Luciano Manicardi "Per una grammatica della vita spirituale cristiana"
Bose, 14 febbraio 2020
Convegno Nazionale ACLI
Bisogno di spiritualità
Nell’invito a tenere una riflessione su una grammatica della spiritualità cristiana oggi, si sottolinea la risorgenza del bisogno di spiritualità. Si dice: “Oggi c’è molta sete di spiritualità. Forse perché la “desertificazione spirituale” sta talmente dilagando che l’individuo contemporaneo è un “uomo di sabbia” ormai privo di un humus vitale, di una terra fertile capace di nutrirne la vita interiore. E ci si pone la domanda: da quale mancanza nasce questa domanda? Nasce appunto dal fatto che si sente questa mancanza. E perché si sente? Spesso noi percepiamo la preziosità di un bene quando viene a mancare e sentiamo la nostalgia di ciò che comincia a mancare, di ciò che scompare o rischia di scomparire. Quando, per esempio, in una società viene fatto strame della parola, nasce il desiderio di recuperare lo statuto umano della parola. Quando la comunicazione e il chiacchiericcio diventano invadenti nasce la nostalgia del silenzio come alveo di riposo, quiete, integrità personale, contatto con se stessi. Quando l’esibizionismo, dei corpi ma soprattutto delle anime, si fa moda, allora sorge il bisogno di riscoprire il senso del pudore. Quando la sfrontatezza e l’arroganza diventano stile di vita ammirato, ecco che riscoprire la vergogna come regolatore basilare dei rapporti umani diviene vitale. Quando l’odio si vanta di se stesso e si esibisce sui social come nelle conversazioni quotidiane, quando la cattiveria viene esibita quasi come un diritto, si inizia a provare il desiderio di mitezza. Quando l’orizzonte del vivere si fa asfittico, il tempo ci è strappato, l’accelerazione ci impedisce di abitare noi stessi e ci rende non-luogo a noi stessi, quando le grandi questioni del vivere e del morire, del senso, cioè del significato, della direzione e del gusto, sono evase, quando l’ambiente mondano si fa totalmente immanente, completamente orizzontale, quando la questione della morte diviene tabù intoccabile oppure viene secolarizzata come questione che non interroga sul senso ultimo, ma come problema medico risolvibile, ecco che si fa sentire il bisogno di spiritualità. Che è anzitutto un bisogno umano. E che può però conoscere risposte spirituali molto criticabili e certo non in linea con la rivelazione cristiana.
Lo “spirituale” cristiano e la critica dello “spirituale”
In tempi di “ritorno del religioso”, di inflazione di spiritualità, di bulimia spirituale, è urgente chiarificare che cos’è lo “spirituale cristiano” e mettere in atto una critica dello “spirituale”. Oggi, su questo argomento c’è confusione: sincretismi diffusi, New Age, spiritualità orientaleggianti, si accompagnano alla diffusa indistinzione tra psichico e pneumatico, tra affettivo e spirituale (“sento l’amore di Dio”), fra terapeutico e salvifico. L’esperienza spirituale cristiana, fondata com’è sulla parola di Dio, sul Lógos (cf. Gv 1,1-18), rischia di divenire a-logica, senza parola, dunque senza confini, senza limiti, senza distinzioni, e di ridursi all’emozionale. Oppure, nel cattolicesimo nostrano “di base”, il rischio è la riduzione di Dio a equivalente simbolico di una relazione altruista: l’importante è aiutare gli altri, fare il bene, organizzare la carità, impegnarsi attivamente per gli altri … Insomma: il depauperamento del cristianesimo al “socialmente utile”. A quel punto l’esperienza spirituale rischia di diluirsi nell’azione filantropica e assistenziale o di impazzire nel volontarismo e nell’attivismo “a fin di bene”, in quella che è stata definita la “nevrosi pastorale”. Per non dire del dilagare disordinato di un cattolicesimo devozionale e pio che si nutre di visioni e apparizioni, un cattolicesimo taumaturgico e miracolistico in cui il paradigma ottico del “vedere” e quello tattile del “toccare con mano” sembrano imporsi con la forza arrogante dell’evidenza e dell’immediatezza, di ciò che rende non più necessaria la fatica dell’ascolto, evita l’alea dell’interpretazione e non corre i rischi connessi all’avventura della fede. Dimenticando, fra l’altro, che fin dall’antichità, l’atto di adesione alla fede cristiana è stato definito con la categoria del “rischio”. Credere, per Clemente di Alessandria, era assumere il “bel rischio” (kalòs kíndynos: Protrettico X,39). E dimenticando anche che, secondo i vangeli, non ci sono testimoni oculari neppure della resurrezione, e che la tomba vuota diviene segno della resurrezione solo a partire dal rinnovato ascolto delle Scritture e dal ricordo delle parole di Gesù. La pagina finale del terzo vangelo mostra che la testimonianza del Cristo risorto è fondata sulla memoria, sulla fede e sull’intelligenza della parola della Scrittura (cf. Lc 24,6-8.25.45). Non si dà fede pasquale fuori dall’ascolto delle Scritture: “Cristo è morto e risorto secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4): senza le Scritture, egli non può essere confessato come colui che compie il disegno di Dio, come il salvatore del mondo.
L’esperienza spirituale cristiana, che non assegna all’uomo come fine il benessere del sé, ma è sempre volta a condurre l’uomo all’uscita da sé per incontrare e conoscere la persona vivente di Cristo, trova nella Parola e nello Spirito i due criteri oggettivanti ineliminabili. E se lo Spirito “soffia dove vuole” (cf. Gv 3,8), esso sempre si accompagna alla Parola che agisce con chirurgica precisione penetrando fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla (cf. Eb 4,12), impedendo così all’“esperienza spirituale” di dissolversi nelle nebbie della vaghezza e dell’indistinzione, del sentimentale e dello spontaneistico, ma guidando l’umanità di una persona alla conformazione all’umanità di Gesù Cristo, orientando la sua crescita verso la piena statura di Cristo (cf. Ef 4,13). Di Cristo è infatti la parola e di Cristo è lo Spirito.
D’altra parte, la considerazione di questi fenomeni spirituali discutibili e dei movimenti che li favoriscono consente anche di prender coscienza di alcuni elementi disattesi dalla spiritualità cristiana nei tempi recenti. Penso, tra l’altro, all’istanza dell’iniziazione, ben visibile in gruppi spirituali e movimenti che propongono percorsi di “catecumenato”, di preparazione, di noviziato in vista di un’integrazione piena nel gruppo, della condivisione del “credo” comune e di una più matura conoscenza spirituale.
