Lidia Maggi "Farsi prossimo con l'astuzia del racconto"
Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova, dicendo: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Luca 10,25)
Ho un cattivo senso dell’orientamento. Arrivo con fatica in un posto nuovo e qualche volta, al ritorno, perdo tempo per ritrovare il luogo dove ho parcheggiato la macchina. Dopo le fatiche, ho capito che arrivare a destinazione non basta. Questo vale anche per le Scritture.
Ogni testo ha una propria strada, una collocazione che ci aiuta a capire meglio ciò che andiamo a leggere. Eppure, soprattutto per le storie dai contorni ben definiti, come le parabole, la tentazione di isolarle dal panorama circostante è comune. Così come è importante, quando si viaggia, prestare attenzione alla strada, è essenziale, quando leggiamo una storia biblica, aver cura di notare come viene introdotta, quali le motivazioni che l'hanno sollecitata. A volte l'introduzione è minima:Disse loro un'altra parabola: «Il regno dei cieli è
simile...»; altre volte è più articolata e richiede di rallentare. È il caso di
una delle parabole più note, quella del samaritano. Un uomo aggredito sulla strada,
religiosi che lo vedono ma passano oltre, e infine un samaritano che si
commuove e lo soccorre. È la parabola che mette in scena la fraternità ferita,
la vita sperimentata come aggressione, la morte che incombe, quando il viaggio
dell'esistenza è privato dello sguardo compassionevole di chi percorre la
nostra stessa strada.
Ma rallentiamo e proviamo a varcare la soglia che ci
introduce nel mondo del racconto. Soffermiamoci su quella scena prima di
immetterci sulla strada che da Gerusalemme scende a Gerico. Gesù ha elevato una
preghiera di lode a Dio per quei piccoli a cui è dato di vedere e capire, a
dispetto dei sapienti e degli intelligenti che non hanno modo di udire. Ed è
proprio un sapiente che si rivolge a Gesù. Si alza per metterlo alla prova, con
una domanda-laccio, formulata per farlo inciampare. Gesù racconta una storia di
aggressione mentre sta subendo un'aggressione. Nascosto nei panni del discepolo
che vuole imparare, c'è un brigante che tende un'imboscata. Gesù racconta una
parabola sulla fraternità universale, mentre la fraternità è insidiata. Il
dottore della legge, proprio attraverso una richiesta di vita, aggredisce il
suo interlocutore per spogliarlo della sua autorevolezza e lasciarlo sulla
strada, mezzo morto. E Gesù, invece di difendersi smascherando il suo
avversario, prende sul serio quella domanda posta a pretesto e porta
l'interlocutore su un altro piano. Lo disarma proprio nell'accoglierlo. Non ha
fretta di rispondere e pone, a sua volta, una domanda: chiede della Torà a un dottore
della Torà. Un quesito a cui l'altro sa rispondere, perchè è un esperto del
campo e si sente a casa con la Parola: “cosa sta scritto nella Legge e tu che
cosa leggi?”. Questo rimando alla Torà, come testo autorevole per entrambi, permette a Gesù di ricercare, nel conflitto,
il consenso di una piattaforma comune e, insieme, di sollecitare
l'interlocutore a ricercare risposte dentro di sé. Come se dicesse: “ma tu, se
dovessi attingere al tuo bagaglio di vita, alle tue competenze, a quanto hai
appreso nella tua formazione, come risponderesti? Tu che sei un dottore della
Torà, cosa leggi in essa?”. Un rimando a partire da sé, dalle proprie
competenze, prima di avventurarsi nel cercare altrove risposte esistenziali.
Gesù dà fiducia all'altro, come se gli dicesse: tu lo sai! E di fatto, l'altro
non esita a dare la sua risposta esemplare, bellissima. Affermazione che spesso
attribuiamo a Gesù e che, invece, viene dal suo aggressore: la più bella
sintesi della Torà ci viene da chi si è alzato per attaccare nostro Signore.
“Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore... e il prossimo come te stesso”. La
più bella confessione di fede viene dal brigante sulla strada tra Gerusalemme e
Gerico. Da quei briganti da cui nessuno si aspetta nulla, nessun cambiamento,
nessuna conversione. Ci aspettiamo un cambiamento dal Sacerdote e dal Levita,
ma di certo non dai briganti, scomparsi dalla scena dopo il crimine.
E invece Gesù ha cura dei suoi nemici. Crede nella
possibilità che possano trovare vita piena, eterna: “Fa questo e vivrai”. In
gioco c'è l'intera esistenza. Di vita parlerà subito dopo, mettendo in scena un
uomo che giace mezzo morto, in bilico tra la vita e la morte, insieme all'agire
di chi lo incontra, sulla strada, e può trasformare quel ferito in un cadavere o
in un uomo risanato. Gesù non etichetta le persone: è convinto che coloro che
reputiamo poco affidabili, gli scarti, possano sorprenderci. Chi fa il tifo per
lui e lo ama, deve sempre vigilare sul rischio di etichettare. Il samaritano
diventa agli occhi dei seguaci di Gesù “il buono” (il buon samaritano), mentre
il dottore della legge rimane il perfido brigante da cui tenersi lontano.
Meglio stare alla larga dall'abisso che ci abita!
“Chi è il mio prossimo?”, chiede
l'avversario di Gesù. La situazione è cambiata prima ancora di ascoltare la
parabola. Ora il dottore della legge è disarmato, non vuole più attaccare. Si
difende, certo, ma non è più aggressivo. L'ascolto della storia può, ora,
avvenire e servirà a far cadere le difese. Egli ha scoperto che Gesù non solo
non ha reagito in modo mimetico alla sua aggressione, ma si è fatto prossimo
con lui. Chi ha sperimentato una simile inattesa benevolenza saprà ascoltare
attentamente quanto il maestro vuole indicare e, rinunciando alle armi della
polemica, scegliere la vita, la vita piena.
Dove sarei adesso?
Se non fossi stata soccorsa sulla strada
della mia esistenza, quando il sentiero della vita si è fatto pieno di insidie
e di imboscate, come la strada da Gerusalemme a Gerico,
se qualcuno non mi avesse guardato con
misericordia, chinandosi verso di me, quando
mi rubavano il futuro, i sogni e la fiducia primordiale, che doveva
accompagnarmi nella crescita, si infrangeva al suolo con la violenza di un
bicchiere scagliato,
se non fossi stata sottratta agli affetti
malati di una famiglia disfunzionale, quando scoprivo insidiosa la casa e il
terrore notturno diventava il mio compagno di strada,
dove sarei adesso?
Giacerei agonizzante sul ciglio della
strada? Attraversata dagli sguardi dei bempensanti, pieni di indifferenza e
disapprovazione?
O mi ritroverei nascosta dietro
all'ennesima curva, come i briganti, pronta ad aggredire i più fragili, per
derubarli della fiducia, perpetuando schemi subiti, unica grammatica della
lingua materna? Carnefice e vittima insieme, prigioniera della stessa violenza
subita.
Se non ti fossi chinato verso di me per
fasciare il mio cuore ferito, versando del balsamo per sciogliere quel fascio
di rabbia che mi teneva prigioniera,
se non mi avessi disarmata dal desiderio
di vendetta concedendomi il tempo necessario per elaborare il mio dolore e
lasciarlo andare,
se non mi fosse stata data la possibilità
di perdonare,
dove sarei adesso?
Sarei ancora in ostaggio del mio dolore?
Ma tu hai udito il mio grido e mi hai
soccorso. La sua mano umana è stata per me esperienza divina. Nei suoi occhi ho
riconosciuto la tua luce. C'eri tu negli abbracci di chi mi ha consolato, nella
pazienza di chi mi ha sopportato.
Ed ora sono qui per restituire parte di
quanto ho ricevuto.
Ecco i mie occhi, per donare sguardi di
misericordia,
ecco le mie mani, per fasciare le ferite
di chi sanguina.
So dove sono: io sono qui per dirti grazie
e per vivere ancora, per sempre, quella grammatica di cura che mi ha rimesso al
mondo.