Sabino Chialà «Torniamo a essere comunità che insegna a pregare»
Priore del monastero di Bose
Avvenire 14 novembre 2024
Si può discutere sul significato dei dati emersi dalla recente ricerca Censis “Italiani, fede e Chiesa”.
Si tratta di percentuali variamente interpretabili e, comunque, di numeri il cui valore assoluto, in
una logica di fede, non è lo stesso che potrebbero avere in un altro contesto. Ad ogni modo sono
utili provocazioni a pensare, soprattutto alla vigilia di una tappa importante del Sinodo della Chiesa
italiana.
Non mi soffermo sul divario tra un 71,1 % che si dice “cattolico” e un 15,3 % che si dichiara
praticante. Il dato, invece, dal quale parte la mia riflessione è quello relativo alla vita spirituale e
alla preghiera. Risulta interessante notare che il 66 % degli italiani dichiara di “pregare”, poiché si
“rivolge a Dio o a un ente superiore”. Una pratica in cui si investe anche il 65,6 % dei cattolici non
praticanti (cioè che non frequentano luoghi di culto) e addirittura l’11,5 % dei non credenti (sic!).
Altro dato interessante è che la prima ragione per cui si avverte il bisogno di “pregare” è il fatto di
“vivere un’emozione particolare” (39,4 %) e al secondo posto, a breve distanza, viene “la paura e la
richiesta di aiuto”, con un 33,5 %. Infine, per la maggior parte (52,7 %) la pratica di una qualche
spiritualità è un’esperienza individuale e dal 54,4 % essa è vissuta come un’occasione in cui
riflettere su se stessi e conoscersi meglio.
Cercando di far dialogare questi dati, mi sembra di cogliere da una parte uno spiccato bisogno di
accedere ad una dimensione che possiamo variamente definire come “spirituale”, tenuto conto
dell’ambivalenza di questo termine, e dall’altra un’esplorazione di tale dimensione che risulta
solitaria, emozionale e ripiegata su se stessi. L’esigenza è dunque evidente, benché espressa in
modo disarticolato. Ma di questo non c’è da stupirsi. Già l’apostolo Paolo, in uno dei suoi discorsi
più audaci, all’areopago di Atene, parla di una ricerca “a tentoni” (At 17,27). Si tratta della ricerca
di chi avverte un bisogno da cui parte l’esplorazione di possibili risposte. Sarebbe invece
preoccupante se a questo dato la comunità credente reagisse con disprezzo e superficialità o non ne
tenesse conto, e il cammino sinodale in atto ha qui una grande responsabilità. La domanda è quasi
sempre informe. Grave è se lo fosse anche la risposta!
Dinanzi a questo bisogno la Chiesa è interpellata a una seria riflessione sul tema dell’iniziazione
cristiana (degli adulti più che degli adolescenti), che passa per una valutazione del già fatto (che in
parte si riflette nei numeri su riportati) e per decisioni coraggiose che progettano il futuro. Ed è
interpellata sul modo in cui vive la liturgia e sull’intelligibilità dei suoi linguaggi. Due temi non di
poco conto, ma essenziali perché costituiscono il fondamento. Per questo la Chiesa ha bisogno di
rimettere al centro la sua vocazione a consentire l’incontro dell’essere umano e il suo anelito
profondo con il Dio di Gesù Cristo. Ha bisogno di ridiventare luogo in cui innanzitutto s’impara a
vivere con Gesù Cristo, nello spazio della comunione con fratelli e sorelle. Le indicazioni del primo
sommario degli Atti restano per questo valide più che mai: “Erano perseveranti nell’insegnamento
degli apostoli, nella comunione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2,42). Sono
gli strumenti che possono rendere la comunità cristiana sempre più se stessa e dunque capace di
cogliere e di rispondere al desiderio disarticolato, ma sincero, di chi cerca a tentoni.
E forse, oggi più che mai, c’è bisogno che la comunità credente ridiventi un luogo in cui s’insegna a
pregare, piuttosto che un luogo in cui si parla di Dio o si dettano comportamenti. Luogo in cui
s’impara quella difficile arte per la quale anche i discepoli – unico caso! – chiesero a Gesù che
facesse loro da maestro: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi
discepoli” (Lc 11,1).