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Michele Badino Immigrati e obiettori

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Stranieri tra stranieri
Sono le otto meno venti, e come ogni mattina il caldo e il profumo di pane e focaccia della panetteria riempie il piccolo cortile, sale ed entra dalle finestre appena aperte impregnando i vecchi locali della comunità obiettori della Caritas di Savona via Mistrangelo.

Il centro ascolto aprirà alle nove. Dalle finestre arriva anche un brusio a tratti ritmato e interrotto. La fila di bianchi sorrisi d’Africa occupa tutto l’androne delle scale sino al portone e alla via. Molti si sono seduti sui gradini. Sorridono, scherzano tra di loro in quella lingua musicale che ricorda il suono della kora.
La piccola sala d’aspetto si riempie subito appena don Antonio, salite le scale, apre la porta per entrare, ma non cambia la lunghezza della fila visto che nel frattempo altri sono arrivati.
Siamo alla fine del 1989, nei primi giorni dalla promulgazione della legge Martelli, la prima che affronta il nuovo fenomeno dell’immigrazione attraverso una prima sanatoria.
Ogni frammento che dica o attesti una presenza in Italia può diventare passaporto per il nostro paese. Qualunque pezzo di carta è custodito ed esibito come una reliquia: chi ha un biglietto del treno, chi una ricevuta di un bar, chi un conto di una pensione a una stella, o chi con orgoglio mostra una multa presa sul treno con indicato nome, cognome e data. Alcuni hanno speso quello che avevano per comprare la prova, quella data per sicura e decisiva, dal gatto e la volpe di turno che hanno aperto un gran mercato per l’occasione.
Ascoltano in silenzio, anche se subito non capiscono fino a che Mbake, dal nostro francese incerto, traduce per tutti. Mi colpisce vedere questi uomini, alti e robusti, veri leoni d’Africa, trepidare e gioire a ogni parola che possa dare una speranza di avere in mano la chiave che apre la porta del nostro paese. Tutti gioiscono per ogni si detto a uno di loro; sono in tanti ma è come se uno solo agisse o chiedesse, se solo a lui fosse rivolta la risposta.
La mattinata scorre tra verifiche e fotocopie e scambi in una lingua che si fa ora dopo ora sempre più simile a un esperanto in cui italiano, francese, spagnolo sono ritmati dalla traduzione in wolof. Per avere il permesso è necessario avere un domicilio. Cominciamo a scrivere come loro domicilio il nostro, quello della comunità obiettori e degli uffici caritas. Abbiamo già quindici italiani residenti presso di noi, ci ricorda con un sorriso Daniela l’ assistente sociale e responsabile del centro di ascolto. Ci consultiamo e facciamo due conti per restare nel credibile. “Ma che densità abitativa prendiamo, quella italiana o africana?” dice uno di noi. Alla fine non facciamo più conti e continuiamo a scrivere sempre lo stesso indirizzo per tutta la mattina e buona parte del pomeriggio. Anche ipotizzando letti a castello nei corridoi o sulle scale, penso che non ci saremmo stati. I controlli furono discreti e si limitarono al piano degli uffici senza salire in quello che descrivevamo quasi come un grattacielo, pieno di camere, servizi e quant’altro necessario a un centro di accoglienza e non due semplici piani affacciati su un piccolo cortile dotata di un unico servizio igienico con ben due porte di entrata.
La cucina oggi ha lavorato a lungo e gli obiettori di turno mi guardano di sbieco, a tratti perplessi e con gli occhi corrucciati, mentre cambio i numeri sulla lavagna e aggiungo posti a pranzo. Da chi è ai fornelli mi arriva una domanda secca: «Senti, ma per quanti giorni durerà questa storia?». Discutiamo sui giorni trascorsi, ognuno con i suoi numeri; pensiamo a come moltiplicare ciò che è già pronto e cotto; riflettiamo sui tempi, sugli altri servizi del pomeriggio. Le voci e i toni si alzano. Restiamo un momento in silenzio, poi Adolfo si gira verso Piero e dice:
«Senti Piero, alla fine del servizio pensavo di aprire un locale: lo chiamerò le “restaurant des voyageurs”. Tu che ne dici? ». Piero è alle prese con la bilancia per pesare la pasta e risponde: «Io ti faccio da cuoco ». Anch’io mi aggiungo e dico: « Io da cameriere». Ci voltiamo tutti e tre e scoppiamo a ridere.
