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Fratelli tutti: in prima persona plurale

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Marcello Neri 
4 ottobre 2020 

Otto densi capitoli, articolati intorno all’immagine evangelica del buon Samaritano, che raccolgono e sistematizzano temi centrali che Francesco ha disseminato lungo l’arco dei suoi otto anni di ministero petrino – rilanciandoli con decisione e urgenza nella prospettiva del sogno di un’umanità che si declina alla prima persona plurale, senza esclusione alcuna. Questa potrebbe essere, in estrema sintesi, la resa immediata della nuova enciclica sociale che papa Francesco ha firmato ieri ad Assisi.

Inserita nel solco della più che centenaria storia della cura ecclesiale per la dimensione sociale dell’esistenza umana, e per la presenza in essa del germe fecondo della fede cattolica, Fratelli tutti introduce questa tradizione nei territori ancora incerti e conflittuali di una fine della modernità oramai compiutasi in tutti i suoi aspetti. 

Confermando all’umanità tutta che la Chiesa non rinuncia a navigare con essa in mari aperti e ancora inesplorati. Anche quando questo richiede di cambiare un lessico divenuto oramai familiare, su cui essa ha potuto fare conto per oltre un secolo. 

Dopo la modernità 

Il venire meno della classica razionalità politica moderna, unito all’imperiosa egemonia delle potenze tecno-finanziarie, con la conseguente estinzione del cosiddetto «stato sociale» e la produzione sistemica di disuguaglianze e ingiustizie a livello globale e locale, chiedeva obiettivamente alla Chiesa cattolica lo sforzo di una riconfigurazione di quella che fino a prima di questa enciclica si chiamava la dottrina sociale della Chiesa. 

Termine che, appunto, non compare nel testo Fratelli tutti di Francesco – e questo non per allergia personale dell’attuale pontefice verso tutto ciò che sa di dottrinario. Non compare perché il sistema di riferimento che ne permetteva l’articolazione è imploso, scomponendosi in un rivolo di frammenti disgiunti che sembrano essere impossibili da governare. 

L’enciclica assume, cordialmente e con coraggio, la sfida di proporre una nuova architettura del mondo e delle relazioni umane, superando l’inerzia cinica che afferma l’impossibilità di ogni ordinamento alternativo a quello attualmente imperante: «Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. (…) 

Da soli si rischia di avere miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme. Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (§ 8). 

Il paradigma moderno sembra essersi risolto in un individualismo consumistico che misura ogni cosa e ogni relazione sulla base dei vantaggi che può trarne esclusivamente a proprio vantaggio, mettendo a repentaglio i legami fondamentali che tengono insieme la società umana, e generando conflittualità mirate che vengono strumentalizzate «dall’economia per imporre un modello culturale unico. (…) Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o spettatori» (§ 12). 

Ma questa condizione non è ineluttabile, si possono infatti sognare alternative concrete – fatte di gesti e pratiche, più che di teorie: «esiste la gratuità. È la capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa in cambio» (§ 139). 

Pratiche di giustizia e gentilezza 

L’ordinamento globale nel quale viviamo attualmente si sovverte e trasforma appunto mediante pratiche del vivere, articolate intorno al comune che tutti condividiamo: «la vera qualità dei diversi paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come paese, ma come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici. I nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di gratuità, l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui e che chiudendosi agli altri saranno più protetti» (§ 141). 

Dal tesoro della sapienza cristiana si possono attingere le disposizioni fondamentali in grado di edificare una coesistenza umana fra i molti realmente fraterna: «san Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22) che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. (…) come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. (…) La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra nelle relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici» (§ 223-224). 

Lo spostamento della sensibilità sociale della Chiesa dalla dottrina alle pratiche/stili di vita porta a una corrispondente centratura dell’etica sulla dimensione plurale e collettiva. 

Ethos e istituzioni comuni 

L’architettura del mondo si ridisegna facendo convergere le disposizioni dell’agire in soggetti plurali che le raccolgono rendendole coese in uno sforzo unitario: è il piano delle istituzioni e della politica. Si tratta di «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro (…). La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari» (§ 116). 

In questi movimenti papa Francesco vede quelle organizzazioni politiche e civili in grado di farsi carico della dimensione poliedrica della società, che è quella che riesce a rendere ragione al tempo stesso di differenze non omologate e appiattite su un unico indistinto, da un lato, e di un comune senso di appartenenza sempre aperto sulla dinamica di nuove sintesi rese possibili dalla molteplicità che l’attraversa, dall’altro. 

Ed è questo il piano su cui egli rilancia, ancora una volta, la sua concezione di «popolo» – facendola entrare in una dialettica critica sia con i populismi contemporanei sia con la pretesa oligarchica di ristretti gruppi elitari: «la pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. (…) Per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. (…) I gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso» (§§ 157-160). 

La priorità della realtà sull’idea, sulla nozione astratta, deve essere dunque riconosciuta anche a livello delle istituzioni internazionali, che potranno essere efficaci a livello globale solo se radicate effettivamente nella consapevolezza di “popoli” aperti e capaci di arricchirsi e svilupparsi mediante sintesi che assumono la variegata pluralità del nostro mondo e delle nostre società contemporanee: «abbiamo bisogno che un ordinamento mondiale giuridico, politico ed economico incrementi e orienti la collaborazione internazionale verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli» (§ 138). 

