Aggiungici su FacebookSegui il profilo InstagramSegui il Canale di YoutubeSeguici su X (Twitter)   Novità su Instagram
Clicca

Lidia Maggi "Maschio e femmina Dio li creò: pensare la reciprocità a partire dalle Scritture"

stampa la pagina
Convegno internazionale 
“La voce della Donna nei Ministeri della Chiesa. Un Dialogo Sinodale”.
28 gennaio/ 3 febbraio 2024

 
Parlare di reciprocità nelle relazioni umane ed ecclesiali, alla luce della grammatica biblica, è prima di tutto un invito a fare i conti con la propria parzialità, ad iniziare da quella di genere, per aprirsi e riconoscere tutte le altre parzialità identitarie. E tuttavia, nell'esperienza del maschile e del femminile, è come se ci trovassimo di fronte a due esperienze della parzialità che sembrano manifestarsi con sottolineature opposte. Detto con il linguaggio biblico: il peccato originale -ovvero il rifiuto di accettare quello che si è per voler essere altro da sé, fino a desiderare di essere come Dio - ha sottolineature diverse nel maschile e nel femminile. 
1. Per gli uomini sembra sintetizzarsi nell'incapacità di riconoscere che il proprio sguardo è parziale, fino a trasformare il maschile in “norma”. Credere cioè che il neutro coincida con il maschile. 
2. Per le donne, all'opposto, è credere che il proprio punto di vista sia marginale o tutt'al più complementare, fino ad accettare di lasciarsi definire, descrivere, nominare dall'altro. 

Tutto ciò è messo in scena, come sul palcoscenico di un teatro, nei primi capitoli della Genesi, che si aprono con due diversi racconti di creazione. Il primo è un canto cosmico, con tanto di ritmo e ritornelli. Tutta la creazione è qui celebrata come “buona” e l'uomo e la donna sono creati insieme per stare sullo stesso piano, perché l'uno non domini sull'altra, poiché occorrono entrambe le creature per evocare il volto del divino. L'umanità nasce plurale, “maschio e femmina Dio li creò”. La vita umana, creata fin dai primordi come plurale, differenziata, è fatta per la relazione. Non esiste umanità senza questa reciprocità. Ciò che è dato come inizio (“in principio”) non sta necessariamente nel passato. Piuttosto è fondamento per sostenere il cammino umano, visione per intuire la direzione, principio come criterio. È il nord della bussola di senso che permette all'umanità di non perdersi in un vicolo cieco. E cos'è il peccato, nella narrazione biblica, se non questo smarrimento? Dunque, nel primo racconto di creazione è come se venisse evocato il progetto, il sogno di Dio per l'umano. Tutto da costruire. L'umanità è un cantiere (in cui sono all'opera sia Dio che gli esseri umani: facciamo!), che si realizza aderendo sempre più a quel fondamento, quel principio rivelativo. Il percorso non è scontato. E così, il racconto biblico accosta al sogno di Dio, al fondamento di tutto il creato e dell'umanità, le fatiche, i rischi e i fallimenti. Poiché dimenticare questo fondamento significa tradire il senso della vocazione umana, deformarne la sua essenza. E di tutto questo che ci parla il secondo racconto di creazione. Qui l'umano è creato agli inizi per custodire e lavorare i l giardino. La vocazione originaria che permetterà alla vita di continuare è affidata a questo terrestre (Adam) che, tratto dalla terra (adamà), ne porta addirittura il nome. Così, mentre il primo racconto mostra il sogno di Dio - un mondo dove ogni cosa è riconosciuta come buona e l'umanità creata maschio e femmina è benedetta - il secondo problematizza tale sguardo, ne racconta le fatiche. 
Al canto iniziale viene subito accostato il controcanto, la cruda narrazione di quanto, in realtà, avviene sulla terra. Non una semplice presa d’atto. La Bibbia osa interrogare quei vicoli chiusi, dove l'umano si rintana, per provare ad aprire nuove strade che mettano in moto un cambiamento. 
Denuncia e visione: e l'una e l'altra sono parole del Dio vivente. Guai a sciogliere la tensione che le tiene unite in quel racconto-mondo che è la Bibbia. 

