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La teologia dell’incarnazione alla sfida del transumanesimo

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Nella saletta a fianco dell’aula delle tesi della Pontificia Università Gregoriana incontriamo il padre gesuita Christoph Theobald, raffinato teologo (ricordiamo la sua voluminosa opera sul Cristianesimo come stile) ma oggi, soprattutto, padre sinodale. È tardi qui, nel centro di Roma, l’università si è svuotata e la serata si è fatta presto buia e fredda dopo il lungo ottobre caldo, ma padre Christoph, classe 1946, è fresco e tranquillo, desideroso di trasmettere la forza del clima “primaverile” che ha respirato nella grande aula del Sinodo. A lui rivolgiamo le nostre domande all’interno dell’indagine sul mondo e la Chiesa ai tempi del «cambiamento d’epoca».

Non è un’epoca di cambiamento ma un cambiamento d’epoca e il cambiamento più grande è sicuramente quello antropologico, una teologia dell’incarnazione parte dall’uomo e oggi dobbiamo riconoscere che l’uomo e la donna sono profondamente e rapidamente cambiati. In una delle interviste precedenti che abbiamo realizzato per “Zona franca”, il cardinale Hollerich ci ha detto «il mio timore è che noi continuiamo a parlare a un uomo e una donna che non esistono più». Quindi una teologia esperienziale come quella che invoca Papa Francesco deve partire da una osservazione dell’uomo, di come è cambiato, e come possiamo dialogare con questo uomo. Spesso abbiamo il timore che il dogma dell’incarnazione abbia prodotto nella Chiesa una certa fissità dell’idea dell’uomo;  poiché Dio si è incarnato in quell’uomo di Nazareth noi continuiamo a pensare che quello è l’uomo. Volevamo partire da questo per rivolgerle la prima domanda ormai di rito in questa serie di conversazioni che stiamo facendo sulle sfide della Chiesa nel cambiamento d’epoca: dove sta andando il mondo?

Stiamo vivendo ovviamente un cambio di tempi, come dice Papa Francesco, caratterizzato, secondo me, e anche secondo tante altre persone, da due fenomeni che mi sembrano assolutamente decisivi. Il primo è la crisi ecologica. Essa sta creando ormai una sorta di paura collettiva, un vero e proprio timore tra la gente, che rischia di attizzare la violenza sul nostro pianeta, la lotta per la sopravvivenza, ma che suscita anche — e ciò è positivo — tanta riflessione e creatività. Si tratta quindi di un fenomeno ambivalente: da un lato si manifesta una sorta di resilienza, uno slancio creativo, perché la presa di coscienza è rapida e gli investimenti tecnologici, per esempio per i cambiamenti energetici, sono enormi, e dall’altro lato siamo diventati un’umanità che ha paura perché tante cose della realtà ci colpiscono, come ad esempio l’innalzamento del livello del mare in molte regioni del nostro pianeta. Il secondo elemento è la violenza che osserviamo in seno all’umanità. Gli Stati si sono indeboliti e viviamo all’interno di un sistema economico estremamente violento. Sono rimasto molto colpito durante l’assemblea sinodale da tutte le sofferenze di guerra che sono state evocate. Mi sembra che siamo usciti da un’epoca in cui le guerre erano solo localizzate, in un certo modo circoscritte, ed eccoci arrivati al tempo del terrorismo e di tanti altri fenomeni simili. La violenza si espande nelle stesse società perché le regole politiche ed economiche non funzionano più.

Aggiungerei un terzo fenomeno per tornare alla questione antropologica: noi ci troviamo in una situazione del tutto paradossale, perché di fronte alla teologia dell’incarnazione si sta sviluppando il transumanesimo. Cioè un tipo di tecnologia, di digitalizzazione creata dall’uomo e che lo supera radicalmente; egli non ne è più padrone e si comporta come un «apprendista stregone», con questa folle utopia di credere di poter sopravvivere a sé stesso e addirittura superare il limite della morte. La fede nell’incarnazione di Dio ci porta a prendere sul serio la questione della morte. E quello che temo riguardo al futuro è proprio il transumanesimo. Si investe molto denaro in questa specie di evoluzione indefinita della tecnologia, un’evoluzione che occulta la questione della transizione ecologica che invece richiede un altro tipo di investimento. È proprio in rapporto a questa diagnosi che interviene la tradizione messianica del cristianesimo. Cosa diciamo quando parliamo del Regno di Dio, che è davanti a noi? Noi speriamo nella pace e nella giustizia, non solo tra gli esseri umani ma anche tra l’umanità e la terra. È questo che implica la fede nell’incarnazione di Dio. Nelle sue due encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, Papa Francesco ha colto delle tradizioni messianiche — vale a dire non solo della tradizione cristiana ma anche dell’ebraismo e dell’islam — che possono e devono avere un impatto sul futuro del nostro pianeta.

