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I giorni della guerra, l’ecumenismo ha fallito?

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I giorni della guerra, l’ecumenismo ha fallito? 
martedì 29 marzo 2022 

“L’ortodossia è una vita nuova, la vita nello Spirito. Qual è il criterio che legittima questa vita? La bellezza. Perché esiste una particolare bellezza spirituale, inafferrabile con le formule logiche, ma, allo stesso tempo, unico metodo giusto per definire che cosa è ortodosso e che cosa non lo è”. Così Pavel Florenskij, filosofo, teologo e matematico russo, senz’altro uno dei più straordinari interpreti della spiritualità di ogni tempo, in una felice definizione dell’ortodossia. Ma inafferrabile, agli occhi degli osservatori, è anche il mosaico complesso rappresentato da quell’universo, elemento non secondario della guerra fra Russia e Ucraina. Credo che questo valga anche per il quadro locale, che pure ha registrato – a Carpi e dintorni – non solo una significativa mobilitazione pubblica contro l’evento bellico, ma anche una bella disponibilità ad accogliere i profughi ucraini, nelle parrocchie e nell’associazionismo. Sui cui riflessi occorrerà tornare, finito il tempo delle emozioni.

Il ruolo (decisivo) delle chiese

La figura decisiva in chiave religiosa, nel conflitto in atto, è il patriarca di Mosca, Kirill, considerato quando fu eletto – nel 2009 – il campione dell’ala modernizzante dell’ortodossia russa, essendone stato il ministro degli esteri dal 1989. Vladimir Michajlovič Gundjaev, sedicesimo patriarca nella storia della Santa Madre Russia, all’epoca era poco più che sessantenne e fungeva da metropolita di Smolensk e Kaliningrad. Nel suo discorso prima dell’investitura, egli negava la possibilità di “ogni compromesso di fede con le altre confessioni”, lasciando aperta la porta del dialogo in nome di comuni battaglie contro “la pressione di un aggressivo e peccaminoso secolarismo”: “Il nostro dialogo con le altre confessioni – aveva proseguito – è volto a sostenere quei partner che sono pronti a opporsi, insieme con noi, alla marginalizzazione della religione, a parlare a favore dei diritti dei credenti e a costruire la propria vita in accordo con i propri principi, a difendere il fondamentale significato della moralità nella vita dell’individuo e della società”. Kirill si diceva consapevole di essere chiamato a prendere decisioni storiche che “definiranno le vie dello sviluppo dell’ortodossia russa nel XXI secolo” e, dopo aver elencato i dati della rinascita sotto la guida del suo predecessore Alessio II, indicava obiettivi precisi per il futuro: la cooperazione con lo Stato per l’educazione religiosa a scuola, il rafforzamento dell’impegno a favore dei più deboli e una maggiore responsabilità sociale degli imprenditori. Oggi la chiesa russo-ortodossa conta su circa 150 milioni di fedeli, di cui oltre trenta residenti fuori del Paese, e su una religiosità popolare, ma non sempre praticata. Secondo i sondaggi, oltre il 70% dei russi si considera ortodosso, ma solo uno su dieci si reca in chiesa almeno una volta al mese e metà afferma di non pregare mai. 