Ma penso in particolare all’esigenza di un coinvolgimento del corpo e dei sensi nell’esperienza spirituale, dunque a quell’istanza che afferma che la vita spirituale non può che essere vita di tutto l’uomo, integralmente. Già cinquant’anni fa p. Louis Bouyer, nella sua Introduzione alla vita spirituale, denunciava lo psicologismo come uno dei rischi più consistenti di deriva della vita spirituale. La validità di tale denuncia, a mio parere, deve essere compresa nel senso che l’azione dello Spirito santo, che non può prescindere dai movimenti dello spirito umano, dunque anche dalle dinamiche psicologiche della persona e che attraversa tutte le dimensioni profonde dell’uomo, come la volontà, l’emotività, l’affettività, l’eros (che dunque devono essere tenute in adeguata considerazione), non può tuttavia ridursi ad esse. Ma, detto questo, sono convinto che la sottolineatura della dimensione corporea e sensibile della vita spirituale, fondata del resto nella rivelazione biblica, possa indicarci la via per ripensare la vita spirituale e per riformularla oggi in maniera fedele alla rivelazione scritturistica e alla tradizione cristiana.
Grammatica della vita spirituale cristiana
Parlare di grammatica della vita spirituale cristiana significa innanzitutto che questa va conosciuta, studiata, compresa. Parlare di grammatica della vita spirituale cristiana non significa certo che la questa sia riducibile a un sistema di regole e di convenzioni da applicarsi universalmente: il credere si differenzia nei luoghi e nei tempi. Tra l’altro, in linguistica, una grammatica si applica a una lingua particolare, che fa parte di un sistema culturale determinato. Lo spirituale è qualcosa di universale, ma di questa universalità fanno parte la differenziazione delle culture e le differenti comprensioni culturali.
Il richiamo a una grammatica significa il recupero degli elementi essenziali, dei nessi basilari, degli usi corretti, delle rette declinazioni cristiane dello spirituale. Una grammatica della vita spirituale cristiana deve anche discernere le scorrettezze, gli errori, la cattive comprensioni che si sono verificate o che si possono verificare anche oggi, rilevando l’accentuazione indebita di un elemento che conduce alla perdita di altri, o evidenziando le influenze filosofiche che hanno prodotto sbilanciamenti tanto nella teorizzazione quanto nella prassi della vita spirituale.
Cerchiamo allora di abbozzare un abc elementare e parziale della vita spirituale cristiana. Evito la parola spiritualità di cui occorrerebbe mettere in atto una critica articolata che ho svolto altrove[1] e qui non ce n’é il tempo. Per il NT si tratta di vita secondo lo Spirito, di vita nello Spirito, quello Spirito che ha abitato e guidato l’umanità di Gesù di Nazaret custodendolo nella comunione con Dio e nella solidarietà con gli uomini. Il primo punto centrale della vita spirituale cristiana è il riferimento fondante all’umanità di Gesù di Nazaret, l’uomo secondo Dio, l’uomo che rivela Dio, l’uomo che plasma l’umanità dei credenti nella storia che sono i suoi seguaci nella storia.
L’umanità di Gesù di Nazaret
1.1 Una nuova ermeneutica
Una riforma, un adattamento nuovo delle istanze di una religione alle esigenze nuove di un’epoca storica, implica un’operazione ermeneutica, una nuova interpretazione delle proprie origini[2]. Mi pare che una Chiesa che voglia annunciare oggi il Vangelo debba presentare e narrare il volto umano di Gesù di Nazaret, l’uomo che ha narrato Dio[3]. Sempre le immagini di Dio hanno conosciuto inculturazioni differenti nell’annuncio nelle diverse epoche storiche e nelle diverse regioni geografiche. Oggi siamo avvezzi all’immagine del Dio trinitario che è relazione in se stesso; siamo persino abituati all’immagine del Dio sofferente che in altre epoche cristiane appariva inimmaginabile. Cogliere la dimensione di Gesù come rivelatore di Dio nella sua umanità ci conduce a vedere i vangeli come scuola di umanizzazione, come ispiratori di un’arte del vivere, come portatori di una parola capace di trasformare la nostra umanità a immagine dell’umanità di Dio che è Gesù di Nazaret. Questa accentuazione è sì suggerita dal fatto che per l’uomo secolarizzato, il cui cielo è vuoto di divinità, il messaggio evangelico è comprensibile – forse – solo come forma di umanizzazione, come pratica di umanità, come offerta di una possibilità sensata di vivere l’umano, ma soprattutto, perché questa ermeneutica che coglie nella fede i vangeli come i testimoni dell’umanità di Gesù di Nazaret, apre una prospettiva di conversione radicale per il credente e la Chiesa. Una conversione che ha a che fare non con pratiche religiose o rituali, ma che riguarda l’umanità stessa dell’uomo: il suo parlare e agire, il suo rapportarsi al mondo, agli altri e alla natura, il suo guardare e ascoltare, il suo amare e il suo pensare. Insomma, il suo modo di declinare l’umano, di vivere quell’umano che è il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio[4]. Lo sguardo portato sulla pratica di umanità di Gesù come appare in ogni episodio evangelico, negli incontri che Gesù vive, nelle parole che dice, nei gesti che compie, nei suoi silenzi, nella contemplazione dei fiori, delle piante e degli animali, nelle esegesi delle Scritture e nelle invettive contro scribi e farisei, nella preghiera personale e solitaria, nel perdono all’adultera e nell’abbraccio ai bambini, nell’attenzione ai lavori quotidiani degli uomini, dei pescatori, dei contadini, delle massaie, e così via, dischiude un cammino di conversione estremamente esigente per ogni credente e per ogni comunità cristiana. Un cammino esigente perché riguarda ogni fibra della creatura umana. Un cammino che ha lo Spirito come guida e Cristo come fine. Un cammino cosciente dal fatto che “ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma umano”[5].
1.2 L’umanità di Gesù come narrazione di Dio
Questa nuova ermeneutica è fondata biblicamente e giustificata teologicamente. Infatti, secondo la dottrina patristica dell’incarnazione, della enanthrópesis, Dio in Cristo ha vissuto l’esperienza dell’umano dal di dentro facendo avvenire in sé l’alterità dell’uomo. Scrive Ippolito di Roma: “Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo, della nostra stessa pasta (uomo come noi siamo uomini!)”[6]. Gesù di Nazaret ha narrato, spiegato, visibilizzato Dio nello spazio dell’umano. Ha dato sensi umani a Dio consentendo a Dio di fare esperienza del mondo e dell’alterità umana e al mondo e all’uomo di fare esperienza dell’alterità di Dio. La corporeità è il luogo essenziale di questa narrazione che rende l’umanità di Gesù di Nazaret sacramento primordiale di Dio. Il linguaggio di Gesù e, in particolare, la parola, ma poi i sensi, le emozioni, i gesti, gli abbracci e gli sguardi, le parole intrise di tenerezza e le invettive profetiche, le pazienti istruzioni e i ruvidi rimproveri ai discepoli, la stanchezza e la forza, la debolezza e il pianto, la gioia e l’esultanza, i silenzi e i ritiri in solitudine, le sue relazioni e i suoi incontri, la sua libertà e la sua parresía, sono bagliori dell’umanità di Gesù che i vangeli ci fanno intravedere attraverso la finestra rivelatrice e opaca dello scritto. E sono riflessi luminosi che consentono all’uomo di contemplare qualcosa della luce divina. L’alterità e la trascendenza di Dio sono state evangelizzate da Gesù e tradotte in linguaggio e pratica umana. È la pratica di umanità di Gesù che narra Dio e che apre all’uomo una via per andare verso Dio. “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio unigenito … lo ha rivelato (exeghésato)” (Gv 1,18): il verbo exeghéomai ha in sé sia il significato di “spiegare”, “fare l’esegesi”, “raccontare”, che di “guidare verso”, “condurre a”.
