Armando Matteo "A che serve la teologia?"
Armando Matteo
10 ottobre 2019
Pubblichiamo l’editoriale dell’ultimo numero della rivista quadrimestrale «Urbaniana University Journal», firmato dal nuovo direttore.
Ci sono momenti in cui appare necessario porsi qualche domanda di senso circa la propria missione all’interno della vita della Chiesa. Avviando l’esperienza della Direzione dell’Urbaniana University Journal, organo principale della diffusione della ricerca svolta all’interno della Pontificia Università Urbaniana, risulta pertanto doveroso ritornare ad interrogarsi sul “senso”, sullo “scopo”, sul “fine” e sul “servizio” cui è chiamata a rispondere la ricerca teologica (che più mi riguarda) e più in generale quella delle scienze ecclesiastiche.
Nell’attuale contesto culturale, non appare più così evidente il servizio possibile che queste forme di sapere sono chiamate ad offrire. Alla maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo, l’unico servizio che esse potrebbero rendere riguarda la formazione dei futuri sacerdoti, religiosi e religiose, dei futuri operatori pastorali a tempo pieno ed infine degli insegnanti di religione nelle scuole.
La situazione, poi, non cambia di molto, se ci si rivolge all’interno della realtà ecclesiale. Cosa, infatti, si aspettano oggi dalle scienze ecclesiastiche i vescovi, i parroci, i religiosi, le suore, i laici ed infine gli stessi insegnanti di religione nelle scuole? A voler essere generosi, i soggetti appena citati non si aspettano molto dall’esercizio multiforme dell’intelligenza credente.
Del resto, si deve pur confessare che le scienze ecclesiastiche non raramente si configurano in un assetto così tecnico, così specialistico, così asettico, così “fuori dal mondo”, che poi il mondo — dentro e fuori dalla Chiesa — non sa più cosa farsene dei suoi risultati. Linguaggi specialistici troppo “specialistici”, argomentazioni tecniche troppo “tecniche”, pubblicazioni accademiche troppo “accademiche”, interessi specifici troppo “specifici” sono all’origine di quella che rischia di essere la malattia più grave dell’esercizio dell’intelligenza credente: una cercata e compiaciuta autoreferenzialità.
Rispetto a tutto ciò, avverto come provvidenziale la concomitanza tra i miei primi passi nella direzione di Uuj e l’intervento che Papa Francesco ha svolto a Napoli, venerdì 21 giugno scorso, in occasione del convegno «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo». Le numerose e puntuali sollecitazioni che egli ha rivolto a coloro che si dedicano specificatamente alla ricerca teologica — ma che possono benissimo essere intese come rivolte a tutti coloro che si dedicano alle altre scienze ecclesiastiche — appaiono come un autentico antidoto a quel rischio di autoreferenzialità prima evidenziato. In questa sede, desidero citare e rapidamente commentare due passaggi dell’articolato discorso svolto da Francesco.
Primo passaggio. «Nel corso di questo Convegno avete prima analizzato contraddizioni e difficoltà nello spazio del Mediterraneo, e poi vi siete interrogati sulle soluzioni migliori. A questo proposito, vi chiedete quale teologia sia adeguata al contesto in cui vivete e operate. Direi che la teologia, particolarmente in tale contesto, è chiamata ad essere una teologia dell’accoglienza e a sviluppare un dialogo sincero con le istituzioni sociali e civili, con i centri universitari e di ricerca, con i leader religiosi e con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per la costruzione nella pace di una società inclusiva e fraterna e anche per la custodia del creato. Quando nel Proemio della Veritatis gaudium si menziona l’approfondimento del kerygma e il dialogo come criteri per rinnovare gli studi, si intende dire che essi sono al servizio del cammino di una Chiesa che sempre più mette al centro l’evangelizzazione. Non l’apologetica, non i manuali — come abbiamo sentito —: evangelizzare. Al centro c’è l’evangelizzazione, che non vuol dire proselitismo. Nel dialogo con le culture e le religioni, la Chiesa annuncia la Buona Notizia di Gesù e la pratica dell’amore evangelico che Lui predicava come una sintesi di tutto l’insegnamento della Legge, delle visioni dei Profeti e della volontà del Padre. Il dialogo è anzitutto un metodo di discernimento e di annuncio della Parola d’amore che è rivolta ad ogni persona e che nel cuore di ognuno vuole prendere dimora. Solo nell’ascolto di questa Parola e nell’esperienza dell’amore che essa comunica si può discernere l’attualità del kerygma. Il dialogo, così inteso, è una forma di accoglienza».
La teologia che serve, dunque, è una teologia che si nutre di dialogo (ed in primis, ovviamente, del dialogo interdisciplinare) e che si concepisce all’interno del progetto globale ecclesiale dell’evangelizzazione. Il dialogo e la memoria della prassi d’amore di Gesù sono le strade che sole possono farci sperare in un futuro di pace, di giustizia e di fratellanza per l’intera umanità.
Secondo passaggio. «Abbiamo bisogno di teologi — uomini e donne, presbiteri, laici e religiosi — che, in un radicamento storico ed ecclesiale e, al tempo stesso, aperti alle inesauribili novità dello Spirito, sappiano sfuggire alle logiche autoreferenziali, competitive e, di fatto, accecanti che spesso esistono anche nelle nostre istituzioni accademiche e nascoste, tante volte, tra le scuole teologiche. In questo cammino continuo di uscita da sé e di incontro con l’altro, è importante che i teologi siano uomini e donne di compassione — sottolineo questo: che siano uomini e donne di compassione —, toccati dalla vita oppressa di molti, dalle schiavitù di oggi, dalle piaghe sociali, dalle violenze, dalle guerre e dalle enormi ingiustizie subite da tanti poveri che vivono sulle sponde di questo “mare comune”. Senza comunione e senza compassione, costantemente alimentate dalla preghiera — questo è importante: si può fare teologia soltanto “in ginocchio” —, la teologia non solo perde l’anima, ma perde l’intelligenza e la capacità di interpretare cristianamente la realtà. Senza compassione, attinta dal Cuore di Cristo, i teologi rischiano di essere inghiottiti nella condizione del privilegio di chi si colloca prudentemente fuori dal mondo e non condivide nulla di rischioso con la maggioranza dell’umanità. La teologia di laboratorio, la teologia pura e “distillata”, distillata come l’acqua, l’acqua distillata, che non sa di niente».
Tali parole sono così nitide e pulite che ogni commento rischierebbe di gettarvi più ombra che qualche piccola luce. Per questo, aggiungo solo che, in continuità con il lavoro eccellente di chi mi ha preceduto, l’Urbaniana University Journal continuerà ad essere a servizio di un multiforme esercizio dell’intelligenza credente “ricco di sapore” e “ricco di sapere”: di quel sapore e di quel sapere che fioriscono sempre da un dialogo con e da una compassione verso gli uomini e le donne del nostro tempo, in mezzo ai loro sogni di pace e di fratellanza, in mezzo al loro grido di giustizia.