Rosanna Virgili "Sull'argilla un soffio che è bellezza"
Sul sagrato della Basilica di San Pietro il torso nudo di Roberto Bolle si muove sui piedi alati e saldi e sembra librarsi più in alto della Cupola, a meraviglia della grandezza del corpo di un uomo. Grandezza che si irradia dalla bellezza delle figure di danza tese in movimenti di straordinaria armonia che citano, tuttavia, posture ordinarie e tipiche della vita dei comuni mortali. Tensioni dolci ed estreme, miti e ruggenti allo stesso tempo; arabeschi di silenziosi sorrisi così come lanci di grida e di graffi che sembrano sfidare il Cielo. Altèro, forte, perché affatto flessibile appare il corpo; sicuro poiché animato delle promesse insite nella carne, tremante per l’audacia che nasce dal desiderio della libertà e che gonfia le sue vele alla musica ardente e lancinante di Ezio Bosso. La piazza assiste ammutolita e rapita allo spettacolo che esalta l’immensa dignità del corpo non meno di quanto non avvenga con le stupende forme michelangiolesche della Cappella Sistina o della Pietà. Un inno cantato al Dio incarnato e all’umanità, un canto di rinascimento prestato al tema della fraternità in occasione del World Meeting of Human Fraternity - promosso dalla Fondazione Fratelli Tutti - che si è tenuto il 10 giugno scorso in Piazza san Pietro.
Figlio della Bellezza
C’è un testo che più di ogni altro, nella Scrittura, similmente sa interpretare il corpo ancorché non sia ispirato da Tersicore ma da Erato, la Musa della poesia erotica. Anche nel Cantico il concerto del corpo sale dai piedi: « Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, capolavoro di mani d’artista! », per poi finire sul viso di lei: « Gli occhi tuoi sono colombe dietro il tuo velo (…) Come nastro di scarlatto le tue labbra (…) come spicchio di melagrana è la tua guancia » (cf. 7,2-3; 4,3-4). La bellezza del corpo incanta e, quasi, strega, eppure non nasce dall’esterno, dalle armoniose geometrie delle forme o dalla vividezza dei colori, piuttosto sembra che sia come un riverbero, uno specchio di ciò che filtra dagli occhi di chi guarda. Una cosa si rende evidente: che la bellezza del corpo non derivi da ciò che noi chiamiamo “materia” ma ciò di cui può alitare la stessa e che coinvolge l’anima e la mente. Bellezza è il miracolo che accade nella relazione tra due corpi, in quell’apertura di orizzonte che lacera la solitudine e che – nel Cantico – è l’esperienza dell’amore. La bellezza fora la maschera, supera la superficie, trascende ogni singola parte pur graziosa del corpo dell’altro, e trascende persino tutto il suo corpo. Sbocciata dall’incontro di due sguardi, la bellezza sembra essere la gestante, la conchiglia del corpo. Ogni creatura è, infatti, esito e fonte di bellezza: « Dio vide che ciò era bello » quando contemplava le sue creature nascenti (cf Gen 1). Dalla stessa corrispondenza proviene l’umano: « Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli corrisponda (…) Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò » (Gen 2,18.21). Un sonno che custodisce il sogno della vita che lievita e matura come frutto di un’estasi d’amore. Per questo: « Non svegliate dal sonno l’amata » invoca l’amante del Cantico dei Cantici.
Un respiro di terra
«Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente » (Gen 2,7). Nefeš chayyah è l’essere vivente mentre nišmat chayyim è l’alito di vita. Nella lingua ebraica, originaria della Bibbia, è impossibile tracciare un confine tra due elementi costitutivi dell’essere umano: la terra e l’alito che vi si unisce. L’ebraico dice: ‘ aphar; adamah, basar (“polvere”, “creta”, “carne”); e nefeš (“soffio”, “respiro”, “anima”): corpo e anima non sono, pertanto, realtà diverse ma due aspetti di un’unica realtà. Curioso ricordare che il ritrovamento di Lucy ( Australopithecus afarensis) sia avvenuto nella regione del deserto etiope di Afar, la “polvere” biblica! Tanto l’idea di umanità integra gli elementi materiali, a quelli spirituali, che non è raro trovare dei testi da cui emerge che la nefeš sia persino il sangue: « La vita di ogni essere vivente è il suo sangue » (Lv 17,14a). La traduzione greca di nefeš con psychè ha dato origine a una lunga trafila di equivoci e mistificazioni, fino a coprire, o a far sparire del tutto, l’unitarietà del concetto biblico del corpo e dell’essere umano, la cui carne è indissolubile dall’anima.