1.3 Diventare cristiani, diventare umani
Le conseguenze sul piano spirituale di delle affermazione precedenti è evidente: la fede cristiana indica all’uomo il compito dell’umanizzazione, di diventare umano. Infatti “l’umano è il punto naturale di inserzione della fede” (Walter Kasper). L’adagio patristico che finalizza l’incarnazione di Dio alla divinizzazione dell’uomo (“Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio”[7]) va intesa alla luce della categoria della partecipazione e indica non un mutamento ontologico dell’uomo, ma un cammino spirituale fondato sulla fede, nutrito dall’ascesi, dalla lotta spirituale, dalla preghiera, dalla tensione verso l’acquisizione del dono dello Spirito, che avviene sempre in uno spazio comunitario, ecclesiale. Un cammino umanissimo in cui il credente cerca di innestare la propria umanità nell’umanità di Gesù di Nazaret per entrare così in comunione con Dio. Oggi noi possiamo comprendere ed esprimere altrimenti le conseguenze dell’incarnazione, con un altro linguaggio, che superi il rischio del dualismo insito nel concetto ellenistico di divinizzazione. La formulazione potrebbe suonare così: Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi uomo, perché l’uomo umanizzi la sua umanità. Del resto, Ireneo di Lione scrive: “Come potrai essere dio, se non sei ancora diventato uomo? Devi prima custodire il rango di uomo e poi parteciperai alla gloria di Dio”[8]. La visione dell’incarnazione come finalizzata all’umanizzazione dell’uomo è conforme alla della manifestazione di Gesù il quale è apparso “per insegnarci a vivere in questo mondo” (Tt 2,12). Riprendendo le parole di un contemporaneo, potremmo dire che “essere cristiano è diventare uomo in verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo” (Denis Vasse). Dietrich Bonhoeffer declina così l’esperienza cristiana: “Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”[9]. Ovviamente, l’umanità a cui si fa riferimento è l’umanità di Gesù di Nazaret, l’uomo, scrive la lettera agli Efesini, in cui “è la verità” (Ef 4,21). Ma quest’uomo, e dunque l’umanità cui conformare la nostra umanità noi la incontriamo nelle Scritture e massimamente nei vangeli.
La centralità dell’ascolto e la intrinsecità di sensi e spirito
2.1 Il “privilegio” dell’ascolto
“Noi camminiamo per mezzo della fede, non della visione” (2Cor 5,7). È indubbio il primato dell’ascoltare sul vedere nell’esperienza di fede che sgorga dalla rivelazione biblica. Il carattere originario della parola di Dio che si rivolge all’uomo e lo cerca, situa l’esperienza spirituale nel quadro dialettico di “chiamata e risposta”, non in quello della rappresentazione. Questa dimensione originaria della parola divina dice che fondamento dell’esperienza spirituale sono il volere e l’intenzione di Dio che si manifestano nel suo dare vita e creare, nel suo cercare l’uomo e volgersi a lui per farne il partner nell’alleanza. Nell’esperienza biblica della fede l’ascolto gode di una sorta di “privilegio” che consiste nello scoprire e nell’aprirsi a una presenza irriducibile all’ordine della percezione e della conoscenza, presenza che eccede l’uomo e che non è esauribile da ciò che egli ne può dire o dalle rappresentazioni che ne può fare. Il “privilegio” (se così ci si può esprimere) dell’ascolto risiede nel fatto che esso è per eccellenza il senso della conversione (“Ascoltate, e la vostra anima rinascerà”: Is 55,3) e della relazione con il Signore, dell’alleanza (“Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”: Ger 7,23). Anche lo Spirito può essere accolto grazie all’ascolto: “Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Va notato che la cosiddetta “formula di risveglio” che ricorre sette volte nelle lettere alle chiese di Asia Minore in Ap 2-3, parla di orecchio al singolare, intendendo l’orecchio del cuore, cioè la totalità della persona che è chiamata ad ascoltare, più che il solo ascolto materiale fatto che gli orecchi.
Inoltre, anche il silenzio, non solo la parola, può essere ascoltato, come appare nell’esperienza spirituale di Elia, quando il profeta seppe discernere la presenza di Dio nella “voce di un silenzio sottile” (2Re 19,12). L’ascolto converte il cuore rendendolo capace di accogliere una presenza altra, di ospitare una volontà altra. L’ascolto scava in noi uno spazio per ospitare un altro da noi e fare avvenire in noi qualcosa della differenza di cui l’altro è portatore. Per Paolo la fede fa abitare il Cristo nel credente: “Esaminate voi stessi se siete nella fede: Riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?” (2Cor 13,5). L’ascolto rende il credente dimora di Dio e tempio dello Spirito santo (cf. 1Cor 6,19; 2Cor 6,16) conducendolo, attraverso la sequela, alla coscienza dell’inabitazione del Signore in lui.
2.2 Ascolto e visione, sensi e spirito
Se vi è un “privilegio” dell’ascolto, tuttavia la Scrittura non stabilisce una contrapposizione tra l’ascolto e la vista. Al Sinai “tutto il popolo vide le voci” (Es 20,18 secondo il testo ebraico), e la tradizione ebraica può dire che la parola di Dio diviene visibile nel suo farsi scrittura, nel suo farsi Torah. Vi è dunque sinergia tra vedere e ascoltare: la visibilità del mondo va ascoltata e l’ascolto illumina il visibile, rende visibile il mondo, e lo rende visibile con lo sguardo dell’accoglienza e della gratuità, non del possesso. La parola abita lo sguardo.
Nell’economia cristiana, la parola si rende visibile nel suo farsi carne; nel Nuovo Testamento Dio si è dato a vedere in Cristo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Certo, Dio resta non visibile (“Dio, nessuno lo ha mai visto”: Gv 1,18), e per i cristiani nella storia anche Cristo resta non visibile (“Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui”: 1Pt 1,8), tuttavia la Parola, visibile e udibile nella Scrittura, e lo Spirito, che tale Parola accompagna, guidano a discernere nella carne umana e nella storia la presenza di Dio.
