Enzo Bianchi "Il giudizio di Dio sulle nostre omissioni"
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose
C’è una domanda che spesso mi viene rivolta e che anch’io pongo con frequenza a me stesso: noi, cristiani di oggi, all’inizio del terzo millennio come ci descriviamo? Come vogliamo vivere da cristiani in questa società dell’Europa occidentale multireligiosa e multiculturale?
Innanzitutto non dovremmo dimenticare che il primo nome dato ai discepoli di Gesù dopo la Pentecoste è stato “i credenti” (At 5,14). I discepoli e le discepole di Gesù furono chiamati così a causa della specificità della loro fede, della differenza tra la loro fede, il cui iniziatore era Gesù, e la fede giudaica. C’è una semplicità della fede cristiana che dobbiamo saper assumere, soprattutto in questo tempo in cui il cristianesimo rischia di essere posto in concorrenza con le altre religioni, in primo luogo con i monoteismi, quindi con le varie spiritualità presenti nella nostra società. La nostra fede deve insistere sull’evidenza che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18), “nessuno l’ha mai contemplato” (1Gv 4,12), e che Gesù di Nazaret, uomo, carne (sárx: Gv 1,14), lo ha rivelato e raccontato (exeghésato: Gv 1,18) a noi con la sua stessa vita umana, le sue parole, le sue azioni, i suoi sentimenti.
La singolarità della fede cristiana sta tutta in questa “umanizzazione di Dio”: Dio si è fatto uomo, si è fatto carne, cioè corpo, respiro, sensibilità, libertà, parola e gesto. Dio si è fatto veramente uomo! La fede cristiana deve confessare, oggi più che mai, l’umanità, la carne di Gesù Cristo come carne di Dio. Per la maggioranza delle persone Dio è oggi un’espressione ambigua; di fronte alla questione “Dio” c’è indifferenza e, da parte delle nuove generazioni, addirittura diffidenza, perché Dio è spesso assimilato all’intolleranza e all’integralismo religioso. Ebbene, noi cristiani, consapevoli dell’idolatria sempre possibile nelle immagini di Dio, aderiamo a Gesù quale “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15); sappiamo che solo attraverso Gesù andiamo a Dio (cf. Gv 14,6) e che solo vedendo Gesù possiamo vedere il Padre (cf. Gv 14,9). Dio si è fatto uomo, e nell’umanità vissuta da Gesù si è fatto conoscere a noi:Gesù ha rivelato Dio perché è stato umanissimo (“Ecce homo!”: Gv 19,5), nella sua vita umana ha tracciato i cammini che ci portano a Dio e, nello stesso tempo, all’umanizzazione autentica.
In virtù della rivelazione di Dio fatta da Gesù, la nostra fede confessa che “Dio è amore, carità” (agápe: 1Gv 4,8.16). Da questa fede-fiducia nasce dunque l’amore che noi cristiani dovremmo vivere in mezzo agli altri uomini e donne. È significativo che Gesù non abbia mai cercato un riconoscimento della sua missione e, di conseguenza, della missione dei discepoli, ma abbia offerto un criterio molto semplice: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’unico segno dell’essere discepoli di Gesù è costituito dalla capacità di vivere il comandamento dell’amore reciproco, quello ultimo e definitivo lasciatoci da Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho vi ho amati” (Gv 13,34). Non basta invocare il Signore (cf. Mt 7,21; Lc 6,46), non basta ascoltare la sua parola né mangiare e bere con lui per essere cristiani (cf. Lc 13,26), ma occorre vivere l’amore, la carità, come Gesù stesso l’ha vissuta “fino all’estremo” (eis télos: Gv 13,1), fino al dono della propria vita nel servizio degli altri.