In principio 
È così che prende avvio la narrazione biblica: Bereshit. All'inizio, ma anche a fondamento dell'esistenza: un duplice sguardo sulla terra e l'umano attraverso due racconti di creazione diversi per genere e contenuti, ma entrambi polarizzati intorno alla questione della vita buona, di come custodire la terra e i diversi terreni relazionali: la relazione di coppia, la fraternità, la comunità. 

Fin da subito occorre un chiarimento: non è che la prima creazione rappresenti l'utopia mentre la seconda racconta, con più realismo, la situazione effettiva. Anche il primo testo, nel narrarci il sogno di Dio per la terra tutta e l'umanità, non tace la fatica di un Dio che chiama alla vita buona, ma traendo fuori dalla prigionia del caos un mondo differenziato. E lo fa giorno dopo giorno, per ben sei giorni. In questo quadro, al sesto giorno, entra in scena l'umanità, maschile e femminile, fatta ad immagine di Dio. Quest’ultima caratterizzazione - “a sua immagine” - va intesa come la vocazione umana ad essere luogotenenti di Dio nel governo del creato, affinché sia promossa la vita buona per ogni creatura. L’essere umano viene posto per “dominare” sulle altre creature. In italiano, il verbo “dominare” mostra un aspetto sinistro, di sopraffazione. 
Non è così in ebraico. Oltre alla rivendicazione della dignità umana - che Israele, schiavo a Babilonia, osa rivendicare: non siamo servi dei potenti ma signori della creazione – quel verbo indica una presa in carico responsabile della creazione, ad immagine di Dio e del suo dominio mite, pensato per arginare il male e promuovere il bene, non certo per spadroneggiare arbitrariamente sulle altre creature o addirittura l'uno sull'altra, come vedremo nel secondo racconto di creazione. Anch’esso ha inizio narrando di una vita che non può sbocciare perché non ci sono le condizioni: tutto è troppo arido. 
Nel giorno che Dio il SIGNORE fece la terra e i cieli, non c'era ancora sulla terra alcun arbusto della campagna. Nessuna erba della campagna era ancora spuntata, perché Dio il SIGNORE non aveva fatto piovere sulla terra, e non c'era alcun uomo per coltivare il suolo (Genesi 2,4-7). 
Non siamo più entro uno scenario cosmico: ora ci troviamo all'interno di uno spazio limitato. Un setting scelto dal narratore per affrontare il tema del limite, questione capitale per mettere a fuoco la vocazione umana e il nostro tema, ovvero la reciprocità. 
La relazione è possibile solo non sentendosi autosufficienti ma bisognosi degli altri. 
Qui la creatura umana non viene creata all'apice della creazione, ma agli inizi, prima delle piante e degli animali. Non ha senso mettere in cantiere un giardino, se poi non c'è nessuno che se ne prenda cura. Il giardino ha bisogno di una continua manutenzione. Si pone il problema di chi possa coltivarlo. L’essere umano viene, dunque, posto per “custodire e coltivare” la terra. Con linguaggio simbolico il racconto esprime le condizioni di possibilità di un tale rapporto di responsabilità nei confronti del giardino: l’umano deve essere fatto di terra – l’adam, tratto dall’adamà – così che ci sia una relazione biologica fortissima tra i due. 
Dio il SIGNORE formò l'uomo dalla polvere della terra (Genesi 2,7). 
L’Adamo, tratto dalla polvere rossa dell’Adamà, è chiamato a vivere uno stretto legame con la terra, a sentirla anch’essa come “carne della mia carne osso delle mie ossa”, lui che si chiama Adam – ovvero terrestre - perché da Adamà è stato tratto. La sua origine come il suo destino è intimamente legata alla terra. 
La cura della terra rimanda alla necessità di lavorare e custodire tutti i terreni delle relazioni umane. Nell'incuria, il giardino si trasforma in deserto o in un campo di battaglia. 
Il legame tra la terra e l'essere umano non esaurisce tutti gli altri legami, come quello sessuale tra uomo e donna non può esaurire la complessità di relazioni che formano e modellano la creatura umana. Dio, dopo averlo plasmato dalla terra, soffia nelle narici del terreste e questi diventa anima vivente, terra animata. 
La creatura umana, dunque, fin dall'inizio, è collocata in una relazione di coppia. Con la terra da cui è tratta. Ed anche con Dio, attraverso un doppio legame: impastato dalle sue mani, che lo hanno formato, e abitato dal respiro divino, il soffio del uso alito. 
Proprio perché l'umanità è pensata e posta in relazione ad un tu - la terra da cui e tratto e che deve governare e custodire; il Dio, che lo abita con il suo respiro - questa creatura prende forma in divenire. Anche l'esperienza della relazione, dell'essere in coppia evolve, si trasforma. Nonostante la creatura terreste sia legata alla terra e sia abitata dal respiro divino, ecco che Dio stesso ne denuncia una carenza: “Non è bene che l'essere umano sia solo”. Pur con la terra e con Dio, l'umano sperimenta una solitudine che lo disumanizza. Nessuno basta a sé stesso. Nessun uomo è un isola. Possiamo dirlo con tanti linguaggi. La Bibbia sceglie il più coraggioso: quella di un Dio che riconosce, prima di tutto, che nemmeno Lui, il Signore del mondo, il Creatore dell'universo, può bastare alla creatura umana. “Solo Dio basta” può dirlo la mistica, in un'esperienza puntuale di estasi; ma non può diventare una condizione di vita. La creatura umana ha bisogno di un tu orizzontale, qualcuno che possa incontrare in una relazione di riconoscimento e differenza. 
La solitudine del terrestre non è bene. Dunque è male! Il male fa la sua comparsa nel giardino. Prima ancora del serpente, esso è presente nelle parole del Dio che, guardando alla sua creatura, non dice: “ e vide che era buono”, ma il suo contrario: “non è bene”. L'umano è solo senza qualcuno pari a lui, con cui entrare in relazione. 
Si creano così le premesse narrative perché entri in scena la donna, che, in questo secondo racconto, viene creata in un momento successivo, non certo per subordinarla all'uomo maschio! 
Affinché questo orizzonte relazionale prenda forma salvando il terrestre dalla sua solitudine, Dio si mette all'opera, non senza difficoltà poiché non riesce a trovare una creatura che corrisponda all'Adam. La parata zoologica che gli passa davanti, probabilmente, intende conservare la memoria della cautela necessaria per trovare il partner giusto. Non si trova tra gli animali qualcuno che, secondo il progetto divino, possa essere un “aiuto-contro” (ezer kenegdo). Termine difficile da rendere nella lingua italiana, quello utilizzato dalla narrazione di Genesi. Esso evoca una relazione dialettica, che non si scioglie, che crea tensione, resistendo alla fusione, alla confusione. Non si trova per la creatura umana qualcuno che gli corrisponda in questo modo. Egli può nominare ogni essere vivente, ma non c'è nessuno che gli possa dire chi è lui. 
Così il terrestre impose il nome a tutto il bestiame, ai volatili del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma per la creatura terrestre non c'era un aiuto corrispondente” (Gen. 2,20). 
Il racconto, qui, rallenta; la ricerca non è immediata. L'incontro con l'altro avviene rispettando alcuni ingredienti: la consapevolezza di un'assenza (non è bene che sia solo), la fatica della ricerca (Dio conduce ogni creatura vivente davanti al terrestre), la necessità della scelta (questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa). 

