Alberto Maggi "Se è giusto non è amore…”
Per la sua stessa natura l’amore è ingiusto, non segue le regole della giustizia, sia essa civile o religiosa, secondo le quali a ognuno è dovuto quel che merita, sia come premio sia come castigo. L’amore supera l’angusto recinto della giustizia creato dagli uomini per regolare la convivenza umana e garantire loro la sicurezza e va oltre, esplorando mondi sconosciuti, andando certamente incontro a rischi imprevedibili, che però permettono di liberare nell’individuo segrete energie e inedite capacità di donarsi generosamente, con conseguenze inimmaginabili.
La crescita dell’umanità verso la comprensione della dignità e unicità degli uomini non avviene attraverso la rigida applicazione della giustizia, ma con misteriose, originali e nuove forme di amore che manifestano il Dio che è, appunto, “amore folle” per l’uomo (Cabasilas).
Il dramma di Osea
Nella Bibbia è singolare la storia di Osea, il profeta che per primo arrivò a paragonare il rapporto tra Dio e il suo popolo a quello tra sposo e sposa. Osea è giunto a questa immagine partendo dalla sua tragica situazione matrimoniale. Il profeta aveva infatti sposato Gomer, una donna che, nonostante gli avesse dato tre figli, ogni tanto fuggiva via con qualche nuovo amante. Ma Osea era talmente innamorato della moglie infedele, che ogni volta la andava a riprendere e la riportava casa. Quando la donna gli scappò per l’ennesima volta con altri amanti, il profeta perse la pazienza, la raggiunse, le elencò tutte le sue scelleratezze e pronunciò la formula giuridica di scioglimento del matrimonio: “Essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito” (Os 2,4). Arrivato al momento del verdetto, dopo aver elencato tutte le malefatte di Gomer, che “seguiva i suoi amanti mentre si dimenticava del marito”, la minacciò (“La punirò per i giorni dedicati ai Baal…”, Os 2,15), poi le disse: “Perciò…”.
La moglie s’aspettava la sentenza di morte. La giustizia divina prevedeva infatti la pena capitale per le adultere (Lv 20,10). Ma Osea, fedele al suo nome che significa “il Signore salva”, essendo ancora profondamente innamorato della moglie, fece sì che il suo amore avesse la meglio sulla giustizia e disse: “Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
Osea passa da “la punirò…” a “la sedurrò…”, proponendo alla donna un nuovo viaggio di nozze nel deserto, per tentare di riscoprire la bellezza della loro vita coniugale.
Capace di perdonare la moglie senza alcuna garanzia di fedeltà, visti e considerati i precedenti, Osea comprende che il perdono non va concesso come conseguenza del pentimento dell’individuo, ma lo precede. Il profeta raggiunge la consapevolezza che così è anche il rapporto tra Dio e gli uomini: il Signore, infatti, non perdona il suo popolo perché questo s’è convertito, ma lo ricolma d’amore affinché possa convertirsi.
Osea è particolarmente caro a Gesù, che lo cita per ben due volte nei suoi insegnamenti (“Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrificio”, Mt 9,13; 12,7; Os 6,6). L’incontro del Signore con il peccatore non è quello del giudice che chiede conto dei misfatti, ma è quello dell’innamorato che regala il suo inedito amore: “Se tu conoscessi il dono di Dio…” (Gv 4,10).
L’amore di Dio non segue i criteri della giustizia umana, secondo la quale è previsto un premio o un castigo in base al comportamento di ciascuno. Gesù, infatti, dimostra una volontà di bene che è indipendente dalla qualità delle persone a cui è destinato, la stessa del Padre “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45) e che “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35).