Proprio per questo il giudizio finale su tutta l’umanità di ogni terra e di ogni tempo sarà fondato sulle relazioni che ogni essere umano avrà vissuto con gli altri. Gesù non ci ammonisce su un giudizio che riguarda le nostre debolezze di uomini e donne fragili nella loro condizione carnale, ma sulle nostre omissioni quando incontriamo l’altro, in particolare il bisognoso: l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf. Mt 25,31-46). Ciò che viene chiesto al cristiano è di incontrare l’altro in quanto essere umano come lui, fratello o sorella in umanità. Si tratta di incontrare l’altro ascoltandolo fino a discernere il suo bisogno, la sua sofferenza; fino a prendersene cura in un incontro ospitale, all’insegna della gratuità.
Questa carità vissuta esprime la verità dell’appartenenza a Cristo e richiede che i cristiani sappiano dare una forma politica alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. Occorre un’opzione personale e preferenziale per i bisognosi, ma guai se i cristiani non sapessero assumersi responsabilità nella polis e restassero afoni nella società! Nella nostra Europa siamo sempre più testimoni che i cristiani, la cui carità personale non viene meno, restano però incapaci di far sentire con efficacia la loro presenza di fronte alla costruzione di muri e barriere alle frontiere degli stati; incapaci di opporsi alla moltiplicazione degli egoismi nazionali, che non sanno governare le migrazioni e negano l’accoglienza a chi fugge la fame, la violenza, le guerre e cerca semplicemente una vita più umana. Si tratta dunque di manifestare, innanzitutto con la vita, che l’amore è un dono gratuito e che può essere vissuto in questo mondo. E tutto ciò fino all’amore del non amabile, fino all’amore del nemico (cf. Mt 5,43-48; Lc 6,27-36), sempre sull’esempio di Gesù (cf. Lc 23,34): è un messaggio eloquente per tutti, un messaggio vissuto in azioni e aperture verso gli altri, tutte ispirate dall’amore.
Infine, la nostra condizione di cristiani ci chiede di rispondere a un’ultima domanda, che formulo parafrasando le parole di Immanuel Kant: “Che cosa la nostra fede e il nostro amore vissuto ci permettono di sperare?”. Viviamo in un tempo segnato dalla presenza di molte paure, che hanno spento le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate; un tempo che è posto sovente sotto il segno della crisi e a volte viene letto come “tempo della fine”. Non è un caso che papa Francesco chieda con insistenza di combattere e vincere le paure, come antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, ripiegato su di sé e perciò assorbito in un vortice di egoismo.
Di fronte a questa situazione il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi in una spiritualità seducente, che appare accattivante ed efficace. Una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come “benessere individuale”: si propone un deismo etico-terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e sazia il bisogno di conforto interiore. In questa spiritualità il primato viene accordato a un dio-energia, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace interiore. Si assiste al trionfo di una speranza terapeutica: l’unica salvezza che si attende e si persegue è la salute, la guarigione e, più in profondità, tutto ciò che coincide con l’interesse momentaneo dell’individuo. Non sembra dunque esserci più spazio né per la grazia, cioè per l’amore preveniente di Dio, né per una speranza che sia speranza per tutti…
Ma ricordiamolo bene: la speranza cristiana è quella del Vangelo, della buona notizia, ed è speranza di liberazione innanzitutto dalla morte. Qui si evidenzia la timidezza dei cristiani, i quali non riescono ad affermare che proprio la vittoria sulla morte è lo specifico della loro fede. Hanno, abbiamo forse dimenticato che i primi cristiani potevano definirsi ed essere definiti “coloro che non hanno paura della morte”? La vittoria del perdono sul male, l’affermazione del dono di un amore che non deve mai essere meritato, la vittoria dell’amore sulla morte: questo può essere la giustificazione di ogni esistenza.
Di più, se la vita di Gesù è stata “vita salvata” dalla forma e dallo stile del suo vivere; se la sua pratica di umanità sapeva destare fiducia e speranza, allora ancora oggi per il cristiano che cerca di assumere la vita umana di Gesù è possibile conoscere la speranza di una vita che trovi una ragione per essere vissuta e donata. Ed è partire da questa prassi quotidiana che si può giungere a sperare con tutti e per tutti: così i cristiani possono sperare quella realtà che il Vangelo chiama “regno di Dio”, Regno che è sempre veniente.