E allora per me, come cristiano, interviene qui la questione della teologia della risurrezione, che è la questione centrale del cristianesimo. In questi ultimi millenni anni abbiamo progressivamente preso coscienza che ognuno di noi ha una sola vita e ora ci rendiamo conto che abbiamo un solo pianeta: ciò che sta avvenendo è un mutamento della coscienza umana, vale a dire che la posta in gioco non è soltanto la questione della morte individuale, ma quella anche della possibile morte del nostro pianeta.

Ed è qui che appare l’impatto messianico della resurrezione nel cristianesimo, il che significa che in fondo il pianeta terra non appartiene ad una sola generazione ma a tutte le generazioni. Noi siamo gli eredi delle generazioni precedenti e abbiamo altre generazioni che abiteranno lo stesso pianeta. Questo è il senso della risurrezione, o della comunione dei santi, cioè che tutte le generazioni convivono in Dio. È anche la ragione teologica dell’uguaglianza di tutte le generazioni, di tutti gli esseri umani. Abbiamo ricevuto il pianeta e dobbiamo lasciarlo alle generazioni successive. Possiamo farlo perché viviamo già insieme, tutti noi esseri umani, nella profondità abissale di Dio.

Della centralità del tema della resurrezione abbiamo discusso con don Piero Coda e abbiamo sottolineato l’aspetto della credibilità della risurrezione, del come spiegarla all’uomo di oggi così influenzato dall’onnipotenza della scienza. E allora abbiamo affrontato un tema di confine, che attiene al dialogo alle scienze e la fede: oggi tutta la comunità scientifica condivide l’idea che esistono più dimensioni spazio temporali, e quello che noi immaginiamo nella vita che viene può essere un’altra dimensione spazio temporale che i nostri sensi non percepiscono. Sembra alludere a questo aspetto il brano del capitolo 17 degli “Atti degli Apostoli” che mettendo al centro la resurrezione, afferma che Dio ha creato il tempo e lo spazio. Se il tema centrale oggi è la credibilità della resurrezione, il punto dolente nel mondo credente e in quello non credente, resta la domanda posta dallo scandalo rappresentato dalla morte. Come annunciare allora la fede nella resurrezione di Cristo e degli uomini?

Lo spazio e il tempo indicano che siamo limitati; nello spazio nessuno di noi è onnipresente a tutto il reale. Dal punto di vista tecnologico ognuno di noi può fare innumerevoli cose ma non può sfuggire alla limitazione dello spazio e del tempo. La fenomenologia ci ha insegnato molto su questo: penso a Husserl, Heidegger e a tanti altri, e anche a Papa Francesco, secondo il quale il tempo è superiore allo spazio. Gli scienziati concordano per dire che ci sono altre dimensioni, ma direi che le altre dimensioni non ci portano fuori dalle dimensioni in cui esistiamo. Esiste inoltre una facoltà umana su cui riflettono molto scienziati, epistemologi e filosofi: l’immaginazione, vale a dire, la capacità di immaginare altri mondi. Ora, nella cosmologia abbiamo una pluralità di modelli, non c’è più solo quello del big bang. Ma ci possiamo anche chiedere: ci sono altri universi, universi paralleli, universi futuri dopo un’entropia generalizzata? Viviamo con l’immaginario e progrediamo in esso. E allora possiamo dire, nel nostro mondo scientifico moderno, che il cristianesimo è un “mito”; è quello che ha già detto molto tempo fa il teologo evangelico tedesco Rudolf Bultmann. Sorge ovviamente qui la questione della credibilità: qual è oggi la credibilità dell’immaginario cristiano, del mito cristiano, tenendo peraltro presente che credibilità non viene stabilita da una prova? Penso che ci siano più livelli di credibilità. Il livello più elementare è che ogni essere umano sperimenta oggi nella sua carne il fatto che il suo itinerario personale nasconde un infinito. Come diceva Pascal: «l’uomo supera infinitamente l’uomo». Ma non solo: tutti noi percepiamo oggi che il pianeta terra nasconde un infinito. La tradizione biblica e cristiana ha il coraggio di pensare all’unità di tutte le generazioni umane. Tutte le creazioni sono in legame con la “carne” che è la terra. La credibilità del «mito cristiano» può essere stabilita da una nuova evidenza ecologica e planetaria, e basarsi sul fatto che la tradizione cristiana rappresenta un modo di vivere questa nuova consapevolezza nella «speranza contro ogni speranza».

