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Adalberto Mainardi Il monachesimo ortodosso

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In occasione dell'uscita del n. 4/2015 di "Dialoghi", un articolo di p. Adalberto Mainardi dal dossier "Ortodossi tra noi" a cura di mons. Mansueto Bianchi e di Piergiorgio Grassi.

«Monaco è chi è separato da tutti e unito a tutti». Questa celebre definizione di Evagrio (Sulla preghiera, 125) sembra trovare un’eco in Agostino: «Mónos significa “uno solo”. Coloro che dunque vivono in unità (in unum), così che sia vero nel loro caso ciò che sta scritto: un’anima sola e un solo cuore (At 4,32) ― molti corpi ma non molte anime, molti corpi ma non molti cuori ― giustamente sono detti ciascuno mónos, cioè uno solo» (Spiegazioni sui salmi 132,6).


La vocazione del monachesimo all’unificazione della persona – sul piano umano, affettivo, psicologico, spirituale – è anche una vocazione all’unità; la solitudine è uno strumento per vivere l’intimità con Dio e aprirsi alla comunione con tutto e con tutti. Il «dialogo dell’amore» tra la Chiesa di Roma e le Chiese ortodosse, dopo il Concilio Vaticano II, ha potuto trovare nel monachesimo, quando non si arrocca nell’intransigente difesa dell’identità confessionale, un’inesauribile risorsa di comunione nella preghiera, nella ricerca di Dio, nella vita comune tra fratelli.

Nel nostro paese, la crescente immigrazione di cristiani ortodossi dall’Europa orientale e di cristiani copti dall’Egitto, accanto alla storica presenza delle comunità greche, ha favorito negli ultimi decenni la nascita di piccole esperienze monastiche nella diaspora, che in qualche caso si propongono di riallacciare la tradizione del monachesimo bizantino nell’Italia meridionale. Il fenomeno ha rilevanza non solo all’interno dei confini confessionali, ma anche per il possibile irradiamento spirituale tra le chiese in dialogo.

Per coglierne il valore, è forse opportuno offrire uno sguardo più ampio al rapporto tra monachesimo occidentale e orientale, e accennare ― sia pur concisamente ― alla peculiare esperienza del monachesimo italo-greco.

L’orientale lumen

La Regola di san Benedetto († 560 ca.) rimanda espressamente il suo lettore ai «santi padri», in cui non è difficile scorgere gli iniziatori del movimento monastico in Oriente e nel deserto egiziano. Benedetto ha scritto solo una «minima regola per principianti», ma «per chi si affretta verso il culmine della vita di conversione, ci sono gli insegnamenti dei santi padri, la cui osservanza può condurre l’uomo all’altezza della perfezione». Dopo l’Antico e il Nuovo Testamento, Benedetto menziona «le Conferenze dei padri, e le loro Istituzioni e Vite, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio», che «per i monaci che vivono bene e sono obbedienti» sono irrinunciabili «strumenti di virtù» (Regula Benedicti 73,2-7).

Le fonti della Regula Benedicti sono state a lungo studiate. Benedetto conosceva la Regola di Pacomio (tradotta da Gerolamo nel 404), il Parvum ascetikon di Basilio (composto tra il 364 e il 375 e pervenuto nella traduzione latina di Rufino), e naturalmente le Collationes e le Istitutiones di Giovanni Cassiano, tramite per tutto il monachesimo latino della sapienza dei padri del deserto. Anche altre fonti della regola benedettina (la Regola dei quattro padri, la Regula Patrum II, la Regula Macarii e la cosiddetta Regula orientalis) tradiscono il loro carattere orientale, anche se composte in Gallia meridionale o (come alcuni ritengono più probabile) in Italia centrale.

