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Dubitando in piena certezza. Un ragionamento sul rapporto fra fede e dubbio

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Dubitando in piena certezza.
Un ragionamento sul rapporto fra fede e dubbio
di Cristina Simonelli
Messaggero cappuccino agosto/settembre 2024

Affrontare in poche battute un tema di questo genere, su cui si possono leggere tante cose decisamente utili, per niente banali e sicuramente molto documentate, è certamente un azzardo. Provo una via più facile di altre: a partire da un vecchio ricordo e dalle sue ambiguità, torno a leggere alcuni luoghi densi e buoni per me, spero così anche per altri. Suggerendo tra il resto di liberare un po’ le parole e trasformare i sostantivi almeno in verbi, magari di quelli che, forzando la grammatica al significato, potremmo dire incoativi e di processo. 

La fede del carbonaio 

Da studentessa dei primi anni delle scuole superiori ero una appassionata lettrice di Raoul Follereau, a cominciare da “Se Cristo domani busserà alla tua porta”. Sono stati versi e riflessioni che mi hanno indirizzato, spronato, dato forma. In una di quelle raccolte c’era anche una poesia in cui si ripeteva a intervalli un verso che cito ora a memoria: “Ho la fede del carbonaio, io”. 
Dopo averci pensato su un bel po’ e anche con un po’ di perplessità, ero arrivata alla conclusione che volesse indicare una fede semplice, senza complicazioni. Non voglio soffermarmi su quel libro e quell’autore, né certo sopravvalutare le mie domande di allora, ma le amplifico comunque nella mia visione di oggi. 
Anche sulla semplicità, infatti, è bene intendersi: non parlo di quella che ritiene che la guerra sia una follia da evitare e che ogni essere umano sia degno di rispetto oltre che di vita. Tuttavia, come dietro a discorsi complicati potrebbero nascondersi semplicemente le scuse per sottrarsi al bene comune, così dietro a esibite semplificazioni potrebbe annidarsi il rifiuto della complessità, cosa che con la fede striderebbe veramente. L’immaginario che potrebbe accompagnare una fede senza domande, senza perplessità e anche senza dubbi può essere quello dell’obbedienza cieca e assoluta del sottoposto al suo generale. E i comandanti, si sa, conoscono varie scale in crescendo, dal parroco al/la responsabile di movimento e congregazione, alla gerarchia ecclesiastica fino alle proiezioni su Dio: credere obbedire combattere, insomma. A questo immaginario corrisponde una fede rocciosa e minacciosa, che può schiacciare non solo eventuali destinatari dell’annuncio, ma anche gli stessi soggetti che si riconoscono in una simile figura. 
Mi piace invece pensare l’affidarsi che corrisponde alla fede sull’immaginario di chi scala una montagna, mani e piedi sugli appigli: se le quattro estremità stanno rigidamente attaccate, l’alpinista si “incroda”, non potrà neppure muoversi. È necessario tenere alcuni degli appigli, ma lasciare gli altri, per cercarne di nuovi e fidarsi dell’operazione: e così spostarsi, avvicinarsi alla meta. 