Ora, mi pare che un difetto della spiritualità cristiana sia stato quello di avere troppo spesso opposto ascolto e visione, e più radicalmente ancora, sensi e spirito. La vita spirituale si è troppo nutrita di polarità presto divenute antitesi inconciliabili: interiore – esteriore, “io interiore” – “io esteriore”, sensibilità – interiorità, spirito – materia, ascolto – visione, corpo – anima, ecc. Il rischio insito in tali polarizzazioni è quello di arrivare a contrapporre e separare ciò che Dio ha unito, di non cogliere la complementarietà, il carattere intrinseco e la fondamentale unità di quelle dimensioni, e di pervenire così a formulare spiritualità infedeli alla rivelazione biblica e anche nevrotiche e produttrici di nevrosi. Spiritualità che arrivano a scavare fossati incolmabili tra libertà e obbedienza, tra amore del prossimo e giusto amore di sé, tra preghiera e azione, tra contemplazione e vita attiva, tra fede e storia, tra dimensione personale e dimensione comunitaria, ecc.
2.3 L’esperienza spirituale come esperienza corporea
L’ascolto tende a inscrivere nel corpo, cioè nell’uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola divina. Questa è la logica dello shemac Israel (cf. Dt 6,4-9: i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, appesi come pendaglio fra gli occhi, scritti sugli stipiti delle porte, ripetuti ai figli, proclamati in casa e lungo la strada, al momento di coricarsi e al momento di alzarsi) che si oppone a ogni separazione fra interiorità da un lato ed esteriorità e sensibilità dall’altro, e che cerca di raggiungere l’uomo in quanto tale, nella sua corporeità come in tutti gli ambiti del suo vivere: famigliare, sociale, politico. Rabbi Shneur Zalman di Ladi afferma: “Se la Torah è fissata nei duecentoquarantotto organi del tuo corpo, tu la custodirai; altrimenti la dimenticherai”. Il cristianesimo poi, con l’incarnazione, rivela che il corpo umano è il luogo più degno di dimora di Dio nel mondo e afferma di fatto la connivenza profonda tra il sensibile e lo spirituale, tra i sensi e lo spirito, tra il corpo dell’uomo e lo Spirito di Dio. Dio è narrato in maniera piena e definitiva dall’umanità di Gesù di Nazaret. Così la rivelazione biblica non oppone visione e ascolto, ma si sforza di pensarli insieme (e nella Bibbia al comando di tendere l’orecchio si accompagna quello di alzare gli occhi), non mette in contrapposizione i sensi e lo spirito, ma afferma l’essenzialità dei sensi per l’esperienza spirituale.
Di contro a questo troviamo nella tradizione cristiana, soprattutto nelle sue espressioni “mistiche”, una spiritualità dell’interiorità che si oppone radicalmente al piano della sensibilità: secondo Giovanni della Croce, per giungere “all’unione perfetta con il Signore, per grazia e per amore”, l’anima deve essere “nell’oscurità in rapporto a tutto ciò che l’occhio può vedere, l’udito ascoltare, l’immaginazione rappresentare e il cuore percepire” (Salita del monte Carmelo, II,4,4). Perché invece non prendere sul serio quell’affermazione dell’“antropologia biblica unitaria” che rischia di ridursi a slogan tanto ripetuto quanto disatteso? Perché non pensare che fra interiorità e sensibilità non vi è opposizione, ma scambio e interazione in cui “l’una dimensione prega l’altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé” (Catherine Chalier)? È attraverso i sensi che il mondo fa esperienza di noi ed è attraverso i sensi che noi facciamo esperienza del mondo. Possiamo dire che vi è un infinito mistero in ogni senso: nella vista, nel tatto, nell’olfatto, nel gusto, nell’udito. Mistero afferente all’alterità che dall’esteriorità e tramite i sensi giunge a noi, ci ferisce, ci inabita. I sensi hanno dunque a che fare con il senso: lì si cela la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo non è estraneo ai sensi attraverso cui il mondo stesso viene colto ed esperito da noi: il significato di un fenomeno è inseparabile dall’accesso che vi conduce.
Il corpo, che noi siamo ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. Il corpo ci ricorda l’evento e la realtà “spiritualissima” per cui ciò che noi siamo, sta nello spazio di una relazione, è dono. Noi siamo dialogo, ci dice il nostro corpo. Il corpo è la nostra obbedienza originaria e il nostro compito fondamentale. Il corpo è appello e chiamata, in esso è insita una parola, una vocazione. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo. I Salmi sono la migliore espressione della preghiera della sensibilità. “Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il Salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario, perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di ‘mormorio’, ‘sussurro’. Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: ‘Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore?’ (Sal 35,10)” (Paul Beauchamp). Pregare, per il Salmista, è anche dire il proprio corpo davanti a Dio. Pregare i Salmi, per noi, è anche fare memoria che la vita spirituale non è un’altra vita, ma questa vita – questa unica vita che è la nostra, questa vita del corpo che noi siamo – vissuta seguendo Cristo, vissuta sulle tracce dell’umanità di Gesù che ci umanizza e “ci insegna a vivere” (Tt 2,12).
Certo, i sensi devono essere risvegliati, destati, purificati, perché sono sempre a rischio di idolatria: la vista dovrà sempre restare aperta all’invisibile, l’ascolto dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell’ineffabile… Anche l’ascolto, infatti, non solo lo sguardo, può divenire idolatrico: quando l’orecchio s’impadronisce della parola divina come di una parola che non chiama, ma conferma, che non interpella, ma garantisce, che non scuote e non mette in crisi, ma rassicura, che non pone in cammino, non fa uscire per un esodo, ma stabilizza e arresta, allora siamo di fronte a un ascolto idolatrico. Certo, la Scrittura e la tradizione cristiana ci parlano di sensi spirituali: occhi del cuore, orecchio del cuore, ma già nella loro materialità i sensi sono ciò che ci mantiene aperti all’alterità mantenendoci aperti all’esteriorità. È attraverso l’esteriorità e l’alterità cui i sensi ci danno accesso che noi non ci rinchiudiamo in una spiritualità intimista, individualista e di mera interiorità. I sensi sono la via sensibile all’alterità. Certo, essi possono chiudersi e intontirsi: la Bibbia e Gesù stesso parlano di occhi che guardano ma non vedono, di orecchi che non ascoltano, di cuore indurito (cf. Ger 5,21; Ez 12,2; Mc 8,17-21), ecc. Per svolgere la loro funzione spirituale, i sensi devono essere tenuti vivi attraverso l’attenzione e la vigilanza. Allora essi saranno la memoria del carattere spirituale del corpo e della santità della carne.
La centralità delle sante Scritture e massimamente dei vangeli
3.1 L’Antico Testamento, parola di Dio per i cristiani
«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare loro pieno compimento» (Mt 5,17). Queste parole di Gesù attestano il permanente valore rivelativo dell’Antico Testamento. Dire “Antico” non significa pertanto dire “sorpassato” o “inutile”. Il Nuovo Testamento non sostituisce l’Antico rendendolo accessorio o eliminabile: questa tentazione, antichissima nella storia del cristianesimo, è sempre stata rigettata dalla chiesa come ereticale. La stessa “novità” del Nuovo Testamento va intesa in riferimento alla persona di Cristo (il quale «ci donò ogni novità donandoci se stesso»: Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,34,1) e non implica un giudizio di “svalutazione” dell’Antico Testamento in rapporto al Nuovo Testamento.
