Enzo Bianchi "Verso una comunione visibile tra le Chiese"
dicembre 2020
di ENZO BIANCHI
per gentile concessione dell'autore
Questa rubrica, che reca come titolo “Dove va la chiesa?”, avrebbe potuto essere intitolata anche “Dove vanno le chiese?”, perché sempre nelle nostre riflessioni abbiamo tenuto presente il cammino non solo della chiesa cattolica ma di tutte le chiese cristiane. Sempre siamo stati convinti che la chiesa una, santa, cattolica e apostolica raccoglie tutti i battezzati in Cristo unico Salvatore del mondo, e ciò che unisce i cristiani è molto più determinante di ciò che per ora purtroppo li separa.
D’altronde, siamo ormai tutti convinti che il destino dei cristiani nel futuro è un destino condiviso da tutte le chiese le quali, nel nostro mondo occidentale secolarizzato e potremmo dire post-cristiano, sono segnate da precarietà, da debolezza e da mancanza di propulsione nell’annuncio del Vangelo a un’umanità indifferente al discorso religioso, tanto più all’appartenenza religiosa nelle istituzioni ecclesiali. Viviamo una stagione nella quale è in atto un grande mutamento che ci sorprende ogni giorno con le sue novità e i suoi elementi inediti, tanto da farci sentire smarriti su sentieri inesplorati e difficili da decifrare. C’è grande incertezza nel vivere della chiesa nella compagnia degli uomini, grande incertezza su come vivere la chiesa, grande incertezza nell’immaginarla nei prossimi anni…
Anche nel dialogo ecumenico tra le chiese cristiane viviamo un’ora di “aporia”. Ciò che sembrava acquisito nel faticoso cammino post-conciliare appare fragile e persino contraddetto o comunque dimenticato, mentre tensioni, rotture, irrigidimenti e tentazioni scismatiche tornano a dominare nei rapporti inter-ecclesiali. Paradossalmente ciò avviene mentre nel popolo cristiano cresce l’indifferenza e la disaffezione verso il tema dell’unità visibile delle chiese. Dobbiamo confessarlo: la fiamma del fuoco dell’ecumenismo, che ha segnato gli anni del concilio e del post-concilio, si è indebolita, mentre si è imposto quel cinismo che proclama l’impossibilità e anche la non necessità della comunione visibile tra le chiese. Si è fatta strada la convinzione che il cristianesimo fin dalle sue origini è sempre stato diviso, che l’unità visibile può solo essere un sogno e che in ogni caso ciò che è decisivo è il dialogo, la carità, la solidarietà, mentre la fede può avere espressioni differenti e le chiese possono restare una realtà plurale.
Anche quanti nelle chiese sono incaricati dallo Spirito santo di svolgere il ministero dell’unità e della comunione sembrano non avere l’obiettivo della ricomposizione dell’unità visibile, quell’unità che il Signore Gesù ha indicato come il grande segno per il mondo, la grande spinta a credere, ad aderire a lui: “Padre, che tutti siano una cosa sola … perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Sono aumentati gli incontri teologici e si moltiplicano le iniziative comuni; vi è una crescente burocratizzazione degli addetti ai lavori del dialogo ecumenico a livello locale e internazionale; si assumono certamente stili cordiali, segnati da mitezza e cortesia reciproca: eppure non si tende un unico obiettivo e non si cerca l’unità visibile nella fede. Così la mancanza di comunione tra le chiese non è più avvertita come una grave ferita al corpo di Cristo né dai pastori né dal popolo cristiano. Ogni chiesa compie il suo cammino, lo progetta e lo attua, senza ascolto delle altre, senza una convergenza nel cercare insieme un’obbedienza radicale alla volontà del Signore e alla messa in pratica del Vangelo nell’oggi.
Anche l’ecumenismo del sangue, quello vissuto dai martiri appartenenti a chiese differenti, non sembra capace di spronarci verso l’unità, benché sia “il segno più convincente dell’ecumenismo di oggi” (Giovanni Paolo II, ripreso da papa Francesco nel 2015). Dopo una stagione che molti hanno giudicato invernale e comatosa per l’ecumenismo, la primavera portata da Francesco sembrava aver restituito forza a questo santo anelito all’unità. Egli ha mostrato di sapersi umiliare, fino a dimenticare i segni della sua autorità, pur di incontrare, dialogare, fare un pezzo di “cammino insieme” con i capi di altre chiese in vista dell’unità. Francesco ha anche saputo incontrare e riconoscere chiese verso le quali non c’era stata attenzione da parte cattolica e più volte ha dato e dà alle sue parole di magistero papale un’apertura ecumenica in grado di essere recepita dagli altri cristiani.
E tuttavia continua a dominare la philautía, l’egoismo ecclesiale di chi percorre un cammino senza tenere conto delle altre confessioni cristiane, preoccupandosi solo della propria tradizione e delle proprie posizioni acquisite nella storia. Certo, noi soffriamo di questo stato di cose, ma non possiamo fare nulla all’interno delle altre chiese. Nella nostra chiesa cattolica, invece, dovremmo essere più consapevoli dell’ostacolo che siamo per l’unità, a partire da come viviamo la chiesa. Lo sappiamo, spetta soprattutto al papa e ai vescovi riformare l’esercizio del primato e Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (25 maggio 1995) ebbe l’audacia di chiedere consigli e apporti per discernere un nuovo approccio al ministero petrino di comunione. Scrisse che quale vescovo di Roma si sentiva investito della responsabilità di “trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si aprisse a una situazione nuova” (§ 95).
Sono però passati più di venticinque anni da quel documento e nulla di concreto è avvenuto in questa direzione da parte del papa né da parte del collegio episcopale. Ma soprattutto quello che resta inaccettabile per le chiese non cattoliche è la centralità del papa che non lascia spazio all’episcopato e a una vera sinodalità. I cristiani ortodossi la chiamano “supremazia” e temono che la voce papale sia l’unica che si leva nella chiesa, rendendo afono il corpo ecclesiale. Ma alla sinodalità va chiamato tutto il popolo di Dio, perché essa è ben più della semplice collegialità:
è la sinodalità che può essere l’anima di una riforma ecclesiale;
e la sinodalità che, riguardando tutte le chiese, può mutare il loro volto e renderlo più evangelico;
è la sinodalità il vero laboratorio dell’unità visibile.
Se non si cammina insieme a livello ecclesiale, non si potrà cercare di vivere una chiesa visibilmente una, come il corpo di Cristo è uno. E se oggi nell’ecumenismo si vuole fare un passo in avanti, occorrerà che le chiese ripensino la loro attuale disciplina in materia di partecipazione all’eucaristia. Se infatti i cristiani, avendo ricevuto il battesimo, sono veramente partecipi dell’unico corpo di Cristo, occorrerà che siano dati almeno segni profetici della loro comunione. Non un’intercomunione “selvaggia” o soggettiva, ma in certi casi, quando sussistono la stessa fede eucaristica e un impegno di vita comune (matrimonio, comunità ecumeniche): allora potrebbe essere possibile condividere all’altare lo stesso Pane e lo stesso Calice, profetizzando una comunione per tutta la chiesa. Le chiese devono ascoltare questo desiderio che viene soprattutto da tante famiglie divise confessionalmente eppure unite dalla fede in Cristo quale unico Salvatore del mondo, fondamento della loro alleanza.
Si parla spesso di cambio di paradigma: ebbene, sono profondamente convinto che il paradigma più urgente sia quello di pensare in modo ecumenico, con gli altri cristiani, mai senza gli altri.