Quel che resta della modernità 

Questa enciclica, che traghetta la cura della fede per la dimensione sociale dell’umano esistere, è anche quella che raccoglie con più forte persuasione gli esiti migliori della modernità occidentale. 

A cominciare dall’inedito di un’ispirazione interreligiosa del testo stesso: «se nella redazione della Laudato si’ ho avuto una fonte di ispirazione nel mio fratello Bartolomeo, il Patriarca ortodosso che ha proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso mi sono sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale mi sono incontrato ad Abu Dhabi per ricordare che Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro. Non si è trattato di un mero atto diplomatico, bensì di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto. Questa enciclica raccoglie e sviluppa gradi temi esposto in quel documento che abbiamo firmato insieme. E qui ho anche recepito, con il mio linguaggio, numerosi documenti e lettere che ho ricevuto da tante persone e gruppi di tutto il mondo» (§ 5). 

In questa prospettiva, diventa chiara non solo la coerenza complessiva del papato di Francesco, che non può essere ridotto a episodi sporadici senza nesso tra di loro, ma anche la sua metodologia: non vi è un grande progetto ideologico da realizzare a ogni costo, ma una narrazione aperta intessuta sulla trama della realtà del vivere del mondo e della Chiesa in esso. 

Gli scarti, le interruzioni, le riprese, sono il buon prezzo da pagare per questa aderenza alla realtà delle cose e delle persone che contraddistingue il ministero di Francesco. Ed è in questa prospettiva che si inserisce il deciso impegno che Francesco contrae a nome delle religioni a contribuire alla realizzazione di uno dei capostipiti del sogno della modernità, quello della fraternità appunto. 

«Le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata a essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e la difesa della giustizia nella società. (…) Perché la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire tra una convivenza civile tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. In questa prospettiva, desidero ricordare un testo memorabile (di Benedetto XVI, n.d.a.): se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste alcun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini» (§§ 272-273). 

L’inversione religiosa del canone moderno di libertà, uguaglianza e fraternità, non ha alcun sapore di ostilità e distanza, ma aspira alla sua effettiva realizzazione nell’oggi del nostro mondo: «La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. 

Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento dei valori? Succede che la libertà si restringe, risultando piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. (…) Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità» (§§ 103-104). 

Dell’eredità moderna l’enciclica raccoglie anche un appassionato rilancio della coscienza storica, base imprescindibile per una ricerca condivisa e riconciliata della verità: «quanti si sono confrontati duramente si parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. Hanno bisogno di imparare ad esercitare una memoria penitenziale, capace di assumere il passato per liberare il futuro dalle proprie insoddisfazioni, confusioni e proiezioni. Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti» (§ 226). 

A partire da qui si rende possibile una configurazione non meramente procedurale della coesistenza umana in vista dell’edificazione di un’effettiva fraternità a livello globale, per portarsi così oltre quei semplici «colloqui» che si riducono a «mere trattative affinché ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori vantaggi possibili»: «gli eroi del futuro saranno coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali. Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore della nostra società» (§ 202). 

Se si leggono bene i passaggi sul multilateralismo, sul diritto internazionale, sul ruolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, sulla dignità umana come originaria e inalienabile per ogni persona a prescindere da qualsiasi determinazione geografica, etnica, linguistica e culturale, si potrà trovare un’ulteriore conferma di un’enciclica che si fa carico di traghettare nella “nuova epoca” che stiamo vivendo I frutti migliori della modernità occidentale – in un dialogo aperto con altre culture, con una disposizione all’apprendimento che si fa garanzia di rinuncia a ogni monopolio globale della verità «dal momento che i principi morali fondamentali e universalmente validi possono dar luogo a diverse normative pratiche» (§ 214). 

In questa direzione si muove anche l’universalismo concreto (dalla destinazione dei beni alle pratiche dell’amore) che permea tutto il testo dell’enciclica: «c’è un aspetto dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma esistenziale. È la capacità di allargare la mia cerchia, di arrivare a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicini a me. (…) L’amore che si estende al di là delle frontiere sta alla base di ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in ogni città e ogni paese» (§§ 97.99). 

Pandora 

L’enciclica, così annota Francesco, sarebbe stata scritta lo stesso, ma la pandemia del Covid-19 ne ha sicuramente accelerato la stesura come corrispondenza urgente alla realtà e l’ha resa drammaticamente plausibile nella sua proposta – sogno e realtà si sono abbracciati tra di loro per un attimo, a noi decidere se vivere di illusioni o scrivere tutti insieme una nuova pagina della storia. 

«Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando I progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani”, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Oggi possiamo riconoscere che ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. (…) 

Il dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza» (§ 33). 

Risuona qualcosa del mito del Vaso di Pandora nel corpo di questa enciclica: una curiosità non temperata può liberare la forza del male sul mondo rendendo la terra inabitabile e disumana. Dal racconto sappiamo che “speranza” non fece in tempo a uscire dal vaso prima che Pandora lo chiudesse, e così le tenebre si distesero sulle opere dell’uomo e la terra divenne come un deserto inospitale. Ma poi Pandora riaprì il vaso, e anche “speranza” si diffuse sulla terra e iniziò a circolare fra gli uomini e le donne. 

Fratelli tutti è come questa seconda apertura del vaso, la speranza come sogno realistico di un mondo diverso: «malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene. La recente pandemia ci ha permesso di recuperare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi della nostra storia condivisa (…), che hanno capito che nessuno si salva da solo. (…) La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa. Camminiamo nella speranza» (§§ 54-55).
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