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Lisa Cremaschi "Chi è il mio prossimo?"

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Parto da una parabola conosciutissima, quella che viene usualmente chiamata “parabola del buon samaritano”, l’unico passo del vangelo in cui appare (due volte) il verbo greco epimeléomai che significa “prendersi cura di” (lo troviamo anche in 1Tm 3,5: “Se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?”). La parabola viene raccontata da Gesù a un dottore della Legge, uno che conosceva bene la Scrittura e tutte le sue interpretazioni.
È importante considerare il contesto immediato in cui l’evangelista ha collocato questo episodio.
Gesù ha appena riconosciuto che l’evangelo è nascosto ai sapienti e agli intellettuali ed è rivelato ai piccoli. Subito dopo entra in scena lo scriba, uno che sa (e infatti Gesù non corregge quello che dice; anzi, lo approva). La sua domanda è subdola – Luca dice che “si alzò per tentarlo” – vorrebbe coglierlo in fallo, forse spera che si lasci sfuggire un parere in contrasto con la tradizione. “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù risponde a sua volta con una domanda, vuole che sia lo scriba a rispondere: “Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?”. Lo scriba dà una risposta che ci aspetteremmo di trovare soltanto sulla bocca di Gesù, come accade ad esempio nel passo di Mc 12,28-34. Lo scriba coglie l’essenziale della Legge: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo e Gesù gli dice: “Hai risposto bene. Fa’ questo e vivrai”. Fa’ ciò che sai così bene, mettilo in pratica, traducilo nella tua esistenza quotidiana.
A questo punto Luca pone un’altra domanda dello scriba introdotta dall’annotazione: “Quello volendo giustificarsi”: sa di non essere “un giusto”, sa che in lui non vi è coerenza tra parola e vita, cerca di “addomesticare” il comandamento di Dio, di abbassarlo a propria misura.
“Chi è il mio prossimo?”. Era, a quei tempi, una questione dibattuta nelle scuole rabbiniche. Il prossimo che deve essere oggetto dell’a-more dell’ebreo è innanzitutto il fratello ebreo (cf. Lv 17,8.10.13; 19,34). Nelle cerchie rabbiniche di più ampie vedute era considerato prossimo chiunque abitasse la terra di Israele, anche l’immigrato dunque (“Quando un immigrato sta nella vostra terra, non opprimetelo, ma sia tra voi come un fratello e lo amerai come te stes-so, perché voi foste immigrati in Egitto”, Lv 19,33-34). Ma ancora di più, secondo alcuni testi dell’Antico Testamento, l’amore si estende al nemico: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, tu ricondurrai al nemico l’animale, e quando vedrai l’asino del tuo nemico venir meno sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso, ma mettiti con lui ad aiutarlo” (Es 23,4-5).
Lo scriba vorrebbe che Gesù si pronunciasse apertamente. Fino a dove si estende il precetto dell’amore del prossimo? Gesù in risposta racconta una storia, una storia che conoscete tutti. C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico e lungo la via incappa nei briganti che gli portano via tutto quello che ha, lo maltrattano e lo lasciano a terra mezzo morto. Passa un sacerdote; probabilmente aveva appena finito il suo turno di servizio al tempio; aveva vegliato sulla casa di Dio, ma non si piega a vegliare su Dio che dimora in quell’uomo ferito e bisognoso. “Lo vide e passò oltre” (lett. “passò dall’altra parte”; “girò alla larga”). Non vuole rendersi impuro toccando un moribondo (Lv 21,1-4: “Un sacerdote non si esporrà a diventare impuro per il contatto con un morto, a meno che si tratti di uno dei suoi parenti più stretti”). Anche un levita di passaggio sulla stessa strada “vide e girò al largo”. Luca non spreca molte parole per descrivere il comportamento delle due prime figure che mette in scena. Si ferma invece sul-la terza: quella del samaritano. “Vide e ne ebbe compassione”; dovremmo tradurre “le sue viscere furono mosse a compassione”. Il verbo greco splanchnízomai viene usato per parlare della compassione che prova Gesù al vedere la vedova di Nain in pianto per la morte del suo unico figlio (cf. Lc 7,13)e per descrivere l’atteggiamento del padre misericordioso che da lontano vede il ritorno del figlio minore (“le sue viscere furono mosse a compassione, gli corse incontro e lo abbracciò”, Lc 15,20).
Il suo vedere è diverso da quello del sacerdote e del levita. Vede e scende vicino a lui come il Signore dopo aver sentito il grido del suo popolo in Egitto (cf. Es 3,7-9). Il suo è il vedere di Dio che è sempre compassionevole, è capace di divenire compassionevole come Dio è compassionevole (cfr. Lc 6,36). “Gli si avvicinò, gli fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui”. Il racconto si di-lunga a descrivere le azioni del samaritano quasi a indicare che non si tratta di un singolo atto di generosità, ma di un atteggiamento che è frutto di attenzione all’altro, di un amore intelligente che sa prevenire i bisogni del sofferente, di un interessamento colmo di amorosa sollecitudine (le sue azioni vengono descritte con sei verbi in due versetti). Dopo aver provveduto ai bisogni immediati pensa al suo futuro; dà una somma all’albergatore e gli raccomanda: “abbi cura di lui, ciò che spenderai in più te lo darò al mio ritorno”; viene impiegato di nuovo il verbo epimeléomai. Il samaritano non solo si prende cura in prima persona di quell’uomo sofferente, ma coinvolge anche altri, in questo caso l’albergatore.
A differenza del sacerdote e del levita che, visto l’uomo ferito, passano dall’altra parte della strada, il samaritano accetta di incontrare l’uomo moribondo e di lasciarsi scomodare da lui, non è indifferente, riconosce in lui un fratello, fratello anche nella sofferenza. Ci vuole coraggio per accettare di incontrare l’altro, soprattutto quando è nel bisogno… il coraggio di guardarci in faccia, il coraggio di riconoscere che la sofferenza dell’altro fa da specchio alla nostra, che la debolezza, la solitudine dell’altro ci rinvia alla nostra solitudine, alla nostra impotenza. La cura dell’altro: forse saremmo disposti a praticarla a patto che fosse un atto di onnipotenza che risolve tutto come per magia, e invece ci scontriamo con i nostri limiti, con la nostra fatica. Per ascoltare l’altro, occorre aver imparato ad ascoltare il primo altro che incontriamo: noi stessi. Per arrivare a “fare compassione” (Lc 10,37; non “provare” o “sentire”, ma mettere in pratica la compassione: fecit misericordiam, traduce Girolamo), occorre riconoscere tutto ciò che dentro di noi si oppone alla solidarietà. Per saper aver cura degli altri occorre saper aver cura di noi (ma su questo ritorneremo più avanti).
“Chi di questi tre ti sembra sia diventato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. La domanda non è più: “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Di chi sei disposto a diventare prossimo?”. Dipende da te, non dall’altro. Sei tu che devi farti prossimo all’altro. È una parabola che sfida ogni nostro particolarismo ed esclusivismo. Dicendo: “Hai risposto bene (“correttamente”, in greco: orthôs); fa’ questo e vivrai” (Lc 10,28), Gesù incita il dottore della Legge a passare da un sapere sterile alla realizzazione della parola di Dio. Cerca di essere tu una parola di Dio nel mondo.
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