Nella sua grammatica teologica ricorre spesso l’immaginazione, che si nutre di simboli. Ma viviamo in un’epoca che ha ucciso i simboli, non solo nella religione. Il simbolo è scomparso, la crisi della liturgia stessa è la crisi del simbolo.

Questa crisi deriva dal fatto che la simbolica umana è cambiata e che la liturgia con la sua struttura piramidale deriva dall’immaginario del passato. La trasformazione non si è ancora prodotta anche se abbiamo ricevuto segnali forti in tal senso. Michel de Certeau ci ricorda che l’immaginazione inizia nella vita quotidiana, ma non è il solo a dirlo. Un teologo come Karl Rahner, che consideriamo molto spesso astratto, ha elaborato una teologia della quotidianità, della vita di tutti i giorni. Si tratta di due teologi estremamente sensibili alla vita concreta delle persone. Vorrei quindi sottolineare che per esprimersi in modo semplice in teologia, bisogna averla studiata tanto. La teologia si manifesta in modo semplice nella poetica della vita quotidiana di Certeau e lo è anche quando si legge Kart Rahner nei suoi scritti spirituali e nelle sue meditazioni sulla vita quotidiana. Io inizio sempre i miei corsi facendo agli studenti domande del tipo: cosa vuol dire svegliarsi, cosa vuol dire mangiare, camminare, dormire, conversare, pregare, ecc.? È determinante per una buona predicazione. Riguardo al linguaggio, è opportuno sottolineare che abitiamo il nostro mondo grazie alle metafore. Si tratta di un altro modo di parlare dell’immaginazione. Una delle metafore fondamentali della vita umana e cristiana è quella dell’odos, del cammino. Papa Francesco ha capito bene che per camminare insieme (syn-odos) serve innanzitutto un odos. Riprendo qui la domanda dell’eunuco in Atti degli apostoli, 8, 31: «E come posso comprendere questo passaggio del profeta, se nessuno mi guida su questo cammino?». Il cammino passa per delle soglie, dei confini. Cerchiamo una casa, una tenda e per camminare abbiamo bisogno di un orizzonte e di una postura. Direi che queste metafore ci portano anche a reinventare il linguaggio cristiano e soprattutto il simbolismo liturgico.

Si vede che la sua è la generazione del grido “l’immaginazione al potere!”.

Sono nato nel 1946, ma conosco anche tanti giovani che immaginano molto, perché non sono toccati dalla morte dell’immaginazione, dell’immaginare mondi alternativi, altri universi. E immaginazione e scienza sono strettamente collegate. Ho un figlioccio a cui piace molto la scienza, la cosmologia, e che passa tanto tempo davanti allo schermo immaginando altri universi. Mio padre era un professore di matematica e aveva molta immaginazione, come tutti grandi matematici.

Il linguaggio simbolico della Chiesa, le forme della liturgia, appaiono vestigia antiche che non dicono più nulla alle nuove generazioni. E dunque dove deve andare la Chiesa oggi, rispetto a un mondo con il quale sembra aver perso contatto?

