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In memoria di Paolo Ricca: un uomo della parola (Ferrario, Salvarani e Garrone)

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Professore di Teologia dogmatica 
presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. 

Ci sarà tempo per ripercorrere l’opera di Paolo Ricca, morto a Roma nella notte tra il 13 e il 14 agosto, quando sembrava aver superato l’impegnativa operazione che aveva subito pochi giorni prima. In questo momento, tuttavia, l’elenco, che sarebbe infinito, delle pubblicazioni, degli interventi, delle dimensioni del suo impegno, mi appare un poco convenzionale. Vorrei allora ricordare Paolo Ricca concentrandomi su un unico aspetto: è stato un uomo della parola

Un uomo della parola di Dio. Una passione infinita per la Bibbia, che per lui non era anzitutto oggetto di studio, ma luogo quotidiano nel quale incontrare la promessa di Dio di rivolgersi a lui. 
Certo, non era un fondamentalista, non identificava la Bibbia in quanto tale con la parola di Dio, in accordo, anche in questo, con tutta la tradizione protestante. La parola di Dio è la realtà del Cristo presente, nuova ogni giorno, per opera dello Spirito santo. Al tempo stesso, non c’è rapporto con la parola del Signore se non attraverso la Bibbia. E la teologia, che Paolo amava profondamente, non è altro che un tentativo di studiare la Bibbia. 

Le parole per celebrare questo suo amore le cercava spesso (non solo, naturalmente) in Lutero, del quale è stato lettore, traduttore, interprete e divulgatore. Ma Lutero è interessante perché aiuta a capire la Bibbia e il suo centro, Gesù Cristo. In nome di Cristo, e di Cristo soltanto, in nome della passione per la parola di Dio, Paolo Ricca era protestante. Il suo non era un protestantesimo angusto, settario, chiuso nella polemica. Al contrario, la sua fede evangelica lo ha condotto all’ecumenismo, che ha praticato con grande audacia e determinazione. Questa apertura, che ne ha fatto veramente un doctor communis, ascoltato e amato nelle diverse chiese, si legava però a una profonda passione, vorrei dire a un patriottismo protestante: espressione di gratitudine per la chiesa evangelica che gli ha testimoniato la parola del suo Cristo (come si sarebbe espresso Lutero, appunto). Questa chiesa, egli lo ripeteva assai spesso, non ha il monopolio dell’evangelo, tutt’altro, è anzi intrisa di infedeltà. Ma quell’ascolto, quella concentrazione, quel carattere esclusivo, soprattutto, quella libertà fresca e anche un po’ inebriante, della parola di Cristo, Paolo lo ha vissuto nella chiesa della Riforma e ha insegnato ad altri e ad altre (di nuovo: senza settarismi) a fare altrettanto. 

Paolo Ricca, poi, è stato un uomo della parola umana al servizio della parola di Dio, anzitutto nella predicazione. L’espressione «un grande predicatore» è equivoca, può voler dire tante cose anche sbagliate, ma non saprei individuarne un’altra migliore. Naturalmente è stato anche un grande oratore, ma non è tutto lì. C’era la chiarezza, il dominio del tema e della lingua, la capacità di coinvolgere chi ascolta, la ricchezza, e insieme la semplicità, dei riferimenti; c’era la fiducia in queste proprie capacità, sfruttate senza risparmio, in un’identificazione totale tra la propria persona e il proprio compito. Oggi molti/e avrebbero da dire proprio su questo aspetto, ma certamente di più sono le persone che ne sono state coinvolte e, come si dice con espressione troppo spesso banalizzata ingiustamente, «edificate». Paolo amava la parola umana e amava pronunciarla, amava predicare, amava parlare, per diverse ragioni, ma la principale era la fiducia nella promessa di Dio di parlare egli stesso attraverso di lui, promessa che, io credo, è stata generosamente esaudita. 

Con «predicazione», naturalmente, non mi riferisco solo al “sermone”, come noi protestanti italiani ancora lo chiamiamo. Paolo Ricca predicava insegnando, tenendo conferenze, dialogando con Gabriella Caramore a “Uomini e Profeti”, anche scrivendo. Naturalmente neanche il grande comunicatore (lo era, senza dubbio alcuno) può “evocare”, mediante la propria parola umana, la parola di Dio. Lo si è già detto, essa è miracolo, può essere solo invocata. In Paolo, però, l’amore profondo per la parola umana e la gioia di pronunciarla, era, io credo, testimonianza. Era facilissimo essere fan di quest’uomo, ma anche praticamente impossibile limitarsi a quello. Chi lo ha ascoltato non ha potuto non chiedersi: E se per caso, ciò di cui sta parlando, in questo modo affascinante, fosse vero? 