I mesi di vita in comunità ci stavano aprendo a quella realtà che è la vita accanto a un altro che non è un parente né un amico che si è scelto, ma è lì nello stesso luogo, per lo stesso motivo, a svolgere lo stesso servizio. Ognuno a suo modo muoveva i primi passi in ciò che è l’accoglienza dell’altro. Così quando Mourtallà, un ragazzo di sedici anni dal Senegal, arrivò a fine dicembre da noi, venne accolto come la mascotte del gruppo e così tutti imparammo da lui qualche parola in wolof.
Oppure quando Diop, tra i primi conosciuti in quei giorni, iniziò a lavorare come manovale-muratore nella casa accanto, ci chiese di ospitarlo nei giorni di sciopero dei treni, ci venne spontaneo dirgli di sì e fargli un posto nei nostri letti a castello.
Non c’era ancora la casa di accoglienza notturna e così ogni tanto, quando era necessario, ospitavamo noi direttamente. Era intraprendente e buon lavoratore, così in poco tempo trovò lavoro in riviera e casa a Genova. Anche quando ci chiese accoglienza in inverno per due settimane, lo accogliemmo con gioia malgrado il ricordo del suo russare portentoso. Fu simpatico vedercelo arrivare quasi un anno dopo, senza averlo più sentito nel frattempo, a farci gli auguri di Natale con un panettone, con alcuni suoi amici e compagni di lavoro in una ditta di asfaltatura in Valbormida. Fu bello sentirlo raccontare e vederlo sorridente.
Nel gruppo di quella mattina di fine anno 1989 c’era anche Dame Ndiaje, un pezzo d’uomo alto circa due metri che ancora oggi sorride e saluta passeggiando e vendendo occhiali e ombrelli in via Paleocapa la via centrale di Savona. Con lui e con altri si fece una esperienza di inserimento lavorativo nel settore alberghiero e di piccole imprese artigiane, in collaborazione con le caritas diocesane. Ricordo il suo lavoro a Celle Ligure come lavapiatti in un ristorante messicano e le telefonate preoccupate della titolare nei giorni in cui per la stanchezza alla sera parlava ormai solo in wolof . Più volte spiegai a lei che non era semplice per un africano, uomo e adulto con tre mogli, ubbidire a lei, donna, e lavare piatti dalla mattina fino a notte inoltrata senza fermarsi. Diverse volte andai a trovarli alla chiusura del locale per rappacificare gli animi, e insieme mangiammo pasta e gamberoni al curry verso mezzanotte per festeggiare la riconciliazione.
Pochi giorni dopo arrivò anche Chadir dal Marocco, che rimase un ospite e amico della comunità obiettori per tutto il tempo in cui rimasi in servizio alla caritas e anche dopo. Un uomo mite, semplice con il pensiero sempre alla moglie e al figlio unico lontani. Dormì diversi mesi sotto alle barche dei pescatori capovolte per la manutenzione, sulla spiaggia. Poi venne accolto dal primo che rispose all’appello che facemmo come caritas agli istituti religiosi e a tutti per aiutarci nella prima accoglienza. La risposta rimase debole e tiepida, ognuno temeva che aprire le porte sarebbe stato rischioso: chissà cosa sarebbe accaduto? E quali conseguenze ? Così le porte rimasero quasi tutte sprangate. Non a caso il primo, e uno dei pochi, a rispondere fu un povero in spirito, nel senso evangelico della parola: Giancarlo, che viveva in due camere, a malapena scaldate, in una canonica dell’entroterra messagli a disposizione dal parroco. Aveva due stanze, era solo e percepì la necessità di metterne una a disposizione. La sua vita di silenzio e solitudine, come definita da lui monastica, cambiò e nacque tra loro una amicizia intensa. Era simpatico sentire Giancarlo raccontare come alla sera attendesse con la minestra sul fuoco il ritorno di Chadir che con il suo motorino risaliva verso casa, la sua preoccupazione per il ritardo nelle sere di pioggia e vento, e i resoconti delle loro cene quasi in silenzio visto il temperamento di entrambi.