Innanzitutto, partiamo da un’esperienza ecclesiale locale, dove ci sono le condizioni essenziali per un’esperienza di fraternità, di ospitalità: ti accolgo, tu sei accolto così come sei, incondizionatamente. Questo non attiene soltanto all’ambito dell’immaginazione, si tratta prima di tutto di un’esperienza concreta. Io esercito un lavoro pastorale nel centro della Francia — che è un Paese di missione — nella regione del Limousin. Lo chiamo anche lo “spazio amazzonico” della Francia. È molto scristianizzato e quindi tra i cristiani c’è bisogno di fraternità. Lo si avverte dopo la messa della domenica dove le persone sono venute per incontrarsi e parlarsi. Sono poche ma si vedono e si incontrano, così come sono. Bisogna ripartire da qui.

Il secondo elemento decisivo per il futuro della Chiesa consiste nell’imparare a leggere insieme ad altri le Scritture, in piccoli gruppi. Questo è molto importante perché il testo ci offre qualcosa di oggettivo e allo stesso tempo ci dà la parola, potremmo dire oggi in maniera “sinodale”. Si tratta della prima socializzazione missionaria oggi in una situazione di crisi: leggendo le Scritture le persone possono imparare a parlare della loro vita. Nelle nostre società, molte persone infatti sono afasiche, non hanno parole per condividere la loro esperienza e ancor meno la loro fede. Questa esperienza dell’ascolto comune della parola di Dio può allora eventualmente condurre a una nuova maniera di entrare nell’esperienza sacramentale.

Quello sacramentale è il linguaggio principale della Chiesa, ed è quello che è maggiormente nutrito di simboli e quindi quello maggiormente in crisi.

Io direi che il rito si trova in crisi. Il simbolo dell’acqua non è in crisi, e neppure quello della cena, con il pane e il vino. Il rito, invece, è in crisi. Su questo bisogna lavorare in futuro. Per il battesimo ad esempio abbiamo ancora tante famiglie, soprattutto in Italia e anche un po’ in Francia, che vengono con i loro bambini perché hanno vissuto il miracolo della nascita. In Francia paradossalmente il numero dei catecumeni aumenta notevolmente, spesso si tratta di giovani, di trentenni o quarantenni che cominciano a riflettere sul senso della vita. Ogni situazione è unica e diventa impossibile avere un modello unico di catecumenato perché si deve accompagnare ogni persona. Ed è lì che il simbolismo dell’acqua diventa centrale. Spesso celebriamo i battesimi la notte di Pasqua e durante questa notte viene proposto un mondo di simboli. Questo è un problema centrale oggi: il simbolismo non è scomparso ma è disarticolato. Il simbolismo è un mondo, un immaginario e dobbiamo quindi trovare il modo di entrarvi gradualmente utilizzando, come Gesù e i primi cristiani, i simboli elementari dell’esistenza umana.

Passiamo ad un altro sacramento: l’ordine sacerdotale. Cosa rispondere a chi dice, e sono in molti, che la crisi della Chiesa è la crisi dei sacerdoti?

Non è la crisi del sacramento dell’ordine, è la crisi, direi, del ministero nella Chiesa. Il prete è diventato un tuttofare, perché i preti sono in pochi, e quei pochi devono fare tutto, scompare quindi il loro carisma specifico. Quando ero giovane seminarista, prima di diventare gesuita e prete, c’erano ancora molte possibilità, si poteva diventare prete insegnante, cappellano ospedaliero, ecc., cioè era possibile esprimere il proprio carisma. Oggi invece il sacerdote deve fare tutto e, in molti casi, non può più realizzare il proprio carisma. Questo è il primo elemento della crisi. Secondo elemento, tanti giovani vedendo i preti sovraccaricati e stanchi, dicono «non sono fatto per vivere questo, non posso vivere questo». E tanti giovani preti si concentrano su ciò che possono meglio controllare. Non hanno la capacità di fare tutto, si rinchiudono nel necessario, essenzialmente nei sacramenti e nel governo, spesso ancora in modo clericale perché è un modo per realizzarsi.

Terzo elemento: molti cristiani non sanno neanche più perché i preti sono necessari.