Il cristiano legge l’Antico Testamento perché i libri che lo compongono erano la “Scrittura” a cui Gesù stesso si richiamava, in cui egli stesso trovava la parola di Dio, a cui obbediva, che leggeva, ascoltava e predicava nelle sinagoghe, in cui discerneva la volontà di Dio su di lui e in cui ha saputo riconoscere la propria particolare vocazione. Il cristiano legge l’Antico Testamento perché senza di esso gli è preclusa la comprensione del Nuovo Testamento: gli scrittori neotestamentari pensano e scrivono in continuità con le Scritture e all’interno delle Scritture che per loro erano ciò che noi chiamiamo Antico Testamento. Del resto il Nuovo Testamento è intessuto di citazioni, reminiscenze, rimandi e allusioni ai libri veterotestamentari: il mistero pasquale, l’evento della morte e della resurrezione di Cristo è stato riconosciuto dagli autori del Nuovo Testamento come profetizzato nell’Antico Testamento ed è stato espresso nel Nuovo Testamento con continui riferimenti a testi dell’Antico Testamento. Inoltre l’Antico Testamento è ritenuto dalla Chiesa come ispirato e dunque anch’esso capace di comunicare la Parola Dio, e come tale va letto e ascoltato dal cristiano.
L’AT è imprescindibile per accedere alla fede pasquale e per conoscere e incontrare il Cristo che è morto e risorto secondo le Scritture (cf. 1Cor 15,3-4): quel “secondo le Scritture” attesta che ciò che è avvenuto in Gesù è in continuità con il disegno di Dio dispiegato fin dalla creazione attraverso la rivelazione e la storia di salvezza condotta da Dio con il suo popolo, e solamente così è evento di rivelazione di Dio e di salvezza. Il terzo vangelo esprime efficacemente come solo passando attraverso l’ascolto delle Scritture, di Mosè e dei Profeti, si può accedere alla fede nel Cristo morto e risorto (Lc 16,27-31; 24,25-27.44-47). Il compimento neotestamentario della promessa dell’Antico Testamento va poi inteso anche come rilancio della promessa che ormai è promessa in Cristo: questo compimento, infatti, già avvenuto in Cristo, è non-ancora avvenuto nelle sue dimensioni universali e cosmiche. Il rapporto fra Antico Testamento e Nuovo Testamento non è pertanto unidirezionale (dalla promessa dell’Antico Testamento al compimento del Nuovo Testamento), ma neppure soltanto circolare (il Nuovo Testamento come compimento non è pensabile senza l’Antico Testamento come promessa; Nuovo Testamento e Antico Testamento si illuminano reciprocamente); in realtà si tratta di un rapporto di reciprocità che si apre al futuro e prevede una terza tappa: il Regno di Dio in cui si compiranno le profezie veterotestamentarie che ancora attendono la loro realizzazione e a cui guiderà lo Spirito di verità (cf. Gv 16,13). Se la chiave di volta delle Scritture è l’evento pasquale di Cristo, questo evento, profetizzato già nell’Antico Testamento attende ancora un compimento escatologico nel Regno universale di Dio.
La necessità dell’Antico Testamento appare mirabilmente nella liturgia. La liturgia delle Ore è costituita essenzialmente dai Salmi; la liturgia eucaristica – soprattutto nel momento della liturgia della parola – svela il rapporto di reciprocità e intrinsecità fra Antico Testamento e Nuovo Testamento e anche la loro apertura escatologica, il loro guidare la comunità, mediante lo Spirito santo, alle soglie del Regno. Nella lettura individuale o in gruppo della Bibbia si tenterà di mettere in atto un’ermeneutica delle Scritture nello Spirito santo per comprendere secondo lo Spirito ciò che è stato scritto mediante lo Spirito (cf. DV 12). In questo modo, lo Spirito che un tempo ha presieduto al farsi Scrittura della parola di Dio, presiede anche al risorgere della Scrittura a parola vivente per una comunità ecclesiale nel suo oggi storico.
Le dimensioni della legge, della profezia e della sapienza, che costituiscono l’ossatura dell’Antico Testamento e designano le tre forme assunte dalla parola di Dio rivelata, trovano, nell’ottica cristiana, la loro piena manifestazione in Cristo, Parola di Dio che, secondo Gv 14,6, è via (livello della legge), verità (livello della profezia) e vita (livello della sapienza). Così Cristo appare il centro delle Scritture e il cristianesimo non una religione del libro, ma della persona di Cristo, che è il «consenso fra i due Testamenti» (Origene), persona resa presente nella storia e nelle vite personali dallo Spirito santo.
L’AT è essenziale per cogliere la dimensione storica della vita e dell’azione di Gesù che si situa nell’ambito del popolo d’Israele (Gesù è ebreo e lo è per sempre) e impedisce di isolare la sua figura quasi fosse quella di un eroe o un semidio.
3.2 Quale lettura dei vangeli?
L’umanità di Gesù noi la incontriamo nei vangeli. La narrazione evangelica è l’offerta di una visione del mondo, ma anche l’indicazione di una via da percorrere per divenire più umani. Gesù non ha scritto nulla, ma ha lasciato uno scritto esistenziale, la sua vita, la traiettoria della sua vita, che, narrata dai vangeli, chiede che sia ripercorsa dai lettori dei vangeli. La 1Pt afferma che Gesù ci lasciò un ypogrammòn, una falsariga, un modello da ricalcare, da riprodurre per scrivere a propria volta la propria narrazione (1Pt 2,21). Il termine indicava nelle scuole dell’epoca la copia che gli scolari dovevano ricopiare e trascrivere come esercizio scolastico. Ora, la narrazione che Gesù fa di Dio è esistenziale, è la sua pratica di umanità che insegna a vivere all’uomo. Si tratta pertanto di leggere i vangeli guidati da una domanda: che umanità è quella di Gesù di Nazaret? Che uomo si rivela essere Gesù di Nazaret a partire dalla testimonianza evangelica? Cogliere l’umano che è in Gesù e correlarlo alla propria umanità: in questo modo la lettura dei vangeli diviene via e scuola di umanizzazione. In questo modo la narrazione evangelica trasforma i narratari (i destinatari della narrazione) in somiglianti al narratore, Gesù.