Per i pochi mesi in cui Giancarlo visse ancora, quell’amicizia gli scaldò il cuore e l’accogliere lo straniero forse gli fece vivere un frammento dell’accoglienza del Padre di cui parla l’evangelista Matteo : “Dove Signore ti abbiamo incontrato? Ero straniero e mi avete accolto…”.
E l’ultima persona che ricordo di quel gruppo di quella mattina di fine 1989 è il traduttore Mbake Lo: un uomo fiero, che da lì a poco divenne responsabile della comunità islamica senegalese di Genova. Trovò casa in una porzione di una canonica messagli a disposizione da un parroco, uno dei pochi a rispondere all’appello di cui ho detto. Mbake era un uomo di preghiera: quando andammo con Diego ad aiutarlo a imbiancare la casa, notammo l’angolo per la preghiera con quel lungo rosario, appeso al muro, con tanti nodi quanti i 99 nomi di Dio riportati nel Corano.
Ricordo i suoi scambi e dialoghi con quel prete, in un francese misto a italiano, le sue domande sul ministero, sulla preghiera di noi cristiani e sul senso del celibato. Di questo comprese qualcosa in rapporto alla sua scelta di avere un’ unica moglie pur avendo diritto più di altri ad avere più mogli, in quanto responsabile della comunità religiosa locale. Gli trovammo lavoro in una piccola azienda artigiana nell’entroterra del finalese, che produceva cassette per prodotti ortofrutticoli. Lo accompagnammo con Alberto e la vecchia Panda del centro ascolto a incontrare il titolare, un uomo schietto, onesto e lavoratore della provincia di Trento. Disse subito che il lavoro c’era, in regola, ma era duro. Lui lo affrontò con grinta. Rimase quasi due anni, interrotti da alcuni viaggi a casa, poi tornò a casa per un tempo più lungo e penso che alla fine là si sia fermato. Dialogando con lui più volte parlammo dei motivi che spingevano tanti a lasciare la loro terra pur avendo una posizione importante e di responsabilità. Mi invitò a cena diverse volte (ricordo un pollo che dire piccante è poco), e a tavola, parlando ci fu occasione per me di iniziare a capire qualcosa della loro cultura, storia e tradizioni.
Accogliere l’altro, lo straniero è sempre e ogni volta fare i conti con una diversità di storia, di cultura e di approccio al mondo del lavoro e al modo di vivere il lavoro stesso in rapporto alle altre dimensioni della vita.
Questo non è certo semplice, e chiede da entrambe le parti un cammino di pazienza, di attesa e di conoscenza. Sì, conoscere è fatica perché chiede ascolto e disponibilità a prestarlo, chiede apertura al nuovo, mi smuove dai miei pre-giudizi e pre-comprensioni che posso avere dello straniero, della sua cultura, e del suo approccio al mondo del lavoro.
In quell’anno toccammo con mano gli eccessi e le durezze verso gli immigrati a cui la non conoscenza può portare. In una cittadina della costa il sindaco aveva dato ordine alla polizia urbana di attendere in stazione gli immigrati che giungevano per vendere sulle spiagge, farli risalire e tornare indietro immediatamente. Il dialogo con lui non fu semplice, dietro alle sue posizioni vi erano gli interessi dei negozianti locali e mille pregiudizi su quegli uomini con grossi fardelli sulla schiena che ogni giorno scendevano e attraversavano la spiaggia, durante tutto il giorno e sotto il sole, cercando di vendere qualche cosa. Negli incontri con lui rasentammo il diverbio più volte e, solo di fronte al timore di una nostra manifestazione pubblica con stampa presente, tornò sui suoi passi ammorbidendo il comportamento.
