Luca Mazzinghi I Giusti nello scandalo della sofferenza testimoni di speranza
Nei capitoli 3 e 4 l’autore del libro della Sapienza si preoccupa di rispondere a questa domanda: la morte è forse l’ultima parola della vita? È la prima volta, nel panorama dell’Antico Testamento, che troviamo una riflessione così ampia su questo aspetto. Ci limitiamo qui a leggere e commentare il testo di Sap 3,1-9, che nella Chiesa cattolica è spesso utilizzato nelle liturgie funebri.
LA MORTE NON È L’ULTIMA PAROLA DELLA VITA
3,1 L’anima dei giusti è nelle mani di Dio,
nessun tormento li toccherà.
2 Agli occhi degli stolti sembrò che fossero morti
e la loro fine fu considerata un castigo
3 e la loro partenza da noi una distruzione;
essi, invece, sono nella pace.
Preso superficialmente, il testo sembra affermare l’immortalità di un’anima che, separata dal corpo, vive beatamente presso Dio. In realtà, il soggetto dell’intero testo è al maschile (“essi”). L’autore sta cioè parlando dei giusti, non delle loro anime. Il termine “anima” porta qui con sé una concezione tipica della Bibbia di Israele: si riferisce all’intera persona, all’essere umano inteso secondo la sua dimensione interiore. Sono dunque i “giusti” ad essere nelle mani di Dio. Il “tormento” che non li toccherà si riferisce da un lato alla persecuzione che gli empi hanno scatenato contro di loro (cfr. Sap 2,10-20), dall’altro alle punizioni divine che i giusti sfuggiranno dopo la loro morte. Ma più importante, per noi, è ciò che l’autore dice nei vv. 2-3. Sembravano morti, ma sono invece nella pace.
Come sarebbe a dire che “sembravano morti”? Quando uno è morto, è morto. Il libro della Sapienza gioca qui su una visione ambigua della “morte”. La vera morte non è per lui la morte fisica, che in realtà tocca a tutti, buoni o cattivi. La morte fisica non è tuttavia vera morte; per i giusti, infatti, è passaggio all’essere nella pace, al vivere con Dio. Per i malvagi, invece, la morte fisica sarà preludio di una morte ben più grave, quella eterna.
Solo chi guarda le cose in superficie (gli “stolti”) non si accorge che la morte fisica non è affatto l’ultima parola della vita. E tende a definire la morte con eufemismi come “fine” o “partenza”; chi non sa vedere oltre, non comprende che dietro la morte fisica c’è l’ingresso nella pace. Il libro della Sapienza non ci dice in che cosa consista questa “pace”; ma il termine, tipicamente biblico, è già sufficiente per suggerirci che la vita continua in una situazione di pienezza e di gioia.
LA SOFFERENZA HA UN VALORE?
3,4 E benché agli occhi degli uomini [i giusti] siano stati puniti,
la loro speranza era piena di immortalità:
5 per una piccola correzione, riceveranno grandi benefici,
perché Dio li ha messi alla prova
e li ha trovati degni di sé:
6 Li ha verificati, come oro nel crogiolo
e li ha accolti, come un sacrificio completo.
Nei versetti che seguono, il libro della Sapienza prova a riflettere su un mistero ancora più grande. Sì, la morte dei giusti è passaggio alla vita. C’è per il giusto una speranza “piena di immortalità”. Resta il fatto che essi, durante la loro vita fisica, hanno sofferto. Che senso ha una tale sofferenza? Il male, il dolore, la malattia, la violenza, come possono essere accettati?
Il nostro saggio osa dare tre risposte. La prima è relativa al fatto che ogni sofferenza può, in qualche modo, essere vista come una “correzione” ricevuta da Dio: è l’idea – di per sé non banale – che anche il giusto deve saper accogliere la sofferenza come accoglierebbe un rimprovero o addirittura una punizione da parte dei suoi genitori. La seconda è che la sofferenza può essere considerata una prova che mette in luce il vero valore di una persona e la rende così degna di Dio; nella sofferenza, si vede che persona sei. La terza è che la sofferenza si può trasformare in un “sacrificio” gradito a Dio, qualcosa che viene offerto al Signore al posto delle vittime offerte per il sacrificio.