Che umanità abita colui che entra nel Tempio e osa scacciarne i venditori degli animali per i sacrifici e rovesciare i tavoli dei cambiavalute (Gv 2,13-17)? Che pratica di umanità esercita l’uomo che rimprovera i suoi discepoli che allontanano i bambini e che accoglie questi ultimi con tenerezza (Mc 10,13-16)? Che umanità manifesta l’uomo che accoglie pubblicani e peccatori, mangia con loro, si lascia avvicinare scandalosamente da una prostituta durante un banchetto in casa di un fariseo e riesce a vedere l’amore là dove tutti i commensali vedono il peccato (Lc 7,36-50)? Che uomo è colui che pronuncia parole potenti come le beatitudini (Mt 5,1-12), che costituiscono uno squarcio sulla vita interiore di Gesù? Che pratica di umanità vive colui che non esista a entrare in conflitto con le autorità religiose se si tratta di difendere il primato della volontà di Dio e il diritto dei poveri? Che uomo è colui che non esita a rivolgere parole dure e di rimprovero ai propri discepoli, vedendo la loro incapacità di ascolto e di comprensione? Che forza abita nell’uomo di cui si arriva a dire: “Mai un uomo ha parlato così” (Gv 7,46)? Che uomo è colui che sa osservare i movimenti delle nuvole in cielo per comprendere il tempo che farà il giorno dopo, e che sa osservare la natura traendone insegnamento e consolazione? Che umanità abita l’uomo che incontra tanti malati nel corpo e nella psiche mostrando capacità di con-sofferenza con loro e curandoli con dispendio di tempo ed energie? Che umanità abita colui che non esista a criticare ferocemente pratiche e tradizioni religiose e usanze sacrali come il qorban (Mc 7,1-13)? Che uomo è colui che sa leggere e interpretare con estrema libertà la Torah circa l’adulterio e la lapidazione dell’adultera (Gv 8,1-11)? Che osa controbattere a scribi e farisei, a esperti della Legge, a uomini autorevoli sul piano religioso con parole anche di fuoco (Mt 23,13-32)? Si potrebbe continuare a lungo.
3.3 Dalla storia di Gesù alla nostra storia
La storia di Gesù è la storia della sua maniera di vivere il mondo, di abitare il corpo, di impostare le relazioni, di gestire la parola, insomma, di vivere l’umanità. Leggere i vangeli è pertanto un’avventura di umanità. Cogliere l’umano che è in Gesù e correlarlo alla propria umanità diviene una scuola di umanità. Seguire i percorsi interiori che Gesù vive nei vari frangenti narrati dai vangeli rappresenta un’affascinante avventura alla scoperta della vita interiore di Gesù. Perché Gesù non fugge davanti all’energumeno che gli si para davanti proferendo parole di rigetto nei suoi confronti? Cosa ascolta Gesù? Forse, intuisce il lettore, colmando il non-detto del testo, Gesù sta ascoltando la sofferenza dell’uomo da cui nasce, come unico linguaggio possibile, quello dell’aggressività (Mc 5,1-20). Il lettore resta colpito dalla compassione che scuote Gesù alla vista delle folle numerose che attendono una sua parola e che lo portano a derogare dal progetto di riposo per sé e per i suoi discepoli: la decisione presa può essere revocata di fronte al bisogno dell’altro (Mc 6,30-44). Vedendo lo sguardo di amore che Gesù rivolge all’uomo ricco che lo interrogava su come orientare la propria vita in obbedienza alla volontà del Signore, il lettore scopre in Gesù un uomo capace di affetto, di sentimenti di amicizia (Mc 10,17-21). Leggendo le parole dure che rivolge (o grida?) ai discepoli, il lettore scopre un uomo capace di toni forti e vibrati, un uomo di passione e di convinzione che vorrebbe vedere reagire con maggiore rapidità e profondità i suoi discepoli (Mc 8,14-21). Vedendo lo scoppio emotivo di Gesù di fronte all’amico morto, Lazzaro, quando Gesù scoppia in pianto, il lettore si rende conto di un uomo capace di amicizia, che sapeva voler bene. Fin quando non recupereremo questi elementi dell’umanità di Gesù come costitutivi del vangelo, della narrazione di Dio, noi saremo molto distanti da una comprensione di Dio secondo l’evangelo. E creeremo delle comunità cristiane sul modello delle istituzioni di questo mondo, aziende o organizzazioni politiche che siano, tradendo l’umano che Gesù ha voluto onorare e servire narrando Dio. La narrazione della storia di Gesù diviene così occasione per il lettore di confronto con la propria storia e con la propria pratica di umanità. Il vangelo appare come scuola di umanità. E la sensazione è che nella Chiesa si sia ancora molto distanti dal percepire la conversione radicale che esige questa presa sul serio della pratica di umanità di Gesù. Ma proprio questo è la vita spirituale cristiana: aprirsi all’azione dello Spirito santo per trasformare la propria umanità a immagine dell’umanità di Gesù testimoniata dai vangeli.
4. Il battesimo, figura della vita spirituale cristiana
4.1 Il battesimo, porta d’ingresso nella vita spirituale
È a questo punto che possiamo cogliere nel battesimo la figura della vita spirituale cristiana. All’ingresso di alcuni antichi battisteri si trova la scritta: janua vitae spiritualis (“porta d’ingresso per la vita spirituale”). Il battesimo significa l’inizio, l’introduzione nella vita secondo lo Spirito. Analogo è il senso dell’espressione fons vitae (“fonte della vita”).
Il battesimo, che è figura oggettiva ed ecclesiale della fede, orienta anche la vita spirituale del credente che ne riceve dei connotati fondamentali e irrinunciabili.
Anzitutto, dal battesimo discende il primato della fede nella vita spirituale; primato che significa la concreta tensione a rimanere e a crescere nell’adesione a Cristo di cui ci si è rivestiti nel battesimo. Dal battesimo la vita spirituale riceve la sua costitutiva dimensione pasquale che la configura quale quotidiana partecipazione alla morte di Cristo per vivere da con risorti con lui in novità di vita. Dal battesimo, impartito “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo” (Mt 28,19) la vita spirituale cristiana riceve il orientamento trinitario: ad Patrem, per Christum, in Spiritu sancto. La dinamica trinitaria regge anche la preghiera cristiana, sia personale che liturgica. Dal battesimo, in cui è inscritta la vocazione del cristiano, deriva anche la forma dell’esistenza cristiana come vita in stato di conversione che impegna il credente nella quotidiana lotta contro gli idoli e la mondanità. Il battesimo, incorporando a Cristo, innesta il battezzato nel corpo di Cristo che è la Chiesa (cf. 1Cor 12,13; Ef 1,22-23; Col 1,18) e struttura comunitariamente ed ecclesialmente la sua esistenza che non potrà più essere un vivere per sé, ma con gli e per gli altri in Cristo.
4.2 La vita secondo lo Spirito come vita umana innestata, risignificata e vissuta in Cristo
Il battesimo vuole significare l’illuminazione dell’umano a opera dello Spirito di Cristo e anche il risveglio dell’umano grazie all’atto di rivestire Cristo simbolizzato dall’immersione del corpo dell’uomo nelle acque e dalla sua riemersione da esse: simbolico passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Illuminazione e risveglio sono le operazioni che appaiono connesse al battesimo già nel Nuovo Testamento: “Quelli che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito santo” (Eb 6,4; cf. Eb 10,32); “Svegliati, tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14). Il rito battesimale conservatoci in un antico sacramentarlo (VI sec. d.C.) sottolinea la fisicità del coinvolgimento del battezzato con il Cristo e dunque di questa illuminazione e di questo risveglio:
“Io ti segno nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, perché tu sia cristiano; gli occhi, perché tu veda la luce di Dio; le orecchie, perché tu oda la voce del Signore; le narici, perché tu senta il soave odore di Cristo; le labbra, perché, una volta convertito, tu confessi il Padre e il Figlio e lo Spirito santo; il cuore, perché tu creda la Trinità indissolubile”.