In effetti, fino a Benedetto, il monachesimo occidentale era poco più che un riflesso di quello orientale, che rimaneva il modello e l’ideale. La nozione stessa di regola monastica, specie in Occidente, solo verso la fine del primo millennio assume il significato prevalente di «insieme di norme» che definiscono la «vita monastica». All’epoca di Benedetto, la «regola di vita» per il monaco era il Vangelo, accanto al quale stavano le parole e i consigli degli anziani, le testimonianze dei santi e dei martiri, autentiche sequentiae sancti Evangelii, parole del vangelo realizzate nella vita. I testi normativi monastici non pretendevano di sostituirsi alla vita vissuta, alla trasmissione dell’insegnamento spirituale da maestro a discepolo, che manteneva il primato.

Gregorio Magno cercò di diffondere la regola di Benedetto anche tra i monasteri greci della Sicilia e della Calabria, senza risultati duraturi. Ma i suoi Dialoghi, che narrano la vita del santo, tradotti in greco conobbero un’immensa fortuna in ambiente monastico, fino ai nostri giorni: nel refettorio del monastero athonita di Simonos Petra è raffigurato anche san Benedetto, con il rotolo della regola in mano.

Il monachesimo latino avrebbe messo l’accento soprattutto sulla dimensione comunitaria, «cenobitica» del monachesimo; ma anche qui, non è un’invenzione latina (il latino coenobium è un prestito dal greco koinòvion, «vita comune»), ma un’intuizione già sviluppata dal monachesimo pacomiano in Egitto. Le due dimensioni, comunitaria e anacoretica, del monachesimo restano in tensione. Anche se per l’Oriente realizzazione perfetta dell’ideale monastico è il solitario, altre soluzioni, accanto all’eremitismo puro, si affacceranno nel corso dei secoli, come il modello della «laura» palestinese, dove gli anacoreti vivono con una certa autonomia in celle sparse in uno stesso territorio, ma convergono per la sinassi eucaristica nella chiesa centrale. In epoca medio-bizantina prevale quella che è stata definita «sintesi microasiatica» (R. Morris), dove il “centro” è rappresentato da un vero e proprio cenobio in cui vivono la maggior parte dei monaci, mentre nelle vicinanze, con la benedizione dell’igumeno e dopo un lungo tempo di vita comune, vivono in stretta anacoresi i “kellioti”. È questo il modello cui s’ispirerà sant’Atanasio dell’Athos nella fondazione di Lavra (962-963), che segna l’inizio della fioritura monastica sulla Santa Montagna. E proprio all’Athos, dal x fino alla metà del xiii secolo (ben oltre le scomuniche del 1054), è attestata la presenza di un monastero di amalfitani, che «conducevano una vita esemplare organizzata secondo la regola e le disposizioni di san Benedetto» (Vita di Giovanni e Eutimio di Iviron, 27). Sono forse gli stessi che tradussero in greco i passi della regola benedettina (sulla funzione del portinaio, l’accoglienza dei monaci stranieri, la frequente lettura della regola ai candidati alla vita monastica) che figurano nella Hypotýposis della Grande Lavra atanasiana. I legami tra monachesimo italico (latino e greco) e orientale, per tutto il primo millennio, restano vivi e intensi.

Ogni volta che in Occidente sorge un movimento di rinnovamento e rinascita della vita monastica, è all’Oriente che si rivolge, alla tradizione del monachesimo ortodosso. Così nel xii secolo, nella Lettera d’oro ai certosini di Mont-Dieu, Guglielmo di Saint-Thierry saluta con gioia e commozione l’orientale lumen, «la luce dell’Oriente», cioè la ricomparsa di una vita anacoretica di tipo lauriota «nelle tenebre dell’Occidente e nei freddi delle Gallie».

Il monachesimo greco in Italia

Un episodio commovente nella Vita di san Nilo di Rossano († 1004) narra l’incontro tra i due monachesimi, greco e latino, entrambi presenti in Italia al volgere del primo millennio. Quando Nilo con i suoi monaci abbandona le terre di Calabria in preda alle scorrerie saracene e giunge a Montecassino, l’abate Aligerno e tutta la comunità dei monaci, «rivestiti degli abiti sacri come in un giorno festivo», gli vanno incontro per accoglierlo con tutti gli onori: «Sembrava loro di ascoltare e di vedere o il grande Antonio venuto da Alessandria, o meglio il grande Benedetto, il loro divino legislatore e maestro, risorto dai morti». All’igumeno greco, Aligerno cede il monastero dell’Arcangelo Michele a Vallelucio, prima tappa di quella peregrinatio che lo avrebbe condotto alle porte di Roma, a Grottaferrata; per parte sua, Nilo ammira «la regolarità e la disciplina bene ordinata» del monastero benedettino, e acconsente all’invito di celebrare un’ufficiatura in rito greco, affinché «Dio sia tutto in tutte le cose» (Vita Nili, 73).