Compagni sulla strada 

Della gamma di significati già segnalati – domande, perplessità, dubbio – si trovano evidentemente molteplici riferimenti evangelici. Ne riprendo solo alcuni, semplicemente come sfondo da condividere, seguendo man mano l’alzarsi e il radicalizzarsi della posta in gioco. Perché certo in ogni domandare, se è autentico e non banalmente retorico, è presente la possibilità di rimanere nella domanda e di prevedere diverse possibili risposte. Rabbi dove abiti (Gv 1,38) così come “sei tu o dobbiamo aspettare un altro” (Lc 7,20), come “domandarsi che significa risorgere dai morti” (Mc 9, 10) possono essere questioni puntuali, ma anche e forse soprattutto sono modi di chiedersi se e come porsi alla sequela di quel singolare personaggio di Nazaret. In fondo quel “dove abiti/dimori” è la dimensione di ricerca di luoghi e di significati che sempre ci accompagna: nella comunità riunita e fuori di essa, simultaneamente, a chiamarla all’attraversamento di mura e di confini, di interpretazioni e di provvisorie sicurezze. Così come ogni nascita e ogni morte, forse ogni celebrazione eucaristica (ma questo non è garantito), rappresentano la domanda radicale su cosa significa nascere morire rinascere. 
Un domandare che deve diventare anche perplessità sulle facili risposte, necessarie solo nella misura in cui vengono costantemente tenute e insieme sorpassate, sorpassate e nuovamente formulate. Dubitare certo è anche qualcosa di più: è almeno la possibilità che le affermazioni fatte siano vuote: senza questa possibilità, mi sembra di poter dire, non c’è fede, ma solo attaccamento rigido e spasmodico. 
Forse è questo, dunque, l’orizzonte che attraversa un brano che diversamente sembrerebbe un pronunciamento dogmatico: la finale di Matteo 28, 16.20 così impegnativa con quel ricorso – unico in tutto il Nuovo Testamento – di un battesimo trinitario e con l’invito non solo a fare discepoli ma anche a insegnare loro a osservare quanto comandato, con un verbo tecnico dell’osservanza delle norme, rompe la scena assertoria con una semplice osservazione: dubitavano. Con un presente assoluto e intransitivo: di che dubitavano? Di tutto si può dire. Dell’andare, del fare discepoli, dell’insegnare a osservare e del battezzare. Della propria “tenuta”, visto che si segnala la ferita del gruppo – undici. Ma ancora di più, non solo se quelli sono i buoni modi, non solo che fine possa toccare anche a loro, ma anche se sono dentro un sogno a occhi aperti, se sono dentro una pia illusione, o se hanno davvero ricevuto un dono senza eguali. Dubitavano: ma senza quel dubitare, non potrebbero muoversi in alcuna direzione se non come automi destinati al fallimento. Un po’ come la questione di Tommaso, gemello di tutti noi, che vuole fare esperienza per accogliere con fiducia l’imponderabile; un po’ come la paura delle donne al sepolcro. Senza queste interruzioni moltiplicate, non c’è possibilità di affidamento per sé, dunque tanto meno annuncio possibile. 
Certo dubitare è postura reale e drammatica, non letteraria: lo sappiamo da Giuda, quell’altro nostro fratello – come non ricordare l’omelia di Mazzolari? – il cui dubbio, la cui iniziativa ha portato dramma nella storia di tutti e nella sua propria, anch’essa affidata. E lascio appositamente e nuovamente sospesa la frase: affidata a che, a chi? C’è spazio, infatti, qui per una postura ancora più radicale: non è solo il dubbio nostro lanciato sull’Evangelo e sulla vita di Gesù attraverso la morte. Le domande, le perplessità e il dubbio sono anche quelli di Gesù stesso: nelle tentazioni, nella crisi galilaica, negli incontri che trasformano, come quello con la donna cananea che mette in discussione per chi lui possa essere inviato, e in fondo di chi sia figlio/inviato – è Gesù il gemello di Tommaso e nostro, fino al grido sulla Croce, a dubitare. Perché non potrebbe esserci affidamento, neppure per lui, se non fosse possibile sospenderlo, interromperlo, non dargli seguito. 
Il titoletto di questo paragrafo, infatti, è tratto da una catechesi prebattesimale del IV secolo (la XIII di Cirillo di Gerusalemme), nella quale il predicatore estende le parole del ladro buono della passione lucana, in modo veramente toccante. “Ricordati di me”, dice il passo. E qui prosegue: “ricordati di me, non lo dico per le mie opere, che mi condannano. Ma ogni uomo ha simpatia per i suoi compagni di strada. Io e te siamo compagni sulla strada che ora ci conduce alla morte: ricordati di me, siamo compagni sulla stessa strada”. 

Parole da mangiare 

Compagni di strada, compagni di domande di entusiasmi e dubbi: questo non solo siamo ma, ne sono convinta, siamo anche chiamati a essere, sorelle e fratelli che con/sperano, sospesi fra un’esperienza che ha sapore di buono e una incertezza sul futuro che, insieme, possono invocare senza presunzione, possono condividere senza arroganza. Diversamente, torno a dire, non solo non c’è annuncio possibile ma forse c’è della fede solo una triste controfigura: che tuttavia non è perduta, perché è bene averne, alla fine, compassione. È quella che crede di non avere incrinature ad essere in realtà canna danneggiata, fiammella tremolante, casa o tempio dalle fondamenta di sabbia. 
Possiamo dunque, un po’ come nella 1 Pt 1, 6-8; 3,15 tenere l’ossimoro, la contraddizione che apre mondi e visioni, che ci consente di dubitare in plērophoria, in “piena certezza”: dove quella piena certezza è esperienza di Dio/abbà, grembo accogliente nel quale si balbettano parole che poi si sciolgono nel crogiolo per riaverle più splendenti e soprattutto commestibili: per rendere ragione di un fondato sperare.
 
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