Michele Badino "Chi semina vento, raccoglie tempesta"
I nostri vecchi narravano che nei loro paesi, soprattutto nelle campagne, vi era una abitudine, di tenere sempre pronto e lasciare sul tavolo: una pagnotta di pane o la pentola con la minestra, un fiasco di vino e una brocca d’acqua.
In tal modo, chi fosse passato di là: tornando dal bosco con un carico di legna sulle spalle o dai campi con una fascio di fieno in groppa avrebbe potuto fermarsi, sostare un momento all’ombra della pergola affacciata sul mare fuori casa o del porticato antistante alla cascina ai piedi delle colline e rinfrancarsi.
La porta ovviamente era aperta, solo il chiavistello a saliscendi per evitare che entrassero il gatto o il cane di casa a fare colazione.
Come sappiamo le immagini e i racconti che ci giungono dall’infanzia assumono sempre un aurea di favola in cui si intrecciano il vissuto solo a tratti ricordato, le stratificazioni della nostra storia e le tante riletture date da noi a quel periodo e agli affetti che in quel tempo ci hanno circondato.
Vi è sempre un lieto fine ovviamente, non perché sia sempre stato così, anzi, ma forse perché tanti anni si prospettavano allora davanti a noi che ci percepivamo protetti, il futuro pareva ben saldo nelle mani callose profumate di fieno con le righe del tempo che ci accarezzavano.
Ascoltavamo attenti e con gli occhi vedevamo come un gigante, foss’egli uomo o donna, che ci narrava la vita come fosse una favola e l’affrontarla come un gioco, perché da adulti abbiamo imparato che il gioco, come la vita, è una cosa seria.
Quelle parole lontane, mi risuonano nella mente mentre rileggo un passo del profeta Osea:
«Quia ventum seminabunt, et turbinem metent» (Os 8,7)
Chi semina vento raccoglie tempesta
Da quelle parole lontane non giungono certo solo favole immerse in bambagia che edulcorano la storia e la rendono dolciastra come se fosse inzuppata in una melassa infantilistica, oggi magari definita buonista.
Da quelle parole lontane giungono racconti con echi di artiglieria da montagna sul fronte greco-albanese della grande guerra di morte e violenza su uomini e animali, oppure di coltelli serrati contro la gola al sabato dai prepotenti di turno dei regimi dittatoriali nella prima metà del secolo ventesimo, perché si ricordava che il sabato è di Dio e non del dittatore di turno.
In questi giorni in me riecheggiano queste parole nella risacca del mare contro la chiglia di una piccola nave ancorata alla banchina.
Sopra ad essa non vi sono né le montagne del fronte, né le piazze delle adunate acclamanti del sabato, vi sono altre storie di uomini e donne, adulti e bambini che hanno nei loro piedi polvere di terre lontane, sapere di oltremare e nei cuori lacerati profumo di Africa.
Per assurdo il fronte, i fronti innumerevoli presenti nei focolai di guerra del pianeta si sono dati appuntamento su quella nave ancorata con le gomene della necessità ma al contempo rigettata in alto mare dalla arroganza del potere.
E sempre per assurdo questa volta i militari non sono in prima linea con artiglieria spiegata e pronta a vomitare fuoco dalle loro cannoniere ma sono trasformati con la bacchetta magica dell’assurdo in crocerossine alle prime armi che si muovono in fretta e con una reverente apprensione poiché non hanno a che fare con i conosciuti solidi e freddi obici e mortai ma con lo sconosciuto, fragili e caldi corpi umani dell’altro ferito o malato, debole o terrorizzato di fronte a me, chiunque esso sia.
Così in un gioco inatteso delle parti di fronte al quale la vita ci pone di fronte, le forze di terra, di mare e di cielo che dovevano opporsi all’invasione delle portaerei di gomma provenienti dall’Africa e all’assalto dei mortai di legno delle truppe di montagna provenienti a piedi dai Balcani, si tutte queste forze, oggi sono divenute pacifiche crocerossine, timide e imbarazzate, non vestite da divise mimetiche ma da abiti tessuti di domani.
Il tanto vento seminato ha prodotto si una tempesta, ma paradossalmente soffice e pacifica e al contempo un potentissimo tuono e fulmine di senso: in un battibaleno uomini e mezzi della marina militare italiana, non ong del mare con improbabili imbarcazioni e donne capitano dai capelli rasta, ma marinai e ufficiali della Repubblica italiana, nella loro divisa e in adempimento al loro dovere stanno portando in salvo, si stanno curvando su corpi inermi disarmati, stanno fasciando, curando, sfamando uomini, donne e bambini, detti profughi o similari, con l’orgoglio di servire la loro patria e alle spese di noi tutti cittadini italiani.
I nostri vecchi narravano che nei loro paesi, soprattutto nelle campagne, vi era una abitudine, oggi forse dalle alte terre, dove sono ci guardano e sorridono di gusto.
Dopo tanto tempo e nonostante tutto, non si è persa quella loro abitudine, magari attraverso un paradosso che diviene ossimoro: stiamo curando il nemico da cui ci volevamo difendere.
Là sul tavolo, illuminata dai raggi del sole d’estate ci sono ancora una pagnotta di pane, la pentola con la minestra, un fiasco di vino e una brocca d’acqua.
Si, l’umano è ancora vivo.
michele
nipote di michele che tornava dal bosco con pesanti carichi di legna e di abele che rientrava in cascina con grandi fasci di fieno