletta secondo una chiave interpretativa evangelica inedita che ha reso popolare Giona nella storia dell’arte, a partire dalle catacombe romane (ad esempio, San Callisto), dai bassorilievi dei sarcofagi paleocristiani e dai mirabili mosaici di Aquileia. Due sono gli evangelisti che ci offrono la rilettura da parte di Gesù della vicenda di Giona, Matteo (12,38-41) e Luca (11,29-32).
Leggiamo innanzitutto il testo matteano. «Allora alcuni scribi e farisei gli dissero: “Maestro, da te vogliamo vedere un segno”. Ed egli rispose loro: “Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona!”».
Il cuore dell’interpretazione di Gesù è nella frase: «Come Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (12,40). Al di là della formula «tre giorni e tre notti» che è assunta solo per esaltare il parallelo col passo del libro di Giona (2,1), è evidente l’applicazione del «segno di Giona» alla sepoltura e alla risurrezione di Cristo.
Luca, invece, nel passo parallelo punta piuttosto sulla comparazione tra la predicazione di Gesù e quella di Giona ai niniviti, i quali si convertirono «grandi e piccoli» (Giona 3,5), a differenza dei contemporanei di Cristo, rimasti indifferenti oppure ostili: «Nel giorno del giudizio gli abitanti di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona» (Luca 11,32). Come abbiamo visto, anche l’evangelista Matteo (12,41) introduce questa applicazione secondaria; ma per lui primaria rimane quella «pasquale» sopra evocata, rispetto a quella «missionaria» esaltata da Luca in modo esclusivo.
Queste variazioni tematiche confermano una caratteristica ben nota dell’opera redazionale degli evangelisti nella stesura delle memorie di Gesù e su Gesù. Le sue parole non sono state asetticamente custodite dalle comunità cristiane originarie quasi fossero pietre preziose da proteggere in uno scrigno. Sono state considerate, invece, come semi da far fiorire nei vari terreni della predicazione. A Luca, che scriveva ai cristiani di matrice pagana, premeva di mostrare l’esempio dei niniviti, pagani come loro, aperti alla parola divina. Matteo, che pure conosce e presenta questa interpretazione della frase di Gesù, ne conserva la base originale ove era la Pasqua di Cristo il cuore dell’annunzio. In questo, tra l’altro, si rifletteva la tradizione giudaica, nota sia a Gesù sia a Matteo e al suo pubblico di lettori di matrice ebraica.
Essa, infatti, rileggendo Giona, non ne celebrava tanto la predicazione ai pagani, quanto piuttosto la liberazione prodigiosa dal rischio di morte nel ventre del grosso pesce. Anche per questo era, quindi, più facile l’applicazione della vicenda alla risurrezione sia da parte di Gesù sia da parte dei cristiani. Come è noto, in greco il termine «pesce», ichtús, è diventata poi l’acrostico Iesoús Christòs Theoú uiòs sotér, «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore», trasformando così quell’animale in uno dei segni iconografici più cari al cristianesimo.