Quanto alle dinamiche ecclesiali in Ucraina, è dal 2014 (dal cosiddetto Euromaidan, il movimento di piazza che tra novembre 2013 e il febbraio seguente produsse la deposizione del premier Yanukovich che portò all’attuale scenario politico) che i commentatori evidenziano l’intrico creatosi delle delle tante chiese diverse, spesso conflittuali fra loro, nella terra che vide, nel 988, la conversione al cristianesimo di Costantinopoli sotto la guida di Vladimir I, sovrano del regno del Rus’. Non è facile raccapezzarsi, in effetti. Se la confessione più diffusa è ovviamente quella ortodossa (71,1 % in una statistica del 2018), facente capo a tre giurisdizioni (chiesa riconosciuta dal patriarcato di Mosca, metropolita Onufrio; chiesa riconosciuta dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli, metropolita Epifanio; e chiesa ortodossa autocefala ucraina, patriarca Filarete), ci sono anche i cattolici di rito orientale a formare quella greco-cattolica – detta uniate – in comunione con Roma, e un migliaio di comunità cattoliche di rito latino, innervate di polacchi e ungheresi. A completare il patchwork della cristianità locale un milione di protestanti, a loro volta divisi e in prevalenza di area pentecostale (oltre 300.000). Ciò che è certo è che l’annosa crisi legata alla lacerazione ecclesiale ucraina sta provocando una rottura drammatica fra Kirill e Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, le cui radici – in realtà – vengono da lontano (già al concilio panortodosso di Creta del 2016 i russi non parteciparono) e ha il sapore dello scisma: la tempesta avviatasi con il riconoscimento dell’autocefalia ucraina nel 2019 da parte di Costantinopoli si è infatti ormai trasformata in un autentico uragano che, per il patriarcato di Mosca, potrebbe avere la gravità dell’antica frattura fra Oriente e Occidente del 1054. Inoltre, a complicare il quadro, la novità di queste settimane è l’esplicita (e inattesa) opposizione all’invasione russa da parte della chiesa ortodossa filorussa dell’Ucraina. Il  metropolita Onufrio ha rovesciato il prudente giudizio dei giorni precedenti l’attacco, affermando: “Come primate della chiesa ortodossa ucraina mi rivolgo ai singoli e a tutti i cittadini ucraini. In questo tragico momento esorto: non fatevi prendere dal panico, siate coraggiosi e mostrate l’amore per la patria e per gli altri. Vi esorto anzitutto a intensificare la preghiera penitenziale per il nostro paese, per il nostro esercito e il nostro popolo. (…) Difendendo fino all’ultimo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, ci appelliamo al presidente della Russia perché cessi immediatamente questa guerra fratricida”.

I rapporti interni al mondo ortodosso

Eccoci all’oggi, dunque. C’è una considerazione di anni fa, del metropolita di Odessa e Izmailʼ, Agathangel,  fiero oppositore dei tentativi di dividere la Chiesa ucraina dal patriarcato di Mosca, che può servire da lente d’ingrandimento per quanto sta accadendo, in ambito religioso: “La chiesa ortodossa ucraina, che è una parte indivisibile della chiesa ortodossa russa, costituisce una forza seria, che lega lʼUcraina alla Russia e impedisce la trasformazione dellʼUcraina in uno Stato antirusso”. Proviamo ad applicarla all’atteggiamento di Kirill in questa fase, per i nostri canoni – certo – altamente problematico. Com’è noto, il patriarca di Mosca ha apertamente giustificato l’aggressione dell’Ucraina incolpando l’Occidente. Dopo l’emblematico silenzio davanti al primo attacco (24 febbraio), ha esposto la sua ottica in due occasioni, nel giro di qualche giorno. Il 6 marzo, Domenica del perdono, si è arrampicato sugli specchi giustificando l’invasione come risposta al permissivismo sessuale occidentale (con riferimento esplicito al Gay pride). Il 10 marzo, poi, ha inviato una lettera di risposta al segretario generale ad interim del CEC (il Consiglio ecumenico delle chiese, al quale il Patriarcato moscovita aderisce dal 1961), Ioan Sauca, della chiesa ortodossa romena, che l’aveva pregato di chiedere pubblicamente la fine delle sanguinose operazioni militari. Qui, pur non riprendendo la triste argomentazione dell’uscita precedente, ha continuato a scaricare sull’Occidente, e in particolare sulla NATO, la responsabilità del disastro, chiamando inoltre in causa lo stesso Bartolomeo – la lingua batte – che col riconoscimento della chiesa autocefala ucraina di Epifanio avrebbe avallato tale piano, e teorizzando la russofobia dilagante in Europa. Il rifiuto generalizzato che tali riflessioni hanno suscitato a più livelli non ci sottrae, tuttavia, da un tentativo di comprensione più profonda della situazione, sgombrando il campo da troppo facili semplificazioni. Chi lo conosce bene assicura che Kirill non solo non è un folle, ma in genere ha guardato all’Occidente e alla chiesa cattolica senza i pregiudizi e le chiusure dell’ala più intransigente dell’ortodossia russa (come testimonia lo storico abbraccio con papa Francesco il 12 febbraio 2016 a Cuba). Eppure, proprio tale posizione in qualche misura aperturista, rimproveratagli sempre più spesso da quell’ala, è oggi il suo lato debole, in relazione all’ascesa, in quello stesso fronte, dell’attuale metropolita di Pskov e Porkhov, Tikhon Shevkunov, da sempre amico di Putin e ritenuto suo padre spirituale. Gli osservatori attenti sostengono infatti che, tra i moventi delle mosse del patriarca, c’è la volontà di inviare segnali ai suoi oppositori, come Tikhon.  La partita si giocherebbe dunque soprattutto sul terreno dei rapporti infraortodossi, specie dopo la nascita della chiesa autocefala ucraina, richiamata nella lettera al segretario del CEC. Kirill, su questo versante, era in difficoltà già prima della guerra: il rimprovero dei conservatori era di aver perduto il braccio di ferro con gli scissionisti, contando sulla certezza che il patriarca Bartolomeo non avrebbe mai riconosciuto ufficialmente quella chiesa. Ora che anche la chiesa fedele a Mosca in Ucraina si è schierata contro l’invasione – come detto – le sue difficoltà sono in aumento. 