Fallita la ricerca tra gli altri esseri viventi, per salvare dalla solitudine mortale l'umano, bisogna creare qualcuno che “lo salvi”, un soccorritore. Sì, propri così. Altro che qualcuno che lo aiuti nel senso di dargli una mano o peggio di servirlo! Perché quell'espressione ebraica tradotta nelle nostre bibbie con “aiuto adatto a lui” sarebbe più adeguato tradurre con “farò per lui un soccorso come di fronte a lui” (Wénin). Il termine qui usato in ebraico, “ezer”, nella Bibbia ebraica compare sempre per indicare l'intervento necessario a salvare qualcuno e nella maggior parte dei casi si riferisce a Dio stesso, il soccorritore. 
La donna, creata in un secondo momento, dopo il riconoscimento che la creatura umana è tale solo di fronte ad un tu, un tu che non può essere supplito nemmeno dal tu divino, è diversa dall'uomo maschio, ma ha la stessa dignità: è formata da Dio come l'uomo, è impastata con la stessa sostanza dell'uomo, perché possa camminargli affianco e consentire così l'esperienza dell' “in-contro” (è così che scelgo di tradurre alla lettera quell'”aiuto-contro”). Dal sonno dell'Adam, da una condizione di passività che consente di lasciare andare, di non controllare tutto e affidarsi all'Altro, nasce la donna, e allo stesso tempo nasce anche il maschio. 