Al termine della celebrazione, per la quale il santo rossanese «compose un canone in onore del nostro santo padre Benedetto», tutti i monaci con l’abate si raccolgono attorno a Nilo per quella che a tutti gli effetti è una collatio monastica nello spirito dei padri del deserto. Alla domanda quale sia «l’opera propria del monaco» e come si possa «trovare misericordia presso Dio», Nilo risponde: «Il monaco è un angelo e la sua opera è misericordia, pace e sacrificio di lode» (Vita Nili, 74). La risposta s’innesta pienamente in quella che gli studi di Enrico Morini hanno evidenziato come «sintesi italo-greca», fondata sulla virtù cardine dell’obbedienza, sul lavoro e il primato della liturgia, in cui «il privilegio studita al cenobio» si contempera con l’insopprimibile tensione alla solitudine, nella ricerca della quiete interiore («il fuoco dell’hesychia»). Non è un caso se il canone liturgico composto da Nilo per Benedetto esalti quegli aspetti della vita del santo che corrispondono all’itinerario monastico degli asceti italo-greci: la durissima ascesi solitaria in una grotta per trentasei anni e la successiva attività di legislatore della vita comune, quale «nuovo Mosè» e «nuovo Basilio».

Fu questa, infatti, a grandi linee, anche la parabola ascetica di santi quali Elia di Enna (o il Giovane, 823-903), o Elia lo Speleota († 960 ca.), Giovanni Theristis (995 ca.-1054), o ancora (già in epoca normanna) Bartolomeo da Simeri († 1130), eremita e poi fondatore del San Salvatore in lingua phari di Messina e del Patir di Rossano, per il quale ottenne da papa Pasquale II il privilegio dell’esenzione dalla giurisdizione del vescovo locale.

La coesistenza fraterna tra monachesimo latino e monachesimo greco, in quell’area che i geografi bizantini definivano «Occidente dei Romei», e che comprendeva grosso modo la Sicilia (fino alla dominazione musulmana nel ix sec.), le odierne Puglia, Basilicata e Calabria, prosegue ancora per un lungo tratto nell’epoca che Yves Congar ha definito dell’«estraniamento» tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente. Punto di non ritorno di questa progressiva separazione è la quarta crociata del 1204, il sacco di Costantinopoli da parte dell’esercito crociato e l’erezione di un patriarcato latino.

«Brasiliani» è il termine moderno, in uso dal xv secolo, con cui furono designati i monaci dei monasteri greci in Italia. Raccolti in congregazione (sul modello di Santa Giustina) da papa Gregorio XIII nel 1579, persero il legame vivo con il monachesimo ortodosso, che ormai attraversava la lunga cattività ottomana.

Ultimo glorioso testimone di «quel monachesimo ellenofono del mezzogiorno d’Italia, che fu insieme componente altamente qualificata dell’ecumene monastica dell’Oriente ortodosso e patrimonio inalienabile della civilizzazione italiana» (E. Morini), la Badia greca di Grottaferrata persevera fino ad oggi nel rito bizantino antico, e nella conservazione di una ricchissima biblioteca. L’assiduità della preghiera custodisce la nostalgia della Chiesa indivisa.

Esperienze contemporanee

Nel xx secolo il monachesimo ortodosso vive un tempo di prova dolorosa, insieme con la maggior parte delle chiese ortodosse e orientali: le persecuzioni cruente in Russia, il genocidio armeno, le guerre balcaniche, l’esilio della popolazione greca dall’Asia minore, i regimi comunisti in Europa orientale… La diaspora ortodossa in Europa occidentale e in America, intanto, sviluppa un’importantissima tradizione teologica, che rappresenta una potente attrazione verso l’Ortodossia.