Proprio come “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8), così ieri, oggi e sempre risuona la domanda: “Cristiano, che cosa dici di te stesso?”. E la risposta è una sola: “Credo e spero nell’amore, cercando di accoglierlo e di viverlo”.
Innanzitutto non dovremmo dimenticare che il primo nome dato ai discepoli di Gesù dopo la Pentecoste è stato “i credenti” (At 5,14). I discepoli e le discepole di Gesù furono chiamati così a causa della specificità della loro fede, della differenza tra la loro fede, il cui iniziatore era Gesù, e la fede giudaica. C’è una semplicità della fede cristiana che dobbiamo saper assumere, soprattutto in questo tempo in cui il cristianesimo rischia di essere posto in concorrenza con le altre religioni, in primo luogo con i monoteismi, quindi con le varie spiritualità presenti nella nostra società. La nostra fede deve insistere sull’evidenza che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18), “nessuno l’ha mai contemplato” (1Gv 4,12), e che Gesù di Nazaret, uomo, carne (sárx: Gv 1,14), lo ha rivelato e raccontato (exeghésato: Gv 1,18) a noi con la sua stessa vita umana, le sue parole, le sue azioni, i suoi sentimenti.
La singolarità della fede cristiana sta tutta in questa “umanizzazione di Dio”: Dio si è fatto uomo, si è fatto carne, cioè corpo, respiro, sensibilità, libertà, parola e gesto. Dio si è fatto veramente uomo! La fede cristiana deve confessare, oggi più che mai, l’umanità, la carne di Gesù Cristo come carne di Dio. Per la maggioranza delle persone Dio è oggi un’espressione ambigua; di fronte alla questione “Dio” c’è indifferenza e, da parte delle nuove generazioni, addirittura diffidenza, perché Dio è spesso assimilato all’intolleranza e all’integralismo religioso. Ebbene, noi cristiani, consapevoli dell’idolatria sempre possibile nelle immagini di Dio, aderiamo a Gesù quale “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15); sappiamo che solo attraverso Gesù andiamo a Dio (cf. Gv 14,6) e che solo vedendo Gesù possiamo vedere il Padre (cf. Gv 14,9). Dio si è fatto uomo, e nell’umanità vissuta da Gesù si è fatto conoscere a noi:Gesù ha rivelato Dio perché è stato umanissimo (“Ecce homo!”: Gv 19,5), nella sua vita umana ha tracciato i cammini che ci portano a Dio e, nello stesso tempo, all’umanizzazione autentica.
In virtù della rivelazione di Dio fatta da Gesù, la nostra fede confessa che “Dio è amore, carità” (agápe: 1Gv 4,8.16). Da questa fede-fiducia nasce dunque l’amore che noi cristiani dovremmo vivere in mezzo agli altri uomini e donne. È significativo che Gesù non abbia mai cercato un riconoscimento della sua missione e, di conseguenza, della missione dei discepoli, ma abbia offerto un criterio molto semplice: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’unico segno dell’essere discepoli di Gesù è costituito dalla capacità di vivere il comandamento dell’amore reciproco, quello ultimo e definitivo lasciatoci da Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho vi ho amati” (Gv 13,34). Non basta invocare il Signore (cf. Mt 7,21; Lc 6,46), non basta ascoltare la sua parola né mangiare e bere con lui per essere cristiani (cf. Lc 13,26), ma occorre vivere l’amore, la carità, come Gesù stesso l’ha vissuta “fino all’estremo” (eis télos: Gv 13,1), fino al dono della propria vita nel servizio degli altri.
Proprio per questo il giudizio finale su tutta l’umanità di ogni terra e di ogni tempo sarà fondato sulle relazioni che ogni essere umano avrà vissuto con gli altri. Gesù non ci ammonisce su un giudizio che riguarda le nostre debolezze di uomini e donne fragili nella loro condizione carnale, ma sulle nostre omissioni quando incontriamo l’altro, in particolare il bisognoso: l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf. Mt 25,31-46). Ciò che viene chiesto al cristiano è di incontrare l’altro in quanto essere umano come lui, fratello o sorella in umanità. Si tratta di incontrare l’altro ascoltandolo fino a discernere il suo bisogno, la sua sofferenza; fino a prendersene cura in un incontro ospitale, all’insegna della gratuità.