4.3 La vigilanza
L’esperienza di Cristo, che è sempre esperienza di fede, è anche ed essenzialmente esperienza dei sensi. La vita spirituale cristiana è allora la vita del battezzato tout-court, è l’immersione in Cristo e la conformazione a Cristo dell’umano dell’uomo. E tutto questo senza comparti stagni e dicotomie, ma assumendo la vigilanza come la matrice di ogni virtù in quanto essa tiene desti i sensi e li orienta illuminandoli con l’attenzione alla presenza di Cristo. L’attenzione (ad-tendere) è un’attiva tensione che costituisce il fondamento interiore dell’agire umano e dell’esperienza del mondo che l’uomo fa. La vigilanza è così il tessuto connettivo che consente all’uomo intero – spirito (pneûma), anima (psyché), corpo (sôma), per riprendere la formulazione antropologica tripartita presente in Paolo (cf. 1Ts 5,23) –, di unire “spirituale” e “umano” in una vita che sia presenza lucida dell’uomo a se stesso e a Dio, agli altri e alla storia. L’uomo vigilante è l’uomo lucido, che si impedisce l’ottundimento dell’intelligenza e dei sensi, che rigetta l’indifferenza e assume la responsabilità della fede che è sempre anche responsabilità dell’umano che è nell’uomo: in sé e negli altri. Si comprende allora l’insistenza neotestamentaria sull’esigenza della vigilanza (“Vigilate e pregate!”: Mc 14,38; “Siate sobri, vigilate”: 1Pt 5,8; “Siate pronti”: Lc 12,35.40; “State attenti a voi stessi”: Lc 17,3; ecc.) e il fatto che la tradizione cristiana abbia dichiarato che essa è il fondamento indispensabile della vita spirituale. “Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante”, dice abba Poemen, e Basilio conclude le sue Regole Morali, una serie di regole di vita cristiana che egli intese rivolgere a tutti i cristiani, con la famosa pagina in cui elenca “ciò che è proprio del cristiano” e dove l’ultimo elemento ricordato, quello su cui grava tutto il peso dell’intera vita cristiana, è la vigilanza: “Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo, il Signore viene”. Dove la vigilanza appare non solo ciò che rende lucido e sveglio il corpo dell’uomo e i suoi sensi (essa si oppone all’ubriachezza, alla sonnolenza, alla distrazione, all’intontimento dei sensi e all’appesantimento del cuore), ma anche ciò che ordina il tempo della vita del credente grazie all’attesa della venuta di Cristo. La vigilanza, secondo il Nuovo Testamento, appare come atteggiamento globale dell’uomo di attenzione alla presenza del Signore, di tensione interiore per discernere la sua presenza, di apertura radicale di tutto l’essere alla sua venuta. La vigilanza tiene desta la coscienza del carattere spirituale dei sensi e del corpo, chiamati a incontrare Cristo, e di quella che potremmo chiamare l’“umanità della fede”.
La vita spirituale cristiana: divenire umani a immagine di Dio
5.1 La volontà di Dio è la nostra umanizzazione
Alla luce di quanto detto possiamo riprendere ciò che abbiamo detto all’inizio e affermare che la vita spirituale cristiana può essere così sintetizzata: Dio si è fatto uomo perché anche noi diventiamo uomini e perché umanizziamo la nostra umanità. Dio si è fatto uomo perché noi diventiamo uomini a sua immagine e somiglianza. Non è difficile mostrare come tutto l’AT, nelle sue tre componenti della Legge, della Profezia e della Sapienza, miri a umanizzare l’uomo.
5.1.1 La Legge
Molte leggi hanno una valenza simbolica che non tende direttamente al buon funzionamento della società, ma solo all’umanizzazione delle persone. Così le leggi che cercano di aprire il cuore dell’uomo alla situazione di bisogno dell’altro uomo (Es 22,25-26), che vogliono destare l’attenzione verso il povero e il bisognoso (Lv 19,9-10), che ricordano le istanze di giustizia e di risarcimento (Es 22,4; Ez 21,37). Così il comando, ripetuto tre volte (Es 23,19; 34,26; Dt 14,21), che proibisce di cuocere un capretto o un agnello nel latte della madre: esso tende a riportare l’uomo al senso di pietà di fronte a una madre e al suo piccolo (cf. anche Dt 22,6-7). Quando Gesù radicalizza la Torah e i comandi dell’AT (non uccidere, non commettere adulterio…) chiedendo il rispetto dell’altro e la purezza dello sguardo e del cuore, non fa che proseguire questa opera di umanizzazione dell’uomo.
5.1.2 La Profezia
Quanto all’esperienza profetica, essa non consiste nell’estasi (come riteneva Filone di Alessandria): l’idea dell’estasi cela il principio per cui ciò che è inaccessibile all’uomo nel suo stato di coscienza, gli viene concesso nello stato di ebbrezza, di incoscienza. Ma questo principio, che di fatto afferma che maggiore è la presenza di Dio là dove meno c’è dell’umano, è estranea alla concezione biblica. L’esperienza spirituale del profeta lo porta non a interessarsi ai misteri del cielo, ma agli affari del mercato, non a volgersi alle realtà spirituali dell’al di là, ma alla vita del popolo nelle sue dimensioni sociali, politiche, economiche… Ciò che l’orecchio del profeta percepisce è la parola di Dio, ma ciò che la Parola di Dio contiene è la sollecitudine di Dio per l’uomo e per il mondo[10]. Il Gesù profeta è colui che rivendica il primato dell’uomo e dell’umano sulle istituzioni e sulle leggi, fossero pure sacre come il sabato o le tradizioni ricevute dagli anziani (Mc 2,27; Mt 5,21-48).
5.1.3 La Sapienza
Nella Sapienza si afferma addirittura il diritto dell’esperienza umana a vagliare e criticare le affermazioni teologiche (come, nel caso di Giobbe, la teoria della retribuzione). Se l’esperienza umana ha acquisito un’importanza tale nell’AT da divenire un cardine del Canone biblico, dunque della rivelazione di Dio, è perché “le esperienze del mondo erano sempre, per Israele, esperienze di Dio e le esperienze di Dio erano sempre esperienze del mondo”[11]. Ecco allora Qohelet che prende sul serio la sfida che la morte costituisce per l’uomo; ecco il Cantico dei Cantici che pone l’esperienza erotica, l’esperienza umanissima dell’amore tra uomo e donna, nella sua materialità, nella sua dimensione sessuale, come esperienza divina: ciò che è divino nel Cantico (in cui il nome di Dio è praticamente assente) è la relazione fra gli amanti, il loro dialogo amoroso, il loro dirsi e il loro darsi reciprocamente; ecco Proverbi e Siracide che presentano la lezione del quotidiano come grande luogo teologico. E come dimenticare il Gesù sapiente che nelle parabole assume la realtà quotidiana, le realtà umane e attraverso di esse narra Dio? Insomma, compimento della Scrittura, compimento della volontà di Dio, è l’umanità di Gesù Cristo.