Conoscere ma non vivere
Ma l’inestricabile intreccio tra fango e soffio, tra carne e anima, se da un lato esalta l’umano che è fatto a immagine e somiglianza di Dio (cf Gen 1,26-27), dall’altra chiede inevitabilmente conto della sua debolezza legata proprio al suo essere corpo, vale a dire esposto – a differenza di Dio – anche alla malattia, alla decadenza e allo sfiguramento. Agostino spiegherà che fu a causa di una felix culpa su cui egli sviluppò, in chiave cristologica, la dottrina del peccato originale. Nel racconto di Genesi si legge, tuttavia, che con la trasgressione la donna e l’uomo ottennero, anzitutto, una superba, divina eredità: la conoscenza. « Ecco, l’uomo è diventato come uno di Noi quanto alla conoscenza del bene e del male » (Gen 3,22a). Ma proprio per quella facoltà di capire e sapere, la prima coppia si avvide d’essersi allontanata dal cuore della vita: « Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre! » (Gen 3,22b). Così il racconto spiega che l’umano è grande perché può sfruttare sapienza e intelligenza ma che si abbatte su di lui la morte. Che essa vince dandogli il potere di far morire ma non di far vivere! Ed ecco la violenza e il fratricidio. Il corpo in esilio di Caino che non sa più dov’è suo fratello. Angoscioso ritorno a quella solitudine che c’era quando ancora l’umano era “solo”, privo del canto della corrispondenza, senza l’amplesso di un sacro torpore, senza il sollievo di un ignaro affidamento d’amicizia e d’amore. Preludio a note novecentesche: « Ognuno sta solo sul cuor della terra » (S. Quasimodo). Condanna per l’umano ad aggirarsi in una steppa dove non può più né passeggiare con Dio e nemmeno con l’altra/ o, ma solo nascondersi, fabbricarsi un’isola di rifugio, tornare a viver come bruto, paralizzato dalla paura (cf. Gen 3,10). Si può pensare che il corpo sia, pertanto, una realtà in divenire, un work in progress, una materia dinamica, che può essere mutata, plasmata e riplasmata, convertita, salvata.
La carne è indissolubile dall’anima nel concetto biblico dell’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, ma esposto allo sfiguramento
Amore e tèchne
L’iniziativa di salvare il corpo viene da Dio che, però, non fa a meno della collaborazione dell’umano, nella sua volontà di mutamento. Questi può mettere a frutto, innanzitutto, l’eredità di quella conoscenza che ha portato con sé uscendo dall’Eden e usarla per sfidare la morte: la sapienza e la scienza, la tecnica e la legge, l’economia e la politica. Quando ci fu il diluvio insieme alla Bontà resiliente di Dio per realizzare una nuova poiesis, preziose furono la giustizia e l’intelligenza di Noè, esperto costruttore di un’arca. Amore e techne per vincere la morte e salvare la vita. Il desiderio di vincere la morte si scontra sempre coi limiti del corpo. E allora i popoli e i loro poeti inventano i miti di eterna giovinezza o elaborano ipotesi di vita veicolata soltanto dalla psychè, che vuole liberarsi dal corpo vissuto come una prigione. Quanto oggi si cerca con gli straordinari strumenti acquisiti dalle scienze e dalla tecnologia. Cerchiamo di vincere i limiti del corpo, in un certo senso, bypassandolo: sperimentando con curiosa avidità nuovi ambienti vitali, quelli dell’infosfera o del metaverso; producendo delle esperienze di vita virtuale, alleggerita dal “peso” del corpo; sviluppando degli ologrammi, dei corpi diversi, proiettati o fatti di materie che sono meno deperibili, più resistenti e potenti della carne e del sangue. Proviamo a sostituire ai nostri corpi quelli dei robot che muniti di una memoria e di una intelligenza artificiali, potrebbero superare in larga parte quelle impotenze tipicamente umane.
Battesimo
Anche il battesimo è frutto del desiderio di superare i limiti cui il corpo è sottoposto. Anch’esso solleva una rivolta contro la morte! Ma non lo fa restando in una prospettiva solitaria o proprietaria della vita umana. Nel Battesimo avviene, anzitutto, una rivolta contro quella morte che colpisce l’altro, la sorella o il fratello. Che azzera la Trascendenza con gli occhi ciechi di chi non vede oltre la superficie delle cose. E del corpo. Esso pone come matrix di un corpo rinnovato una Bellezza che sale ancora dai piedi: quelli dei commensali dell’Ultima Cena di Gesù che Egli lava perché possano avere “parte con Lui”. Chinato sui bassifondi degli egoismi e delle miserie umane, le sue mani si intrecciano nel cesto dell’abbraccio dello Spirito che ne solleva il peso più in alto di ogni Tempio. Mani di diaconia che sciolgono quelle di Caino, levate, invece, contro il corpo del fratello. Il petto assetato e deserto dell’Uomo in croce si trasforma in una tavola d’offerta, che s’apre e condivide come una mensa. « Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua » ( Gv 19,34). Linfa vitale di un Corpo che Risorge, sorgente zampillante per la vita eterna (cf. Gv 4,14). Debito di speranza di tutti i morenti, delle stragi degli empi e degli innocenti. Questo è il Battesimo: essere innestati come rami di fede su un Corpo che è un albero di Vita. « Cos’è un uomo? Un desiderio di vita. Cos’è un uomo? Un desiderio di amore. Cos’è un uomo? Un desiderio di gioia. A Dio il giudizio e il compimento ». Così si esprimeva il Vescovo di Milano Delpini in una splendida omelia fatta di recente. Il sacramento del Battesimo non è altro, per il corpo del cristiano, che il cominciare di questo Compimento.