Il cammino della conoscenza è certamente segnato dall’incertezza, perché di ogni incontro non è mai prevedibile l’esito, né è prevedibile il tempo necessario affinché dalla diffidenza si passi all’accoglienza, ma è un cammino necessario per evitare lo scontro tra gruppi etnici e tra civiltà. Chiede tempo e fatica, pazienza e franchezza ma non lo si può evitare pena lo scontro. La situazione e le tensioni avvenute a fine 2005 nelle banlieues di Parigi in un tessuto di seconda generazione di immigrazione ce lo dimostrano.
Lo straniero può rimanere straniero nel senso di estraneo anche dopo due o più generazioni se il tessuto sociale, e certamente la cultura, non opera quello sforzo di conoscenza e accoglienza che permetta una vita sociale in cui la diversità non è necessariamente separazione; in cui l’incontro tra culture non mette a rischio la mia identità, e l’eventuale meticciato non è un’epidemia da virus, ma una delle forme attraverso le quali l’umanità ha da sempre avuto scambi, incontri e relazioni. Relazioni che hanno permesso alle diverse culture di avere scambi, conoscenza e mutuo arricchimento. L’incontro con l’altro, il diverso è ogni volta un’occasione per approfondire chi sono io in rapporto a chi ho di fronte. Diversamente il rischio è la contrapposizione, in cui l’altro diviene il nemico e si fa dunque necessario costruire la barricata, porre il limite, armare la frontiera e difenderla come da un attacco bellico. Così accade oggi nel deserto che divide il Messico dagli Usa o vicino a Gibilterra negli avamposti spagnoli che dividono dal Marocco, e può essere per noi il mare Mediterraneo contro i boat people che tentano di attraccare nel nostro paese.
Ho in mente una frase che il responsabile dell’ufficio stranieri della caritas genovese disse durante uno degli incontri del gruppo di coordinamento tra gli uffici stranieri delle caritas (in sigla, non a caso, era stato definito GE.MI.TO) disse: “Chi ha fame non lo si può fermare: possiamo mettere tutti i nostri eserciti alle frontiere, ma prima o poi passerà”.
Forse non fu un caso che proprio in quei giorni di afflusso di immigrati e clandestini, una sera arrivò François, in un orario in cui il centro ascolto era chiuso. Disse di essere francese, in viaggio, zoppicava ed era stanco. Si fermò due giorni e lo accogliemmo con noi. Parlava poco, era schivo e disse poco di sé se non notizie vaghe. Dopo cena, a sera ormai tarda lo portai al pronto soccorso per quella gamba, aveva una ferita, vecchia di diversi giorni. I medici gli fecero tante domande su come se l’era procurata e, visto il suo silenzio, le porsero a me che non avevo alcuna risposta. Quando lo portai alla stazione ferroviaria mi sorrise e ringraziò. Solo allora capii che era fuggito dalla legione straniera e tornava da clandestino a casa. E così, in un gioco della vita e della storia, lui che era stato in Africa a combattere o a governare movimenti e flussi migratori, si è ritrovato accanto a chi era dall’altra parte, e aveva condiviso la stessa stanza e la stessa mensa, oppresso e oppressore, ora tutti e due stranieri e clandestini lontani da casa.
Intuii forse in quel momento che lo straniero non era solo il debole, lo sfruttato, l’emarginato, che accoglievamo e per cui rivendicavamo i diritti, ma poteva anche essere l’oppressore che caduto, diveniva anch’egli straniero e clandestino. Di fatto, di fronte a noi c’era e c’è sempre l’altro, l’uomo, che, pur nella sua complessità e anche nella contraddizione del suo essere uomo, porta sempre inscritta l’immagine di Dio.
Di quell’anno conservo una cartolina: una immagine di barche di pescatori colorate sulla spiaggia del Senegal; sull’oceano di sfondo poche righe:
prego Dio per te
firmato Mbake


N.B.Si riferisce a fatti e persone del 1989-90, scritto nel 2005-2006 mettendo insieme appunti e ricordi.
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