Quell’ebreo marginale che ha cambiato il mondo
Un commento alle sette parole di Gesù in croce, simbolo del mistero della sofferenza
Anticipiamo uno stralcio dell’introduzione al libro Le sette parole di Gesù in croce (Brescia, Queriniana, 2019, pagine 288, euro 20). «Sono sette frasi brevissime — si legge nella quarta di copertina — simili a un soffio che esce dalle labbra aride di Gesù (...)
Eppure, la loro densità è tale da aver sollecitato nei secoli un’imponente riflessione teologica e spirituale e da aver conquistato anche la cultura occidentale che in esse ha condensato il mistero universale dell’esistere, del soffrire, del morire e dello sperare».
Ho iniziato a scrivere le pagine di questo libro il venerdì santo 30 marzo 2018, che, per una suggestiva coincidenza di calendari, era il 14 di Nisan e quindi a sera l’entrata nella Pasqua ebraica che aveva i suoi due giorni solenni il 31 marzo e domenica 1° aprile, incrociandosi così con la Pasqua cristiana. Come in ogni anno, la liturgia cattolica ripropone la sequenza degli eventi che si svolsero a Gerusalemme in un arco cronologico compreso fra il 30 e il 33 del i secolo e che avevano come protagonista Gesù di Nazaret. È una forbice temporale che è stata modulata variamente dagli esegeti attraverso complesse e complicate analisi e calcoli cronologici. Se vogliamo optare, a titolo esemplificativo, per una di tali ipotesi, evochiamo quella che il neotestamentarista americano John P. Meier ha elaborato nel primo tomo del suo sterminato studio in più volumi sul Gesù storico, Un ebreo marginale, pubblicato nel 1991 (Queriniana 2001). Egli collocava il banchetto d’addio e la cena eucaristica di Gesù il giovedì sera 6 aprile dell’anno 30, il 14 di Nisan, «preparazione (parasceve)» della Pasqua ebraica.
Nella notte tra il 6 e il 7 aprile, dopo l’arresto, un processo preliminare veniva celebrato durante una riunione informale del Sinedrio; la sentenza ufficiale veniva, invece, emessa in un’altra seduta all’alba del venerdì 7 aprile. In quella stessa mattinata avveniva la consegna dell’imputato a Pilato che rendeva esecutiva la condanna a morte con la sua autorità di governatore imperiale. Torturato dal corpo di guardia, Gesù veniva condotto alla pena capitale per crocifissione sul colle del Golgota-Calvario.
Era il primo pomeriggio del 7 aprile 30. Dopo qualche ora l’uomo crocifisso si spegneva. Aveva circa 36 anni. Al di là di questa ricostruzione cronologica ipotetica, l’atto che si stava compiendo avrebbe assunto una portata fondamentale e universale nella storia. Certo, la documentazione decisiva è quella offerta dai quattro Vangeli; tuttavia una traccia è rimasta anche sulle carte «profane» di quello stesso periodo storico. È, infatti, d’obbligo citare un passo dell’opera Antichità giudaiche composta in greco dallo storico giudaico filoromano Giuseppe Flavio, nato a Gerusalemme attorno al 37/38 e morto a Roma dopo il 103. Ecco il suo testo così come è giunto a noi con evidenti interpolazioni cristiane, ma importante per la sostanza del nostro discorso. «Verso questo tempo visse Gesù, uomo saggio, se pur conviene chiamarlo uomo; infatti egli compiva opere straordinarie, ammaestrava gli uomini che con gioia accolgono la verità, e convinse molti giudei e greci. Egli era il Cristo. E dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo, lo condannò alla croce, non vennero meno coloro che fin dall’inizio lo amarono. Infatti apparve loro il terzo giorno di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. E ancora fino ad oggi non è scomparsa la tribù dei cristiani che da lui prende nome» (18, 63-64).
È abbastanza agevole individuare — in questo che è stato denominato il Testimonium Flavianum — tre eventuali glosse di mano cristiana nelle frasi: «se pur conviene chiamarlo uomo», «egli era il Cristo», «apparve loro il terzo giorno di nuovo vivo, avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie». Sta di fatto che a pochi anni di distanza la morte di Gesù, sulla base della testimonianza della «tribù dei cristiani», costituiva un evento storico rilevante da registrare.
Ma c’è di più. Anche la storiografia romana ha accolto lo stesso dato riguardante la fine di Gesù attraverso uno dei suoi maggiori autori, Cornelio Tacito, vissuto tra il 55 e il 120 circa. Nei suoi Annali egli descrive l’incendio di Roma, che sospetta appiccato dallo stesso Nerone (come faranno anche gli altri storici Plinio il Vecchio e Svetonio), ma attribuito dall’imperatore ai cristiani romani. Nell’ampia descrizione di quell’evento tragico e della relativa crudele persecuzione cristiana, c’è un paragrafo che presenta i dati essenziali sulla fine di Gesù.
«Nerone dichiarò colpevoli e condannò ai tormenti più raffinati colora che il volgo chiamava crestiani, odiosi per le loro nefandezze. Essi prendevano nome da Cresto, che era stato condannato al supplizio ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio» (15, 44,2-3).
Pur in forma stringata, anche in questo passo il dato della morte di Gesù è confermato in modo puntuale a livello storico-politico con la menzione dell’imperatore e del governatore della provincia di Giudea (subito dopo, si cita appunto la Giudea come sede della «funesta superstizione» dei «crestiani»), mentre il termine supplicium designa una condanna a morte con tortura. All’interno della realtà della morte di Cristo narrata ampiamente dagli evangelisti e che è, quindi, annotata anche negli annali della storia romana classica, noi sceglieremo solo una serie di piccoli momenti drammatici, affidati a una manciata di parole del Crocifisso, le ultime che egli pronuncia mentre è inchiodato sulla croce e lentamente l’asfissia lo sta strangolando in un’agonia atroce. Si tratta, nella redazione greca dei Vangeli, di sole sette frasi composte di 41 parole, compresi gli articoli e le particelle. Esse hanno ricevuto una titolatura codificata: Le sette parole di Cristo in croce e sono state messe in sequenza secondo diverse enumerazioni (...) Curiosa è, poi, la disposizione concentrica e più libera secondo la quale sant’Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali (1548), al n. 297 — all’insegna dei «misteri compiuti sulla croce» — distribuisce le sette parole ultime di Gesù ponendo al centro di questo ideale «candelabro a sette bracci» la sete di Cristo, assunta nel suo valore metaforico di sete di salvezza dell’intera umanità. Ecco lo schema proposto da sant’Ignazio: «Disse in croce sette parole: pregò per quelli che lo crocifiggevano; perdonò il ladrone; affidò Giovanni a sua Madre e la Madre a Giovanni; disse ad alta voce “Ho sete”; e gli diedero fiele e aceto; disse che era abbandonato; disse: “È compiuto”; disse: “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito”».