Il Russkii mir

Ulteriore tassello è quello dei rapporti col Cremlino, territorio in cui il dato religioso s’intreccia strettamente, com’è tradizionale nella storia ortodossa, a quello politico: “Siamo impegnati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico”, ha sostenuto Kirill nel sermone del 6 marzo. Stando al documento di 300 fra teologi e intellettuali ortodossi reso noto nei primi giorni di guerra, il suo modello è l’ideologia etnico-religiosa del Russkii mir (il mondo russo), secondo cui “esiste una sfera o civiltà russa transnazionale, chiamata Santa Russia o Santa Rus’, che include Russia, Ucraina e Bielorussia (e talvolta Moldova e Kazakistan)”. Il Russkii mir ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kiev come madre di tutta la Rus’), una lingua comune (il russo), una chiesa comune (il Patriarcato di Mosca) e un patriarca comune (il patriarca di Mosca), che lavora in sinfonia con un presidente-leader nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, sostenendo una spiritualità, una moralità e una cultura distintive comuni. Ideologia inquietante, di fronte alla quale però non conviene cedere alla tentazione di alzare altri muri, promuovendo atteggiamenti di ritorsione sul piano culturale: vale invece la pena di raccogliere l’invito alla riflessione suggerito dal segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, quando ammette che gli anni dalla caduta del Muro di Berlino (1989) sono stati un’occasione perduta per ripensare su basi inedite i rapporti tra Occidente e Russia. Alla luce di tale quadro, sarebbe dunque opportuno avviare, accanto alla condanna delle affermazioni ingiustificabili, un ragionamento approfondito sul perché l’Occidente faccia così paura e sia percepito soltanto come un perverso mix di corruzione, libertinismo, cristianofobia e aperto laicismo. Valutazione strategica, se si pensa alla posta in palio, altissima: la pace mondiale, il cammino ecumenico a ogni livello e il dialogo tra chiese e società contemporanea, assumendo come caso serio il rischio – già paventato tempo fa dal pensatore ortodosso occidentale Olivier Clement – di una diluizione del cristianesimo nella postmodernità. Da qui l’importanza del passo avvenuto il 16 marzo con il primo contatto dall’inizio della guerra tra papa Francesco e Kirill, in videoconferenza. La notizia è stata diffusa subito da Mosca, con toni irenici. Dopo qualche ora è arrivata la versione vaticana, più circostanziata, a spiegare che il colloquio ha avuto al centro “la guerra in Ucraina e il ruolo dei cristiani e dei loro pastori nel fare di tutto perché prevalga la pace”. 

Più ecumenismo, non meno…

A oggi, la situazione è ancora fluida, e non cessa il “massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità” (come l’ha chiamato Francesco all’Angelus del 20 marzo), i cui riflessi sono destinati a durare a lungo nel tempo. In ogni caso, a differenza di quanto commentano i soliti siti tradizionalisti e antibergogliani, a partire da cronicasdepapafrancisco, che si sono affrettati a parlare di fallimento dell’ecumenismo – si veda ad esempio il pezzo di Nicola Bux del 12 marzo – quanto sta accadendo sul fronte ecclesiale richiama semmai la necessità di lavorare, sempre più e sempre meglio, nel sostegno al dialogo ecumenico. Rifiutando i toni da crociata e la prospettiva di qualsiasi guerra di religione. Nella consapevolezza che esistono evidentemente sensibilità diverse, con un peso della storia che grava soprattutto sull’ortodossia, ma anche che all’ecumenismo non possiamo rinunciare, per la clamorosa testimonianza antievangelica che deriva dai conflitti che intercorrono tra le chiese cristiane.

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