Forse è questo un «grande predicatore», o una grande predicatrice: chi ti costringe a porti questa domanda. 

Fonte: Confronti 

È morto la notte tra il 13 e il 14 agosto a Roma il teologo valdese Paolo Ricca. Allievo di Oscar Cullmann e Karl Barth, aveva partecipato come osservatore al Concilio Vaticano II, creando nei lunghi anni della sua vita e dei suoi studi un forte consenso ecumenico. Ne onoriamo la memoria attraverso il ricordo e le parole del collega e amico di Brunetto Salvarani. 

«Ha senso parlare dell’aldilà, sapendo di non saperne nulla? Fin dall’antichità più remota sono state formulate sull’argomento molte teorie, tutte ipotetiche, alcune, forse, più plausibili, altre meno, che meritano di essere conosciute prima di venire eventualmente scartate. Il fatto incontestabile che non ci siano certezze… non impedisce di ritenere che qualcosa, pur non essendo certo, sia possibile, a cominciare dalla possibilità che esista un aldilà, nel senso di una vita oltre la morte. Non ci sono prove che un aldilà o la vita oltre la morte esistano, ma neppure che non esistano. L’aldilà non è certo, ma è possibile». 

Così si esprimeva, in occasione dell’uscita per Claudiana, nel 2018, di un suo libro prezioso intitolato Dell’aldilà e dall’aldilà. Mentre poche settimane fa, a una domanda su come stesse, rispondeva: 

«Sto bene, grazie, sono in piedi. Alla mia età (88 anni compiuti) non va da sé, e ogni giorno è ricevuto e vissuto come un regalo, se si è in condizioni di salute buone o almeno discrete… Certo, il peso degli anni, come si dice, si fa sentire. Ma la vita resta un miracolo quotidiano. Ogni risveglio mattutino è una parabola della risurrezione dai morti. Nel Nuovo Testamento, lo stesso verbo risvegliare descrive sia il risveglio quotidiano dal sonno, sia quello definitivo dalla morte…». 

Impossibile, per me, non ripensare a queste sue riflessioni realistiche, oggi che Paolo Ricca è morto, in un cordoglio unanime le cui tracce sono percepibili anche sui social, e che può constatare direttamente quanto si chiedeva, nel sottotitolo di quel volume: Che cosa accade quando si muore? 

Devo ammettere, peraltro, che mi è difficile pensarlo al passato, per cui scelgo di utilizzare qui, in barba alla grammatica, il presente indicativo. D’altra parte, Paolo è stato attivo fino alle sue ultime settimane, intervenendo almeno online a convegni e seminari di ogni genere, con una generosità e una disponibilità che chiunque abbia avuto a che fare con lui non può non risconoscergli. 

Divulgatore e conferenziere 

Provo a scrivere qualcosa di lui, ben sapendo che occorrerà tempo e una distanza da queste ore dolorose per rendere conto, almeno parzialmente, della sua rilevanza indubbia nella vicenda del cristianesimo italiano, europeo e mondiale dell’ultimo mezzo secolo. Perché il pastore Ricca ha rappresentato l’immagine del protestantesimo nazionale come nessun altro, il suo volto più noto e apprezzato, con un’autorevolezza decisamente indiscussa. 

Nasce nel 1936 nel cuore delle Valli valdesi, a Torre Pellice, e dopo la maturità classica conseguita a Firenze inizia gli studi teologici, che lo portano prima alla Facoltà valdese di Roma e poi negli Stati Uniti e a Basilea. Nella città svizzera incontra il teologo luterano Oscar Cullmann, di cui diviene allievo, e lo stesso Karl Barth, forse il teologo chiave del secondo Novecento (in un’intervista ammetterà che di Barth ricorda tante cose, ma quella che più gli è rimasta in mente è la sua capacità di sorridere di se stesso, cioè di non prendersi troppo sul serio, perché solo i grandi raggiungono questo livello di sapienza). 

Dopo aver svolto il ministero di pastore nella chiesa valdese nel Lazio e in Piemonte, segue i lavori del Concilio Vaticano II come giornalista accreditato. Per molti anni insegnerà, prevalentemente storia della Chiesa, presso la Facoltà valdese: ma accanto all’attività accademica è fondamentale per lui quella di divulgatore e conferenziere in tutta Italia e all’estero. 

