«In alto i nostri cuori»: ci è familiare questo invito ad alzare lo sguardo, a smettere di volare basso, limitandoci a sopravvivere.
C’è un’eccedenza della vita che il linguaggio religioso esprime con la metafora del cielo, in quanto altro dalla terra. C’è dell’altro, oltre l’immediatezza. Se il nostro sguardo è tutto preso da quanto avviene “sotto il sole”, il nostro desiderio osa muoversi in quel territorio sconosciuto che si estende “sopra” il grande luminare, nei cieli di Dio. Da sempre le religioni si presentano come tentativi di dirottare lo sguardo verso l’alto, come grammatiche di desideri che non si saziano con l’appagamento dei bisogni immediati. Un lievito prezioso che mette in movimento la pasta dei corpi, un sale che insaporisce una vita insipida. Con, però, un effetto collaterale indesiderato: quello di fuggire il mondo, di disprezzare ciò che è “umano, troppo umano”. E così, quella fede che ambiva a indicare l’“oltre”, si è ritrovata ad esprimere il “contro”: il cielo al posto della terra, il divino contro l’umano.
La cura c’è
Dopo duemila anni di cristianesimo, in un momento storico in cui sperimentiamo la quasi inefficacia del farmaco evangelico su un corpo ormai assuefatto a quei principi attivi, sentiamo l’esigenza di rivedere quel medicamento, tornando nel laboratorio di analisi e approfondendo le ricerche al fine di rendere di nuovo efficace la cura. Si fanno portavoci di questa esigenza ormai molti medici dell’anima, che ascoltano ogni giorno pazienti che lamentano un’umanità impoverita. Sulla bocca di queste persone risuonano le parole dell’antico re Ezechia, di cui parla il profeta: «Sono stanchi i miei occhi di guardare in alto» (Isaia 38,14b). L’alto non è più il luogo del desiderio; i cieli appaiono vuoti. Troppo dolorosa la condizione umana per consentire alla speranza di dirigere l’orchestra dei nostri sentimenti. I cuori precipitano in basso, tra le grida che escono dai sotterranei della storia, nei luoghi bui dell’anima, dove echeggiano come basso continuo sussurri di insoddisfazione.
E se facessimo del lamento per questo stato di salute obiettivamente precario l’occasione per ripensare la cura? Molti, di fatto, l’hanno abbandonata, denunciandone, prima, la nocività e, poi, limitandosi ad ignorarla. Siccome, però, il malessere continua, eccoci qui a muovere, di nuovo, i nostri passi nel laboratorio delle Scritture per capire meglio il senso della cura lì annunciata. Ad uno sguardo attento, la sorpresa è immediata: come abbiamo fatto a dimenticare che, fin da subito, la parola originaria del Creatore dichiara “buona” tutta la creazione e “molto buona” l’esistenza terrestre degli umani? E come ci è successo di smarrire il senso del farsi carne del Verbo divino nella storia di Gesù di Nazaret? Perché sono queste le scene originarie dell’uno e dell’altro Testamento. Scenari nei quali la partita con Dio si gioca tutta nella storia, su questa nostra terra, a partire dalla nostra condizione umana. E a quei discepoli, anch’essi dimentichi della posta in gioco della fede, che si ostinano a guardare i cieli, il messaggero divino dice: «Uomini di Galilea, perché state a guardare in alto?» (At 1,11).
L’uomo nelle Scritture
La narrazione biblica stessa è consapevole del fraintendimento dell’esperienza credente e, a futura memoria, mette in guardia noi che leggiamo quei racconti con occhiali religiosi, incapaci di mettere a fuoco la scena terrestre. Di che cosa parlano, dunque, le Scritture? Di Dio o dell’umanità? Già questo modo di porre l’interrogazione evidenzia il difetto delle lenti con cui guardiamo. Come se ci fosse una reale alternativa tra i due soggetti. Come se si dovesse scegliere tra il cielo e la terra. Il Dio biblico non è narcisista: sa bene che, come per la creatura umana, anche per Lui “non è bene” essere solo. Per questo la sua preoccupazione prima non è quella di essere adorato ma di favorire la vita buona degli umani, chiamati a custodire e coltivare il giardino della creazione. Sarà proprio la vita buona sulla terra ad onorarlo, come ricorda Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente».
In fondo, tutta la sinfonia biblica, fatta di molte narrazioni che intessono una densa discussione a partire dal sogno originario di Dio, parla di noi, mette a tema il senso della condizione umana. Legge la nostra umanità con estremo realismo, senza rimuovere nulla dell’umano, nemmeno quegli aspetti scomodi che noi tendenzialmente escluderemmo da un testo sacro, come la violenza, le ingiustizie, i tradimenti. E con sapienza pedagogica, che si traduce in un procedere astuto, tipico di chi conosce gli abissi del cuore, suggerisce vie per diventare quello che siamo, aprendo possibilità nei nostri sentieri frettolosamente dichiarati interrotti e inagibili. Questo è il tema delle Scritture.
Come in cielo, così in terra
Non è, dunque, un cedimento allo spirito dei tempi spostare lo sguardo dai cieli alla terra, mettere a fuoco la condizione umana, mentre leggiamo la Bibbia. Una lettura esistenziale delle Scritture non è l’estremo escamotage di una chiesa senza più appeal, che si salva in corner spingendo la palla fuori dalla sua area di competenza, a motivo del gioco troppo duro degli avversari. È Gesù stesso a testimoniare con estrema chiarezza l’intenzione divina nello stabilire una relazione con l’umanità: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). La medesima intenzione che sta all’origine dei racconti delle Scritture: «Sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31). Alla fine del suo racconto, il Quarto evangelista scopre le carte e dichiara il senso dell’esperienza credente, nella quale si legge per credere ma si crede per vivere. È la vita al centro del racconto biblico, perché è la vita che sta a cuore a Dio.
Toccando il nucleo della testimonianza biblica, è possibile solo evocare quanto le Scritture articolano in modo plurale. Ma questi veloci accenni dovrebbero bastare a farci comprendere che a noi tocca il compito di leggere diversamente quelle parole, smettendo quegli occhiali religiosi, che sono dei binocoli per osservare in alto, ma risultano inutilizzabili per mettere a fuoco il basso delle nostre esistenze. E se proprio non riusciamo a staccare gli occhi dal cielo – uno sguardo non necessariamente patologico, se dettato dal desiderio dell’oltre, dall’apertura all’altro – lasciamoci istruire dall’insegnamento di Gesù: «Come in cielo, così in terra». Ovvero, osserva pure il panorama celeste e scorgi in esso il sogno di Dio; ma subito dopo tuffa, di nuovo, i tuoi occhi sulla terra, perché è là dove si gioca la nostra condizione umana che la Parola desidera agire, per favorire la vita buona. E impara a dire a te stesso: sono credente, nulla di ciò che è umano ritengo estraneo.