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Il coraggio di cambiare in profondità

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Le sfide della Chiesa in Italia a sei anni dall’«Evangelii gaudium»
don Francesco Cosentino

Ha compiuto recentemente sei anni l’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
Il “manifesto” programmatico di Papa Francesco, preludio di una serie ininterrotta di parole e di gesti del successivo magistero, oltre agli innegabili guadagni teologico-pastorali ha finalmente riaperto le porte a un rinnovamento della spiritualità cristiana, il cui punto cardine non risiede nella sottolineatura del peccato e del sacrificio e nella conseguente visione “meritocratica” del rapporto con Dio, quanto piuttosto nella gioia dell’incontro con Gesù, che rinnova e trasforma la vita e innesca la liberazione di Dio nei processi storici e sociali. In tal senso, Evangelii gaudium tenta una delicata riscrittura della grammatica del credere, così come della relazione tra peccato e misericordia, tra sacrificio e spirito della Pasqua, tra esperienza personale e urgenza missionaria.

Ma c’è di più. Il punto nodale dell’esortazione, e se vogliamo il suo contenuto profetico, è nell’invito a una conversione pastorale della Chiesa in senso missionario, che dovrebbe tradursi in un imprescindibile rinnovamento ecclesiale: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (Evangelii gaudium, 27). Come più volte sottolineato in interventi e discorsi successivi, non si tratta di un ritocco estetico o di un restauro di facciata, tantomeno di ridursi ad assumere lo slogan del momento senza che ciò incida nella realtà ecclesiale concreta, quanto piuttosto una presa di coscienza finalmente coraggiosa, che ci aiuti a cambiare in profondità: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (Evangelii gaudium, n. 33).

In una parola, occorre prendere realmente sul serio la situazione ecclesiale, pastorale ma ancor prima socio-culturale e, senza fingimenti e retoriche ecclesiali, agire per un profondo cambiamento del modello di Chiesa, della forma di parrocchia e dello stile pastorale. Un invito pieno di respiro quello di Evangelii gaudium e, di contro, una Chiesa italiana che sembra essere lenta nella ricezione reale del documento e nelle sue implicazioni ecclesiali e pastorali, piuttosto timida invece che audace nell’individuare percorsi e strumenti di rinnovamento, a tratti quasi affaticata nel seguire la spinta propulsiva del momento presente.

Naturalmente si incontrano in diverse terre d’Italia, piccole e grandi comunità in cui si respira la vivacità del popolo di Dio, il desiderio di approfondire, e anche qualche coraggioso tentativo di innovazione. Tuttavia, ciò che permane nel “sentire” generale, e che purtroppo coinvolge in primis le gerarchie, è una lettura di fondo che fa da presupposto alle analisi pastorali, secondo la quale lo stato di salute del cattolicesimo italiano non è così grave da esigere cambiamenti troppo rivoluzionari e, tutto sommato, le cose funzionano ancora bene.

I motivi di un tale orizzonte interpretativo sono diversi, a cominciare dalla fatica della Chiesa italiana ad accettare il radicale cambiamento culturale avvenuto negli ultimi decenni e, di conseguenza, a immaginare ancora una Chiesa che poggia le sue forze sulle strutture organizzate e su una presenza esplicita e massiccia negli spazi sociali ed esistenziali. Il tutto, in una sorta di apatica e ingenua fiducia sui frutti della semina, immaginando ancora un humus cristiano delle famiglie e della società che, in realtà, non esiste più da tempo. In quest’ottica, la pastorale procede come sempre — col catechismo in stile scolastico, l’automatismo dei sacramenti, qualche altra attività in cui ruotano i fedelissimi — restando imprigionata e anche risucchiata da opere di autopreservazione. Esse certamente custodiscono in qualche modo quello che c’è, ma in realtà, non trasmettendo la fede del futuro, finiscono per togliere futuro alla fede.

Rivolgendosi ai partecipanti al Congresso internazionale della pastorale delle grandi città, nel 2014, Papa Francesco ha affermato l’urgenza di «attuare un cambiamento nella nostra mentalità pastorale. Si deve cambiare!... Veniamo da una pratica pastorale secolare, in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura. È vero, è la nostra eredità… Ma non siamo più in quell’epoca. È passata». Si deve cambiare, non c’è dubbio. E ci sono una serie di questioni che incalzano la Chiesa italiana e che, solo a mo’ di elenco, mi permetto di citare.

La prima riguarda l’attuale crisi della trasmissione della fede, che invoca un nuovo modello di comunità non più centrata sul ministero del prete, ma capace di un effettivo coinvolgimento responsabile del laicato, cosicché il rinnovamento pastorale possa generare nuovi spazi di annuncio del Vangelo e proposte innovative per coloro che sono lontani e indifferenti alla fede. La seconda sfida riguarda la rottura tra le istanze del Vangelo e la grammatica della vita quotidiana, che richiede una nuova centralità della Parola di Dio e una nuova evangelizzazione capace di favorire quell’incontro vivo con Gesù auspicato da Evangelii gaudium. Non si può insistere con una “morale da catechismo” senza che la vita dei nostri destinatari sia stata prima trasformata dall’incontro con la Parola di Dio. La terza sfida riguarda la necessità di un’autentica e integrale formazione cristiana che, oltre a contrastare il dilagante analfabetismo biblico e talvolta dottrinale, incoraggi in modo definitivo l’abbandono di un’identità cristiana usata come scudo, come simbolo e come presidio dell’eredità culturale, in una mentalità da ghetto e con atteggiamenti aggressivi. Bisognerebbe invece orientare i credenti a una maggiore consapevolezza dello specifico contributo che essi sono chiamati a offrire nell’ambito sociale, culturale e politico, e cioè offrire uno stile diverso dalla rabbia e dal rancore che spesso campeggia nella vita reale del Paese.

Ovviamente, a queste sfide è connesso il rinnovamento della parrocchia, l’aggiornamento di alcuni linguaggi della fede e anche una serie di domande che in qualche modo pongono sotto verifica la condizione del cattolicesimo italiano: è normale che vi siano ancora credenti la cui esperienza di Dio rimane confinata al solo gesto isolato della domenica? È normale che vi siano credenti convinti e impegnati, che esprimono preoccupanti e addirittura aggressive chiusure nei confronti dello straniero? È possibile che Papa Francesco venga quasi quotidianamente attaccato — non da settori di fantomatico laicismo, ma dal conservatorismo cattolico — e pochi, anche tra i vescovi, sono coloro che chiaramente esprimono una parola autorevole a sostegno del suo magistero?

Questioni, sfide, domande e urgenze di rinnovamento, che forse invocano un’approfondita e reale riflessione — un sinodo? — da parte dell’intera Chiesa italiana.
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