Osserviamo come ciascuna di queste tre risposte contenga in sé un germe di verità, ma nessuna può spiegare in modo definitivo il senso profondo della sofferenza. Per il cristiano, una risposta giungerà solo attraverso la croce di Cristo. Il mistero della sofferenza non trova altra logica se non in quella di una vita donata per amore.
Ritornando al libro della Sapienza, nei tre versetti che seguono il testo ha ancora qualcosa da dirci.
I FEDELI NELL’AMORE
3,7 Per questo, nel giorno in cui verranno visitati, [i giusti] risplenderanno
e correranno come scintille in un canneto.
8 Governeranno le nazioni e domineranno i popoli
e il Signore regnerà su di loro per sempre.
9 Quelli che hanno confidato in lui comprenderanno la verità;
i fedeli nell’amore resteranno vicini a lui,
perché grazia e misericordia sono per i suoi santi
e una visita per i suoi eletti.
Il soggetto del v. 7 sono ancora i giusti, immaginati dopo la loro morte. Con immagini prese dai libri profetici e con un linguaggio di stile apocalittico, la Sapienza immagina i giusti dopo la loro morte in una situazione di vita nuova. L’idea della luce e delle scintille è una descrizione poetica dello stato dei giusti nella loro nuova situazione, dopo la morte fisica. I giusti governeranno su quel mondo che li aveva rifiutati (cfr. il v. 8) e a loro volta avranno il Signore come re. Si immagina una realtà futura nella quale l’ingiustizia e la violenza spariranno, per far posto solo a Dio e al suo regno.
Al v. 9 si capisce che i giusti sono anche coloro che si sono fidati di Dio, che sono rimasti fedeli a lui nell’amore. Dunque giustizia, fedeltà a Dio, amore, sono virtù che garantiscono agli esseri umani una vita senza fine. Anche in questo caso, l’autore, consapevole della novità della sua proposta, non entra nei dettagli. Non ci dice, se non per immagini, in che cosa consisterà la vita oltre la morte fisica, se non un restare vicini a Dio.
L’ultima parte del v. 9 ci suggerisce che i giusti e i fedeli sono anche “santi” ed “eletti”; santi, in quanto appartenenti a Dio; “eletti”, in quanto scelti da lui. La vita con Dio non è soltanto il frutto della condotta umana, ma anche e soprattutto un dono gratuito di Dio stesso, della sua “grazia”, e della sua “misericordia”. Per chi si abbandona all’amore di Dio, la vita acquisterà un senso e la “visita” di Dio non metterà più paura, ma anzi riempirà di speranza.
UNA FUGA IRREALE O UN CAMMINO DI SPERANZA?
Per gli uomini e le donne di oggi la proposta del libro della Sapienza può rischiare di sembrare la ricerca di un rifugio in un futuro irreale, vago, e alla fine del tutto illusorio. In realtà non è così; il testo di Sap 3,1-9 va visto sullo sfondo della concezione della vita propria degli empi. Se la vita non ha alcun senso, allora ogni forma di immoralità sembra essere giustificata. Ma se la vita non si chiude con la morte, allora viverla con giustizia, fiducia, amore, ha un significato che rende piena la vita stessa, la riempie di “una speranza di immortalità”, per ricordare ancora il testo della Sapienza.
“Dio” non è per l’autore del libro una parola vuota; è piuttosto una persona reale che ha cura di coloro che ama e che li accoglie anche oltre la morte. In questo modo, anche gli esseri umani che in questa vita si sentono rifiutati e scartati ritrovano speranza. In 3,13-14 la Sapienza porta gli esempi – per l’epoca certamente provocatori – della donna sterile e dell’eunuco, incapace di generare, che nell’ottica di una vita senza fine con Dio ritrovano speranza anche per la loro vita terrena piena di infelicità ed emarginazione. Più avanti, in Sap 4,7-16 la prospettiva della vita con Dio dà senso anche alla morte tragica e prematura dei giovani.
Così, parlare di vita senza fine è avere la speranza che la vita in questo mondo non ha la “morte” come irrimediabile fine e che ogni atto di giustizia, amore, fedeltà, seminato in questa esistenza non verrà perduto. Lo scandalo del male, della sofferenza non viene né spiegato né eliminato, ma la fede nella grazia e nella misericordia di Dio consente di guardare oltre questo muro e di non vedervi solo tenebra.
Fonte: Saveriani