Questa carità vissuta esprime la verità dell’appartenenza a Cristo e richiede che i cristiani sappiano dare una forma politica alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. Occorre un’opzione personale e preferenziale per i bisognosi, ma guai se i cristiani non sapessero assumersi responsabilità nella polis e restassero afoni nella società! Nella nostra Europa siamo sempre più testimoni che i cristiani, la cui carità personale non viene meno, restano però incapaci di far sentire con efficacia la loro presenza di fronte alla costruzione di muri e barriere alle frontiere degli stati; incapaci di opporsi alla moltiplicazione degli egoismi nazionali, che non sanno governare le migrazioni e negano l’accoglienza a chi fugge la fame, la violenza, le guerre e cerca semplicemente una vita più umana. Si tratta dunque di manifestare, innanzitutto con la vita, che l’amore è un dono gratuito e che può essere vissuto in questo mondo. E tutto ciò fino all’amore del non amabile, fino all’amore del nemico (cf. Mt 5,43-48; Lc 6,27-36), sempre sull’esempio di Gesù (cf. Lc 23,34): è un messaggio eloquente per tutti, un messaggio vissuto in azioni e aperture verso gli altri, tutte ispirate dall’amore.
Infine, la nostra condizione di cristiani ci chiede di rispondere a un’ultima domanda, che formulo parafrasando le parole di Immanuel Kant: “Che cosa la nostra fede e il nostro amore vissuto ci permettono di sperare?”. Viviamo in un tempo segnato dalla presenza di molte paure, che hanno spento le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate; un tempo che è posto sovente sotto il segno della crisi e a volte viene letto come “tempo della fine”. Non è un caso che papa Francesco chieda con insistenza di combattere e vincere le paure, come antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, ripiegato su di sé e perciò assorbito in un vortice di egoismo.
Di fronte a questa situazione il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi in una spiritualità seducente, che appare accattivante ed efficace. Una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come “benessere individuale”: si propone un deismo etico-terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e sazia il bisogno di conforto interiore. In questa spiritualità il primato viene accordato a un dio-energia, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace interiore. Si assiste al trionfo di una speranza terapeutica: l’unica salvezza che si attende e si persegue è la salute, la guarigione e, più in profondità, tutto ciò che coincide con l’interesse momentaneo dell’individuo. Non sembra dunque esserci più spazio né per la grazia, cioè per l’amore preveniente di Dio, né per una speranza che sia speranza per tutti…
Ma ricordiamolo bene: la speranza cristiana è quella del Vangelo, della buona notizia, ed è speranza di liberazione innanzitutto dalla morte. Qui si evidenzia la timidezza dei cristiani, i quali non riescono ad affermare che proprio la vittoria sulla morte è lo specifico della loro fede. Hanno, abbiamo forse dimenticato che i primi cristiani potevano definirsi ed essere definiti “coloro che non hanno paura della morte”? La vittoria del perdono sul male, l’affermazione del dono di un amore che non deve mai essere meritato, la vittoria dell’amore sulla morte: questo può essere la giustificazione di ogni esistenza.
Di più, se la vita di Gesù è stata “vita salvata” dalla forma e dallo stile del suo vivere; se la sua pratica di umanità sapeva destare fiducia e speranza, allora ancora oggi per il cristiano che cerca di assumere la vita umana di Gesù è possibile conoscere la speranza di una vita che trovi una ragione per essere vissuta e donata. Ed è partire da questa prassi quotidiana che si può giungere a sperare con tutti e per tutti: così i cristiani possono sperare quella realtà che il Vangelo chiama “regno di Dio”, Regno che è sempre veniente.
Proprio come “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8), così ieri, oggi e sempre risuona la domanda: “Cristiano, che cosa dici di te stesso?”. E la risposta è una sola: “Credo e spero nell’amore, cercando di accoglierlo e di viverlo”.