5.2 Diventare umani a immagine di Gesù Cristo
Alla scuola di Cristo la vita spirituale cristiana si configura così in maniera precisa: essere cristiano è diventare uomo in verità, seguendo Cristo. Possiamo riprendere l’insegnamento di Bonhoeffer già ricordato all’inizio: “Il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, così come Gesù era uomo… Si impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metánoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani”[12]. Aprirsi al dolore di Dio nel mondo significa anche destarsi all’impegno storico e politico, alla presa di posizione contro l’ingiustizia che offende la dignità e la sacralità dell’uomo, alla ribellione contro le prepotenze dei prepotenti, e contemporaneamente rendersi sensibili all’umano sofferente o oscurato nella persona malata, oppressa, schiacciata dal dolore, significa cogliere la passione di Dio nella sofferenza dell’umano che è nell’uomo. E divenirne responsabili mettendo in atto “una spiritualità che combatta il male”[13]. La vita spirituale cristiana qui diviene ispiratrice di no, di lotta, di opposizione a caro prezzo.
5.3 L’umano, ovvero, il luogo di Dio nel mondo
Parlare dell’umano che è nell’uomo significa affermare che l’umanità è dono e compito per l’uomo e che vi è la possibilità di un’umanità inumana, che si disumanizza. La vita spirituale cristiana chiede al credente di pensarsi ospite – non padrone – dell’umano che è in lui e in ogni uomo. E gli chiede di aver cura di questo umano, di svilupparlo e nutrirlo. Alla luce della rivelazione biblica circa la creazione si può pensare questo umano come il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio. Allora il nostro divenire uomini è obbedienza alla parola del Dio creatore: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26). Siamo implicati in quel “noi”. Quel “facciamo” destina l’uomo a una sinergia con Dio, che il cristiano vive come adesione alla persona di Gesù Cristo e come acquisizione del suo Spirito e docilità ad esso, e lo spinge a far avvenire in sé quell’umanità che è il vero luogo di Dio nel mondo. Un luogo divenuto persona in Gesù Cristo. “Dio ci incontra nell’esistenza di Gesù Cristo, nella sua libertà. Egli non vuole essere senza l’uomo, bensì con lui e, nella stessa libertà, non contro di lui, bensì per lui. Egli vuole essere il partner dell’uomo e il suo misericordioso salvatore. Egli decide di amare proprio lui, di essere proprio il suo Dio, il suo Signore, il suo Dio misericordioso, il suo salvatore per la vita eterna. In questo atto divinamente libero di volere e di scegliere, in questa sovrana decisione, Dio è umano. La sua liberta affermazione dell’uomo, la sua libera partecipazione alla sua esistenza, il suo libero intervenire per lui: questa è l’umanità di Dio”[14]. E questa umanità di Dio è narrata e vissuta da Gesù Cristo, e noi la incontriamo condividendo il respiro di Cristo: il suo Spirito. Quello Spirito che testimonia al nostro spirito che noi siamo figli di Dio (Rm 8,16) e che rende possibile il nostro rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre, Abbà” (Rm 8,15; Gal 4,6). Sì, Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga umano a immagine della sua umanità, umanità che noi contempliamo nella vita di Gesù Cristo. A questo ci guida la lo Spirito santo. Questa la vita spirituale cristiana.
Note.
[1] L. Manicardi, «Dalle spiritualità alla vita nello Spirito santo», in Qol 100, …
[2] Cf. P. C. Bori, «Réforme religieuse, hemenéutique des origines et rationalité», in P. C. Bori, M. Haddad, A. Melloni (Éds.), Réformes. Comprendre et comparer les religions, LIT Verlag, Berlin 2007, 5-13.
[3] Faccio notare che Hans Küng propone un ritorno a Gesù per la teologia, ovvero suggerisce di “concepire la teologia cristiana in maniera nuova a partire dal Gesù della storia” (H. Küng, Umstrittene Wahrheit. Erinnerungen, Piper Verlag, München 2007). Si tratterebbe di fondare la teologia, non sull’impianto dogmatico, quanto piuttosto sul Gesù della storia quale l’esegesi storico-critica può riscoprirlo. Del resto, sempre per Küng, la figura storica di Gesù è il fondamento dell’autentica spiritualità cristiana e il modello del cristiano oggi e in ogni tempo. Cf. H. Küng, Essere cristiani, Rizzoli, Milano 2011, 201-214; Idem, Tornare a Gesù, Rizzoli, Milano 2013.
[4] Cf. L. Manicardi, L’umanità della fede, Qiqajon, Bose 2005.
[5] J. Moingt, «La figure de Jésus», in Didaskalia 36 (2006), 29.
[6] Ippolito, Refutatio omnium haeresium X,33,16,1.
[7] Atanasio di Alessandria, De Incarnatione 54,3. Nella sua interezza il passo di Atanasio recita: “Il Verbo divenne uomo perché noi fossimo deificati; egli si rivelò mediante il corpo affinché noi potessimo avere un’idea del padre invisibile; egli sopportò la violenza degli uomini affinché noi ereditassimo l’incorruttibilità”.
[8] Ireneo di Lione, Adversus haereses IV,39,2. Ignazio di Antiochia, scrivendo ai cristiani di Roma (Ad Romanos 6,2)e intravedendo il suo martirio come nascita alla vita, afferma: “Comprendetemi fratelli! Non impeditemi di vivere, né vogliate il mio morire. Uno che vuole essere di Dio, non consegnatelo al mondo e non ingannatelo con la materia. Lasciatemi ricevere la pura luce! Là giunto, sarò uomo” (ánthropos ésomai). Per Ignazio, l’incontro dell’uomo nuovo e perfetto, Gesù Cristo con gli uomini non destina questi ultimi a diventare dèi, ma a diventare veri uomini in Dio.
[9] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo (MI) 1988, p. 441.
[10] Cf. A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981.
[11] G. von Rad, La sapienza in Israele, Marietti, Torino 1975, p. 65.
[12] Ibidem, p. 446.
[13] Così Catherine Chalier definisce la spiritualità esigita dai profeti biblici: C. Chalier, Sagesse des sens. Le regard et l’écoute dans la tradition hébraïque, Albin Michel, Paris 1995, p. 165.
[14] K. Barth, L’umanità di Dio, Claudiana, Torino 1997, p. 101.