Molto apprezzati – fra l’altro – i suoi interventi alle sessioni estive del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), alle trasmissioni televisive di Protestantesimo e a quelle radiofoniche di Uomini e profeti. Ricordo fra l’altro il suo racconto relativo alla collaborazione con Roberto Benigni, nel 2014, per la realizzazione delle due puntate della lettura e spiegazione su Raiuno dei Dieci comandamenti, e la vivace cena dell’attore toscano, con moglie, a casa Ricca… 

Passione e impegno per l’ecumenismo 

Impegnato da sempre con lucida passione nel dialogo ecumenico, Paolo ama affermare di sentirsi parte di quella Chiesa invisibile, di cui era «diventato servitore, per annunciare nella sua totalità la parola di Dio» (Col 1,25). Lamentandosi, semmai, del fatto che, nonostante le diverse iniziative di dialogo in corso, il condominio cristiano è purtroppo ancora strutturato in appartamenti separati dove ogni confessione vive per conto suo. 

Con una speciale attenzione alla vicenda, tuttora irrisolta, dell’intercomunione fra le Chiese. La questione della comune partecipazione di tutti i cristiani all’unica mensa del Signore è infatti, com’è noto, uno dei più gravi nodi ecumenici, da molti secoli, e non sembra che una sua soluzione sia alle porte. 

Al riguardo Ricca si spinge a parlare sul settimanale ufficiale del protestantesimo storico italiano, Riforma, di apartheid eucaristico, sottolineando che si tratta di un drammatico paradosso: proprio la cena che Gesù ha celebrato per unire i discepoli a sé e tra loro, nel dono della sua vita e della sua persona, quella cena istituita per essere il più alto segno e strumento di unità e comunione, è diventata, nelle mani dei cristiani, occasione e ragione di dispute infinite, reciproche scomuniche, divisioni. 

Da parte sua, sostiene da sempre che la via maestra per l’ecumenismo è quella indicata, già negli anni Ottanta, dal suo maestro Cullmann, l’unità attraverso la diversità (richiamata anche da papa Francesco nell’Evangelii gaudium): 

«Conformemente alla sua stessa natura, lo Spirito santo esercita una azione diversificante. E tuttavia questa azione non porta a una frammentazione. Ogni membro del corpo prosegue la sua missione che è orientata verso l’unità; avviene lo stesso per i membri della comunità di fedeli. È in questa diversità che risiede la profusione della pienezza dello Spirito santo. Chiunque non rispetta questa ricchezza e vuole l’uniformità, pecca contro lo Spirito santo. Anche l’uniformità è un peccato contro lo Spirito santo». 

Autore di moltissimi scritti, libri e testi di studio ma anche divulgativi, Paolo Ricca ha contribuito a formare generazioni di credenti ma anche non credenti. Il suo lavoro, infatti, è stato apprezzato da numerose persone di fedi diverse. 

Il Sinodo cattolico e le Chiese sorelle 

Personalmente, sono svariati i ricordi che mi legano a lui, a confermare la sua apertura a 360 gradi, senza disdegnare anche le piccole platee e le iniziative di provincia: così, alla rinfusa, mi tornano alla mente le sue presenze ai convegni di QOL (e la sua felicità nell’apprendere che per la notte sarebbe stato ospitato presso le sorelle minori cappuccine dell’eremo di Salvarano, sul primo Appennino reggiano, cui voleva un gran bene). 

Il suo scritto sull’onnipotenza e la fragilità di Dio che mi donò nel 2012 per il libro La fragilità di Dio, ispirato dal nostro terremoto emiliano del maggio di quell’anno; e il suo intervento che tenne a battesimo a Novellara, con quello di Bruno Segre, la neonata Fondazione Pietro Lombardini per gli studi ebraico-cristiani; e molte altre volte… 

O quando, anni fa, accettò di partecipare, diventandone ospite fisso fino a poche settimane or sono, a una coraggiosa iniziativa che da tempo si tiene a luglio – a cura della diocesi piemontese di Acqui Terme – a Garbaoli, casa estiva dell’Azione Cattolica, una due giorni ecumenica. 