Dagli anni Settanta, dopo un lungo periodo di declino, il monachesimo athonita conosce una sorprendente rifioritura; nello spazio ex-sovietico, il monachesimo riprende vita con un’eccezionale crescita del numero di monasteri, che avviene in modi diversi anche in Romania, Serbia, Bulgaria. I monasteri sono un punto di riferimento per i fedeli: i monaci inviati nella diaspora svolgono un compito di assistenza spirituale alle comunità ortodosse di nuova immigrazione.

Le comunità monastiche ortodosse in Italia sono poche e poco numerose. In alcuni casi, i nuovi romitaggi rappresentano l’approdo di personali cammini di conversione all’Ortodossia. Il sito della Sacra Arcidiocesi d’Italia e Malta, del Patriarcato di Costantinopoli, riporta in dettaglio i monasteri esistenti e i nomi dei responsabili. Tra questi, il monastero femminile della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara, a Montaner di Sarmede (Treviso), dove dal 2000 vive un piccolo gruppo di monache guidate dall’igumena madre Sebastiana, rappresenta un felice esempio di accoglienza e interazione con la realtà civile ed ecclesiale circostante. L’archimandrita Atenagora Fasiolo segue l’aspetto ecclesiastico della comunità e celebra le funzioni liturgiche.

Un altro monastero femminile della stessa giurisdizione, quello dei santi Elia il Nuovo e Filareto l’Ortolano, a Seminara (Reggio Calabria), è attivo dal 2005, sotto la guida dell’igumena madre Stefania. Il katholikon (cioè la chiesa principale) è stato costruito in stile aghiorita con il contributo della Regione Calabria. Presso il monastero è attivo un Centro accoglienza Migranti, curato dalle stesse monache. A Revello, in provincia di Cuneo, esiste dal 1992 il monastero maschile di San Basilio Magno, retto dall’archimandrita Gabriele.

Nel 1994 padre Kosmas Aghiorita (al secolo Andreas Papapetrou), monaco di Lavra, con l’aiuto finanziario delle amministrazioni locali, iniziò il restauro dell’antico monastero bizantino di San Giovanni Theristis, nel comune di Bivongi (Reggio Calabria), per ricominciarvi la vita monastica con alcuni athoniti. Sollevato dall’incarico nel 2005 dai superiori, con una decisione che fece scalpore sulla stampa locale, padre Kosmas si ritirò sulla Santa Montagna, dove morì nel 2010. Dal 2008 il comune ha affidato (per novantanove anni) l’edificio del monastero a monaci della Chiesa ortodossa romena. Al patriarcato di Mosca appartiene il monastero di San Mamante (Pistoia), fondato nel 2009 grazie alla donazione di un privato.

L’antico rito della chiesa copta ortodossa da vent’anni si celebra anche a Lacchiarella, presso Milano, nel monastero dedicato a Papa Anba Shenouda III, che ne aveva acquistata la proprietà nel 1989. Ricostruito nel 1996 dal vescovo Anba Kirolos, ospita ora nove monaci, che vivono in comunità e si prendono cura della numerosa comunità copta in Lombardia.

Alla domanda: «Che cos’è proprio del cristiano?», Basilio rispondeva: «Amarsi gli uni gli altri, come Cristo ci ha amati (cf. Gv 13,34-35)» (Regole morali 80,22). Quando parla del monaco, Basilio parla del cristiano; e quando traccia la vita cristiana radicale, definisce il monachesimo. La silenziosa testimonianza delle presenze monastiche ortodosse in Italia, in una vita fatta di solitudine, preghiera e lode a Dio, ma anche di lavoro e servizio agli stranieri, di relazioni fraterne e contatti ecumenici, è forse il pegno del ritorno prossimo di quella fraternità che faceva accettare con gratitudine ad Atanasio il caviale che i monaci amalfitani gli portavano in dono.
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