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Rosanna Virgili "Natale: l’urgenza di un annuncio, tutti corresponsabili"

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27 dicembre 2023


Il Natale è una sfida al tempo. Nelle lingue originarie della Bibbia il presente è qualcosa che scorre, pertanto si scioglie fatalmente tra il passato e il futuro. Nel greco antico proprio il futuro era, però, il tempo più arrischiato in quanto condizionato al presente che l’avrebbe annodato e dipanato dal passato.

Questo presente è oggi il Natale, un’urgenza che il calendario liturgico celebra e la storia consegna. Se la fine dell’anno che gli è prossima esige a ogni agenzia – politica o economica – di fare i suoi bilanci, non meno l’evento dell’Incarnazione mette a nudo la fede dei cristiani. Li costringe a fare verità su di sé e su quanto abbiano davvero udito, veduto, contemplato e…toccato con le loro mani (cf. 1Gv1,1). Ed ecco allora un bilancio sul presente di quel Natale di Gesù secondo i Vangeli di Luca e di Matteo.

Gesù nacque a Betlemme di Giudea ma dovette farlo in mezzo ai pascoli, in campagna, poiché per loro non v’era posto in paese. Ecco il passato che torna presente: anche oggi nelle tante “Betlemme” del mondo non c’è posto per chi deve nascere e nemmeno per chi deve partorire. Betlemme è un urlo di devastazione e le tante madri di questa universale “Filistea” sono private non solo di un’ostetrica – come accadde alla madre di Gesù – ma anche di un’incubatrice che rinfranchi le loro creature più deboli. «Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11). Erode era al governo nella Giudea del tempo. Un Idumeo, un usurpatore, non un figlio di David. Che non si comportava come un vero Messia ma come un macellaio di bambini, come un prepotente che faceva strage di innocenti. Preoccupato soltanto che nessuno scoprisse e denunciasse l’immensa corruzione del suo agire.

Nei tanti Erode del presente riaffiora crudelmente il passato. Quanto costringe i cristiani a fare un tristissimo bilancio e a chiedersi: perché? Perché quelle parole che scesero dal cielo di Betlemme, in quella notte santa, non han trovato ancora dimora sulla terra? «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Cos’è che avremmo dovuto fare che non abbiamo fatto? Anche in questa domanda è l’eco del passato biblico quando Dio stesso, dinanzi alla devastazione della sua città, invece di accusare subito i colpevoli si chiese: «Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?» (Is 5,4). Perché questo presente storico vede le notti del mondo infiammate non dalla luce degli angeli ma da esplosioni di vendetta e di malvagità? Perché la Parola di Dio, la voce del vangelo, è stata così poco creduta, accolta, vissuta, amata, testimoniata, fatta arte di civiltà fraterna?

Questo Natale inquieta particolarmente i cristiani, li fa soffrire come fece soffrire Giuseppe, il padre adottivo di Gesù. Chissà la pena che dovette provare per non riuscire nemmeno a trovare una stanza dove far partorire sua moglie… e quanta ansia per proteggere il piccolo figlio di Dio fattosi carne. Quale angoscia nella sua fuga, nel dover andare profugo in Egitto. L’esigenza della fede rende tutti corresponsabili per questo Natale. Non basta dirsi cristiani, fare il presepe, rappresentare con statuine inerti quanto deve incarnarsi nell’oggi: bisogna diventare un presepe! Quella “mangiatoia” che opera in amicizia e letizia, in mitezza e amore, che si fa pane profumato e dolce come latte e miele sulla bocca di tutti.

Dopo lo specchio di un amaro bilancio il Natale si impone ancora come l’urgenza di un annuncio, reclama una vocazione per la Chiesa: quella di essere parola di contraddizione e di gioia, mensa e segno di pace, Corpo che si ribella alle tante ipocrisie e complicità e lotta e spera per il futuro dei figli, per la giustizia e per la vita.



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