Nel 2021 il tema dell’iniziativa è la «sinodalità», in occasione dell’imminente Sinodo della Chiesa cattolica italiana. Collegato da casa, Ricca riflette su un argomento non scontato: Che cosa si attendono dal Sinodo le Chiese sorelle che sono in Italia. Sottolineando da subito come fosse la prima volta, per lui (ma non soltanto per lui, verosimilmente), che dalla Chiesa cattolica giungeva una richiesta del genere; e che una simile richiesta, dopo l’esperienza degli osservatori non cattolici dei cosiddetti fratelli separati al Vaticano II, segnava ai suoi occhi una vera svolta in ambito ecumenico. 

Il suo è un intervento prezioso e per nulla retorico, in cui egli si sofferma sul senso autentico della sinodalità, elemento caratterizzante della tradizione valdese, evidenziando due questioni previe a suo parere cruciali: la composizione del Sinodo (o del cammino sinodale, come hanno scelto di definirlo i vescovi italiani), da un lato, e i suoi poteri e prerogative, dall’altro. 

Ricca ammette apertamente che, tra le sue aspettative, c’è quella di essere invitato, ovviamente come Chiesa e non solo come semplice osservatore senza diritto di parola (come avviene regolarmente, a parti invertite, in occasione dell’annuale Sinodo valdometodista). Mai dimenticando che, in realtà, noi cristiani appartenenti a Chiese tra loro divise, siamo già «una cosa sola», secondo l’auspicio di Gv 17,20-26, in quello che possiamo chiamare l’essenziale cristiano. 

L’essenziale cristiano 

Qual è questo essenziale cristiano? A suo dire, è la fede nel Dio trinitario e in Gesù veramente uomo e veramente Dio: ecco la fede che è comune a tutti i cristiani. A suo parere, ciò dovrebbe essere sufficiente per dichiararci uniti in ciò che è costitutivo del nostro essere cristiani, cioè ciò che veramente conta, vale e qualifica come cristiani… ma le chiese, spesso, sembrano non crederci: credono più nella loro divisione che nella loro unità! 

Certo, ci sono differenze, anche grosse, ma sono davvero essenziali, cioè vitali per la fede cristiana? Ad esempio: il papato è essenziale per la fede cristiana? Per i cattolici, forse, sì, ma non per gli ortodossi né per i protestanti. Come nel secolo apostolico, così nella storia della Chiesa si sono manifestati diversi tipi di cristianesimo: si può essere diversi senza essere divisi; è però indispensabile che ciascuno accetti la diversità dell’altro. Altrimenti non si avanza verso l’unità… 

Negli ultimi anni, la sua riflessione si concentra sulla questione decisiva, la questione di Dio: nel 2022, dà alle stampe un volume poderoso, Dio. Apologia, per la Claudiana. La sua tesi, diretta, è che oggi le Chiese parlano poco di Dio. Sul piano liturgico ne parlano anche troppo, come sempre: messe, culti, battesimi, funerali, cerimonie e riti vari continuano come prima, e tutto avviene nel nome della Santissima Trinità. Ma questo Dio liturgico, per dir così, gli sembra un Dio addomesticato, funzionale al funzionamento della Chiesa, un Dio rassicurante che non disturba nessuno. 

È nell’annuncio pubblico della Chiesa che egli sentiva di dover registrare un impressionante silenzio su Dio: «Ci preoccupiamo tanto di un presunto silenzio di Dio, ma forse dovrebbe inquietarci di più il silenzio su Dio». 

Siamo cristiani in fieri 

È persino banale affermare che Paolo Ricca mancherà, e molto, non solo ai suoi fratelli e sorelle della chiesa valdese, ma a quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo o di ascoltarlo nella sua straordinaria eloquenza. Ma il suo lascito resta, la sua eredità è enorme, ed è facile pronosticare che durerà nel tempo. 

Ora è il tempo delle lacrime per questa perdita gravissima, ma anche quello del ringraziamento a Dio per aver potuto fare un pezzo di cammino con lui. Con un cristiano che, rispondendo a una domanda su perché mai egli sia diventato valdese, dichiarava: 

«Sono nato in una famiglia valdese, anzi, mio padre Alberto era anche lui pastore. Però non basta nascere in un contesto familiare valdese per diventare valdese. Ho impiegato tutta la vita tentando di diventare cristiano perché, come diceva Kierkegaard, siamo tutti aspiranti cristiani. Diventare valdese ha un senso come tappa per diventare cristiano. Ma non lo si diventa mai compiutamente. Siamo cristiani in fieri. Bisogna che Cristo venga e, nella sua misericordia, faccia anche di me, col suo perdono, quel cristiano che non riesco a diventare».