L’amore col quale Dio ama gli uomini, un amore che può sconcertare e scandalizzare quanti rimangono imprigionati nell’angusto recinto della giustizia, viene da Gesù presentato in maniera esplicita nella parabola dei lavoratori nella vigna (Mt 20, 1-16). Gesù racconta del padrone di una vigna che esce all’alba per ingaggiare degli operai con i quali pattuisce il compenso di un denaro (4 gr. argento), paga abituale per una intera giornata di lavoro. Alle nove del mattino esce di nuovo e, trovati “altri che stavano sulla piazza inoperosi”, assolda anche quelli, promettendo loro di pagarli il giusto, cioè un compenso stabilito in base al tempo lavorato, pertanto meno di un denaro. Altre volte nel corso della giornata, verso mezzogiorno e verso le tre, il padrone invita quanti incontra ad andare anch’essi a lavorare nella vigna. Perfino al tramonto, quando di norma terminava il lavoro, chiama altri alla vigna. In realtà la convocazione di questi ultimi si deve più al desiderio del padrone di farli lavorare che all’effettiva sua necessità.
Al tramonto, al termine della giornata lavorativa, quando gli operai vengono pagati (“Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole”, (Dt 24,15), con grande sorpresa gli ultimi, il cui contributo al lavoro era stato poco più che una comparsata, sono trattati come i primi, in quanto ricevono il salario di un’intera giornata. Se coloro che non hanno lavorato neanche un’ora hanno ricevuto un denaro, è logico e anche più che giusto dedurre che quanti avevano lavorato fin dall’alba pensassero di ottenere più di quel che era stato concordato. Ricevendo anch’essi un denaro restano delusi e protestano nel vedersi trattati come gli ultimi, loro che hanno “sopportato il peso della giornata e la calura”. Il padrone della vigna risponde che lui non si comporta in maniera ingiusta ma generosa. Non toglie nulla di quanto aveva concordato con i primi al momento dell’ingaggio, ma intende concedere lo stesso compenso agli ultimi.
Con questo insegnamento Gesù vuol far comprendere che se secondo la religione gli uomini dovevano meritare quel che Dio loro concedeva, ora con lui tutto questo cambia: l’amore di Dio non viene concesso per i meriti degli uomini ma per la generosità del Padre. Gli operai dell’ultima ora evidentemente non meritano la paga di un’intera giornata, ma questo compenso non viene loro dato per i meriti acquisiti, bensì per il bisogno che hanno. Il Signore non agisce in base alle virtù degli uomini ma ai loro bisogni, e per questo supera il senso comune della giustizia per sostituirlo con quello della misericordia divina.
La follia di Dio
L’amore del Creatore per le sue creature supera il concetto umano di giustizia e rasenta la follia, come narra Gesù in un’altra parabola dove descrive il comportamento di un padre nei confronti del figlio scellerato che, chiesta e ottenuta l’eredità, la sperpera in poco tempo ritrovandosi alla fame (Lc 15,11-31). Questo giovane agisce solo in base al proprio tornaconto: per interesse ha lasciato la casa paterna e per la propria convenienza intende ritornare; non gli manca il padre ma il pane. Quando il padre lo vede tornare, non aspetta che questo scellerato arrivi e chieda perdono, ma gli va incontro e anziché rimproverarlo lo stordisce con gesti che esprimono un amore esagerato. Il padre non chiede al figlio prove di conversione, ma lo avvolge con una potenza tale d’amore che, se accolto, potrà farlo ravvedere e spingerlo a cambiare il proprio comportamento. L’intensità di questo amore è simboleggiata dagli ordini che il padre impartisce ai servi, il primo dei quali è di rivestirlo con un nuovo abito, “quello migliore”, che nella cultura del tempo indicava il conferimento di una grande autorità e dignità (1 Mc 6,14-15). Segue poi il comando più folle, quello di mettergli l’anello al dito, cioè di consegnargli il sigillo di famiglia, il che significa il conferimento dei pieni poteri sull’amministrazione della casa (Est 8,2). A questo figlio incapace di gestirsi il padre affida tutti i suoi averi. È una pazzia, è la “follia di Dio” (1 Cor 1,25). Il padre non ha alcuna garanzia su come si comporterà il figlio e infatti non si esclude che la notte costui se ne scappi di casa con tutti i beni della famiglia. L’amore vero non calcola, rischia, non chiede rassicurazioni ma scommette su quel che la persona amata può divenire.
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