Sento dire due reazioni: alcuni mi dicono che in tutte le religioni ci sono i preti; quindi, devono essercene anche nella religione cristiana; altri mi dicono che ogni associazione ha bisogno di qualcuno che governi, chiedendosi perché la Chiesa cattolica fissa delle esigenze così elevate. Come rispondere oggi nel modo più semplice alla domanda: perché i preti sono necessari, perché il ministero ordinato è costitutivo? In fondo è semplice: la Chiesa non è un’associazione costruita su un contratto sociale ma è convocata da Dio, da Gesù Cristo nello Spirito. Abbiamo bisogno di qualcuno che simboleggia questa convocazione. Quando nel convocare l’assemblea il sacerdote dice semplicemente «il Signore sia con voi», ha già fatto il suo lavoro. È ordinato per questo. Dobbiamo spiegare questa risposta minimale al popolo di Dio: avete bisogno di qualcuno che vi “convochi” in quanto Chiesa, che vuol dire la “convocata”. Poi interviene la dimensione storica. Il ministero è cambiato molto in duemila anni, e dobbiamo trovare oggi una figura nuova che mantenga perlomeno l’essenziale. Possiamo riassumere il tutto in una frase — è stato Papa Francesco a dirlo — ovvero che la sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa, così come il ministero gerarchico ne è costitutivo: esso si colloca nella Chiesa sinodale e la convoca.

Quindi per esempio potrebbe darsi che nel dogma invece di tre gradi nel sacramento dell’ordine ne nascano altri? 

Non direi. Penso che la distinzione tra ministero episcopale e ministero presbiterale sia fondamentale. Si è imposta grossomodo alla fine del secondo secolo dopo Cristo. Questa distinzione è strutturale perché la Chiesa è interamente presente in ogni Chiesa locale: «il vescovo è nella Chiesa locale e la Chiesa locale è nel vescovo». Il ministero episcopale rappresenta quindi il legame con tutta la Chiesa di cui ha la cura con gli altri vescovi, mentre il ministero presbiterale è legato a una determinata comunità locale all’interno di una Chiesa locale o diocesana. Per il ministero diaconale è diverso. La possibilità di un ministero diaconale esercitato da donne è una questione seria che si pone oggi e che deve essere discussa.

Secondo lei, il Sinodo è la risposta adeguata della Chiesa al cambiamento d’epoca? Il Sinodo sulla sinodalità è un ritorno, un recupero, alla riflessione della Chiesa sul metodo e quindi sul cristianesimo come stile?

Il Sinodo sulla sinodalità introduce davvero una nuova immagine della Chiesa, sulla base dell’uguaglianza battesimale tra tutti, senza mettere in discussione la collegialità o a fortiori il primato. Mentre le nostre democrazie e società sono in crisi, noi riflettiamo molto sulla questione della deliberazione. La Chiesa è la prima istituzione al mondo che introduce la deliberazione sinodale a un livello di uguaglianza tra tutte le Chiese locali e tutti i credenti. Tutti sono coinvolti. Certo ci sono molte resistenze e siamo soltanto all’inizio di un lunghissimo processo di cambiamento. Ma questa nuova insistenza sulla sinodalità è dell’ordine di un segno messianico all’interno delle nostre società sempre più frammentate. Secondo me, si tratta proprio della risposta al cambiamento d’epoca che stiamo vivendo.

Direi che il Concilio vaticano II , in particolare la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, la Gaudium et spes, è stato reso possibile dalla pastorale dell’Azione cattolica; penso più particolarmente al cardinale Joseph-Léon Cardijn che è intervenuto al Concilio: si tratta del metodo del «vedere, giudicare e agire» che è più di un metodo. Dopo il Concilio tutto ciò è andato perso, sono apparsi altri movimenti e la pastorale si è frammentata. Papa Francesco ha introdotto la «conversazione spirituale» nel lavoro del Sinodo e spera che tutte le chiese locali adottino questo modo di procedere, come stile. Questo metodo che quindi è più di un semplice metodo è complesso e implica anche l’esercizio dell’argomentazione. È questo versante propriamente teologico che è mancato durante questa assemblea sinodale. Spero che questa «maniera di procedere» diventi un nuovo modo di fare pastorale; questo potrebbe essere un buon frutto del Sinodo.

di ANDREA MONDA ROBERTO CETERA

Fonte: L'osservatore romano


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