Massimo Recalcati "Non si può negare il Male"
La Repubblica,
domenica 25 ottobre 2020
Ricordiamo tutti la tesi che distingueva la fase uno dalla fase due. Era una tesi ottimistica ispirata
dall’ideale di una uscita dal trauma del Covid nella forma di una progressione lineare. Il passaggio
dal tempo più crudele dell’epidemia e del confinamento forzato, della chiusura, della malattia e della
morte (fase uno) a quello della ripresa della vita, della riapertura, della ripartenza (fase due) sarebbe
dovuto avvenire senza troppi strascichi.
Il decorso pre-estivo dell’epidemia avvalorava questa aspettativa. Il tempo due aveva soppiantato il
tempo uno che solo pochi inguaribili menagrami insistevano a ricordare. L’estate italiana aveva
ratificato l’estinzione del virus; con i numeri dell’epidemia quasi azzerati la vita aveva ripreso a vivere
e tutto era ritornato come prima. Ma molti sapevano che non sarebbe stato così semplice perché
sempre quando c’è di mezzo la morte e la malattia, quando si è fatta esperienza così tremenda del
trauma, non è semplice ripartire.
Non esiste fase uno a cui segue la fase due come sua diretta negazione. Fase uno e fase due non sono
mai in una semplice relazione di tesi e antitesi. È un insegnamento della vita di cui il Covid non ha
l’esclusiva. Bisognerebbe sempre diffidare del carattere manicheo delle antitesi rigide che tende a
porre da un lato il bene, la luce, l’apertura, la salute, la vita e dall’altra parte il male, le tenebre, la
chiusura, la malattia, la morte. Una mente democratica, come direbbe Bollas, non funziona per
antitesi, non opera per scissioni. Essa sa bene che la pura contrapposizione degli opposti vorrebbe
evitare la difficoltà che sempre accompagna ogni processo di integrazione.
La seconda ondata entro la quale oggettivamente ci troviamo oggi conferma nel modo più drastico
possibile che non è mai opportuno procedere per scissioni rigide.
Gli stessi medici lo hanno sperimentato drammaticamente sulla loro pelle nel tempo iniziale della
pandemia: i salvatori sono stati anche le prime vittime. La seconda ondata mostra che ogni tempo di
uscita dal male e dalla crisi non è mai senza resti, senza rimbalzi, i quali possono talvolta essere
ancora più insidiosi del male e della crisi originaria.
Non possiamo nascondercelo: il compito che ci aspetta è quello inaggirabile della convivenza forzata
con il virus.
Ma per molti risulta estremamente difficile accettare il ritorno del male, la sua non estinzione. La
spinta più immediata è quella di continuare, contro ogni prova di realtà, a negarne immaginariamente
la consistenza (negazionismo) o ad imputare al governo — che non è ovviamente esente da critiche
— una cattiva gestione dell’emergenza che sarebbe la causa prima dei nostri mali. Queste risposte
tendono ad alleggerire il peso della nostra condizione. Ma è necessario uno sforzo di pensiero più
arduo.
Si tratta innanzitutto di prendere atto che non è ancora finita e rinunciare all’idea della nostra
guarigione come l’esito di un percorso lineare, privo di incidenti e di intoppi.
Si tratta di rinunciare
alla fantasia “scissionista” della fase due che segue la fase uno, della luce che viene dopo le tenebre.
Diversamente la fase uno e la fase due, la vita e la morte, la luce e le tenebre — come in ogni cosa
del mondo — appaiono anche in questa contingenza traumatica mescolate l’una nell’altra. Il cammino
verso la guarigione, verso una riapertura effettivamente piena della vita non è mai diritto, ma
spiraliforme, fatto di passi in avanti e di ricadute.
Bisogna imparare a non negare il male ma a sostare di fronte ad esso, a sopportare il suo peso. È una
postura mentale ma è anche un’altra tremenda lezione di questo virus: precipitarsi verso l’uscita della
crisi essendo ancora dentro la crisi rende i nostri comportamenti scomposti e irrazionali. Non
dobbiamo nasconderci che siamo di fronte ad una tendenza profonda della vita umana: negare la
morte, il male, il negativo nel nome dell’illusione di una vita senza ferite e senza traumi.
Saper sostare di fronte al negativo, saper stare dove la paura è più grande significa imparare a
convivere con lo straniero. È il compito di una vita che sa essere all’altezza di quello che le accade,
che, come ricordava Deleuze, è la sola forma possibile per un’etica in grado di tenere conto del reale.