Roma (NEV), 17 agosto 2024 – L’ampia e crescente risonanza della notizia della sua morte è un segno tangibile di quanto Paolo Ricca fosse non solo noto e stimato, ma anche amato. Quante volte, nei contesti più diversi, in Italia, come in Germania o in Svizzera o in Francia o negli Stati Uniti, ci siamo sentiti dire, e dagli interlocutori più diversi: “Ho conosciuto Paolo Ricca”, e spesso “Come sta Paolo Ricca?”. Il protestantesimo italiano, in primis quello delle chiese riunite nella Federazione, ha per decenni avuto in lui un esponente autorevole, in ambito ecumenico, nelle relazioni con le chiese sorelle, nello spazio pubblico. 

L’incontro con lui come oratore o predicatore, come docente o come membro di un gruppo di lavoro, perfino se episodico, lasciava sempre una traccia e, se seguito da un colloquio, spesso faceva nascere un legame, al quale non si sottraeva, spesso coltivandolo con la corrispondenza o il telefono. Era difficile che rifiutasse un invito, anche sapendo che avrebbe dovuto affrontare la fatica di un viaggio o che lo avrebbe atteso un uditorio esiguo. Questa disponibilità lo ha caratterizzato fino agli ultimi giorni della sua vita. 

Sapeva costruire ponti, ispirando simpatia e generando fiducia. In ambito ecumenico, anche con interlocuzioni che altri avrebbe ritenuto impossibili, lo guidava la convinzione che la fede comune, seppur vissuta in forme diverse e a volte dissonanti se non dissenzienti, dovesse per sua natura condurre all’incontro e aprirsi al dialogo, che non si alimentava con abili strategie o accorte mediazioni, ma consisteva in un passo in avanti verso l’unico Signore che tutti ci chiama. L’incontro non è a metà strada dalle nostre posizioni attuali, ma più avanti. Per le piccole realtà protestanti ed evangeliche in Italia; per le più o meno grandi denominazioni protestanti in Europa o oltre Oceano, per il rapporto con il cattolicesimo romano. 

Forse traspare di meno, vista l’imponenza della sua opera di oratore e di scrittore fecondo e dalla prosa di illuminante chiarezza e di grande vigore – come del resto i suoi discorsi, dalle lezioni accademiche alle conferenze – ma Paolo Ricca è stato un uomo di visioni e progetti. Era convinto che quando si hanno posizioni di responsabilità nella chiesa, non basta gestire al meglio l’esistente, bene operare con quel che c’è, bisogna avere “un progetto”, individuare ciò che manca e cercare di costruire, sensibilizzando e mobilitando chi può sostenere l’idea, affrontando le obiezioni di chi per prima cosa vede gli ostacoli. 

In una vita poliedrica come la sua e vissuta con intensità in ogni sua dimensione è difficile attribuire più peso a un aspetto, ma certamente non si poteva non essere colpiti dalla sua passione per la predicazione, cioè per “dire Dio” in pubblico, parlare di Dio – e non in primo luogo di morale, di saggezza – ascoltando e ridicendo ciò che Dio dice lui, attraverso le parole della Scrittura. Ogni testo era per lui da scavare, per poi dire non l’impressione che ci ha fatto, ma ridire ciò che abbiamo udito nel corpo a corpo con una parola che viene da fuori di noi. Si trattava per lui di parlare di Dio nell’attesa fiduciosa che Dio parli e parli a noi, per noi, come aveva imparato dal suo amato Lutero. Parlare di Dio senza eludere nessuna domanda, anche scomoda, senza sottrarsi a nessuna inquietudine, a nessun dubbio, a nessuna sfida … 

La sua vita è stata una continua e appassionata interlocuzione su Dio, davanti a Dio, sapendo che si può contare sul fatto che Dio parla. Credo che Paolo Ricca non mi redarguirebbe se riassumessi la passione che ha mosso tutta la sua poliedrica attività e il fine che si prefiggeva, con il termine “predicazione”. Che si trattasse di sondare la storia della chiesa o i grandi temi della teologia, che si trattasse di approfondimenti accademici o di divulgazione, di ecumenismo o impegno civile, di cura d’anime o di prendere sul serio interrogativi critici, il motore e lo scopo erano sempre l’ascolto del Dio che parla e del quale perciò possiamo, anzi dobbiamo, parlare. 

Nella tristezza per la sua scomparsa, si scopre la gratitudine per quello che ci ha dato e insegnato. Una cospicua eredità, ma anche una grande responsabilità. 

Daniele Garrone, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI)

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