La creatura terreste, nell'in-contro con la donna, cambia: diventa creatura sessuata al maschile e dunque definita anche attraverso questa diversità. Ma lo scopre solo quando si trova di fronte all'altra. Ed è a questo punto che impara a comunicare. La lingua, che prima sapeva già usare per “nominare il mondo”, per catalogarlo, conoscerlo e controllarlo, adesso diviene dispositivo di relazione, linguaggio della comunicazione. 
Vi è dunque un passaggio dal linguaggio che ordina e controlla a quello che racconta: “questa è carne della mia carne, osso delle mie ossa”. 

Ma seguiamo il filo della storia. È necessario farlo procedendo lentamente per il peso simbolico che l'interpretazione di questo testo ha avuto sulla costruzione delle relazioni tra i generi. 

Il torpore scende sul terreste; e a quel punto Dio prende un lato (non la costola!) e forma la donna. Chiude l'altro lato e nasce l'uomo maschio. Ma al risveglio - scherzi dell'anestesia! - l'uomo ricorda le cose in modo un po' diverso da come ci è stato raccontato dal narratore e siccome deve avere una grande capacità manipolatoria, da far invidia al serpente, noi rimaniamo ammaliati dalla sua versione dei fatti. Un canto si eleva al risveglio: «Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall'uomo» (v. 21). L'uomo comunica, ma con chi? Non certo con la donna che “oggettivizza” (“questa”). A chi sta parlando: a chi legge? A Dio? La sua versione è che costei (lei) è stata tratta da lui. Basta un tweet del primo maschio e questa versione dei fatti sarà virale! 
Poco importa che non sia andata così. Il narratore ci ha spiegato che la donna è stata creata dalla divisione del terrestre. Dio con un lato ha formato la donna e con l'altro il maschio. 
Queste incongruenze narrative segnalano a chi legge che, nella coppia primordiale, 
Il rapporto è viziato fin dai primordi. Il potere, il controllo, la manipolazione sono già entrati nella relazione: stupore e controllo si mischiano. Se da una parte il maschio prende coscienza di essere sessuato al maschile solo quando si trova di fronte alla donna, dall'altro questi definisce l'altra in sua funzione fino a darle un nome, cosa che Dio non gli ha chiesto di fare. E se l'incontro lo fa cantare, con parole da capogiro, il canto non è rivolto direttamente alla donna. Canta di lei ma non con lei; parla di lei ma non con lei. Il riconoscimento è dimezzato:lui la riconosce come parte di sé senza riconoscerla altro da sé. È come se, per accoglierla ed entrare in relazione con lei, ritenesse necessario ridurla a sé: questa è me, carne della mia carne! In queste prime parole fusionali viene meno il riconoscimento di quell'alterità che aveva mosso il progetto divino dell' “incontro”. 
La reciprocità della relazione è ferita dall'agire maschile sulla scena primordiale: non basta la parzialità, che porta a sentire il bisogno dell'altra; occorre riconoscere e rispettarne l'alterità. 
Posta agli inizi delle Scritture, queste scene suggeriscono una grammatica relazionale che va ben oltre le relazioni affettive e le dinamiche di coppia. Essa riguarda ogni relazione umana e persino le dinamiche ecclesiali. La chiesa, definita da papa Francesco come donna, si scopre maschile quando l'alterità delle donne non è riconosciuta. Quando si parla di loro senza parlare direttamente a loro. Quando le donne rimangono in silenzio, seppure esaltate e riconosciute come fondamentali. Quando la loro funzione, il loro carisma e gli ambiti della loro vocazione vengono delineati (o cantati) dallo sguardo maschile, per quanto autorevole ed esaltante. Anzi, spesso l'esaltazione femminile si rivela ancora più diabolica e manipolativa della denigrazione. La reciprocità nella chiesa è malata fino a quando le donne non saranno in grado di dire se stesse e l'altro a partire dal proprio sguardo, con la propria voce. Voci e sguardi parziali, ma indispensabili per l'in-contro, iniziando dalla chiesa che dovrebbe essere quel laboratorio in grado di provare a dare forma al sogno di Dio.

Fonte: PDDM


«Ti è piaciuto questo articolo? Per non perderti i prossimi iscriviti alla newsletter»
stampa la pagina


Gli ultimi 20 articoli